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Omnia

Delegittimazione filosofica dell’esistenza dei fantasmi

Razionalismo e Kant alle prese col paranormale e l’ignoto

Fantasmi RossiNella secolare tradizione letteraria, e soprattutto nella cultura popolare di ogni epoca e ogni luogo, i fantasmi hanno sempre ricoperto una funzione particolare; il mistero che essi incarnano, e il loro potere di fascinazione sull’immaginario collettivo (fin dall’infanzia) ne fanno un fenomeno a tutt’oggi ancora costante e frequente: stupisce scoprire come siano ancora molte le persone convinte dell’esistenza di spiriti inquieti che dimorerebbero ancora nel nostro mondo.

Che non si tratti di una ingenuità risolvibile con una accusa di arretratezza, lo testimonia la presenza costante dei fantasmi fin dalle culture indigene pre-civilizzate, una sorta di archetipo che manifesta il tentativo dell’uomo di relazionarsi all’ignoto per definizione, ovvero la morte e l’ Aldilà. È pur vero, però, che la credenza nei confronti dei fantasmi consiste nella risposta più semplice e affascinante da darsi, nella soluzione meno impegnativa, e al contempo una delle più stravaganti e fantasiose qualora si tenti di spiegare accadimenti e fatti “paranormali”: credere ai fantasmi dei defunti, o agli alieni, o ai mostri non ha grossa differenza.

La difficoltà di ammettere l’alterità irriducibile della morte ha da sempre condotto l’uomo a soluzioni che potessero depotenziarne l’assolutezza, riconducendone il mistero alle maglie delle facoltà umane, se non alla razionalità quanto meno all’immaginazione. Oltre alle architetture teologiche, o al sentimento di fede incondizionata che la maggior parte delle religioni promuovono, si è tentato di domare il mistero della morte e della scomparsa definitiva della coscienza attraverso la messa in immagine o la narrativizzazione. Sorvolando su implicazioni di ordine psicoanalitico, dove il fantasma assume la connotazione di una forza psichica, e tralasciando le origini del termine nel pensiero greco, che risalgono al phantasma di Platone (termina che stava ad indicare la “copia di copia” o simulacro), dare immagine alla morte, e immaginare uno “spazio terzo” di mediazione fra noi e l’ignoto, è un tentativo di ricondurre l’alterità allo scibile. La morte e il mistero finiscono così domati e assorbiti dal principio di identità: piuttosto che mantenere la dialettica irrisolvibile di vita e non-vita, di conoscibile e non-conoscibile, le regole e i principi del nostro mondo vengono rivolti anche alla morte snaturandola e livellandola sulla nostra esperienza.
Primo elemento tra tutti è l’attribuzione di un’istanza di visibilità agli spiriti, dato che la predilezione al regime scopico nell’ambito della percezione umana è dominante rispetto agli altri sensi. Certo, spesso si parla di “voci” dei defunti, raramente di odori, ma la tentazione di dare seppur un barlume di caratterizzazione ottica al fantasma è troppo forte, anche se si tratta di figure difficilmente riconoscibili, sagome o ombre sfuggenti, anche perché l’immagine ha una maggiore garanzia di credibilità, in quanto si pone sul piano della possibilità della percezione condivisa: mentre l’udito è più privato (io non potrei dimostrare esaurientemente di ascoltare una voce se l’altro non la sente), la visione è indicabile nello spazio, seppur la sua repentinità ne proibisce spesso la dimostrazione ufficiale dell’effettiva esistenza. Si tratta, dunque, di rendere sensibile ciò che per definizione non appartiene all’ordine dei sensi, per neutralizzare il terrore che sempre abbiamo avuto per l’ignoto.

Non si tratta di negare la possibilità di eventi che si sottraggano da spiegazioni e risoluzioni di tipo logico-deduttivo, ma il punto è proprio questo: troppo spesso è più forte la tentazione di preferire risposte suggestive e intriganti piuttosto che altre, giungendo alla contraddizione vistosa di rendere possibile l’impossibile. Dinanzi ai limiti della comprensione scientifico-razionale, giunti a quel punto, tutte le risposte si pongono allo stesso livello, nessuna di esse può avvalersi di criteri di veridicità più legittimi di altri perché siamo già al di là dell’orizzonte della casualità ordinaria: l’immagine o l’accadimento fantasmatico può essere stato causato dai folletti, o da creature che vivono in fondo agli oceani ed escono solo per prendere le sembianze dei nostri cari…

Sposa cadavere

Se ammettiamo l’impossibilità di esaurire completamente l’universo nella materia e nel calcolo scientifico (destino al quale l’Occidente è condannato, come sosteneva Heidegger, da quando l’essere è stato confuso con l’oggetto o ente), il problema è il tentativo di applicare il medesimo schema epistemologico basato sul paradigma causa-effetto per spiegare quegli eventi che si sottraggono ad esso. Dinanzi all’ignoto, non ci limitiamo ad accettare il mistero, ciò che per quanto ci sforziamo è perpetuamente altro da noi, ma tentiamo testardamente di spiegare, di comprendere e rispondere. La soluzione del “fantasma” e dell’immagine dei morti per comprendere l’impossibile non è che un ulteriore approccio di ordine epistemologico, per quanto travestito da altro; è una confusa applicazione del paradigma causa-effetto (mito del dominio della scienza occidentale), per il quale tutto deve avere una causa, tutto deve essere spiegato e risolto.

Per questo Wittgenstein, quando nel Tractatus Logico-philosophicus ammetteva timidamente l’esistenza di ciò che è altro dalla conoscenza logica e dal linguaggio (lo chiamava il “Mistico”), di esso non pronunciò nulla e concluse la sua opera con la celebre proposizione “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Ciò che esula le nostre categorie razionali deve essere mantenuto nel suo ambito, altrimenti tentare di rispondere al mistero significherebbe tornare all’identità della ragione dominante che non concede l’esistenza di ciò che è al di là delle sue possibilità e delle possibilità del linguaggio stesso. Ovviamente, si tratta di problemi particolarmente rilevanti per la filosofia, così come per l’antropologia stessa; infatti, in fin dei conti, dinanzi alla tesi sostenuta fino a questo punto, si apre un bivio, concesso solo qualora si condivida la prospettiva che il paradigma della causalità logico-deduttiva e della dimostrabilità scientifica è un’applicazione/proiezione della cultura umana per dominare il caos e non una proprietà oggettiva dell’universo (se non si ammette questo, allora si dice semplicemente che i fantasmi non esistono, e faremmo anche prima!).

Dinanzi a tale consapevolezza, l’approccio più adatto è l’ “abbandono al mistero”, che paradossalmente coincide con un “abbandono del mistero”: si tratta dell’adagio wittgensteiniano sul tacere, sull’accettazione dell’enigma che è anche un’umile adozione dei limiti della propria ragione e del proprio linguaggio. Qualora accadesse l’impossibile, il fatto è tale (impossibile) solo rispetto alle nostre facoltà mentali; tale agnosticismo rispecchia la prospettiva che ogni risposta sarebbe tanto valida quanto l’altra, perché tutte frutto della fantasia, o – come direbbe sempre lo stesso Wittgenstein – “proposizioni insensate”, perché non verificabili o falsificabili, quali sono anche le proposizioni della religione e della metafisica.

L’altra strada si rifà alla celebre frase di Heidegger, che nel Principio di ragione sosteneva l’impossibilità da parte dell’uomo di non chiedersi “perché”. In realtà, tale proposizione assumeva un tono aspramente polemico in Heidegger: l’accusa era rivolta alla modernità nella quale il pensiero calcolante e la tecnica sono diventate necessità antropologiche per dominare il mondo e gli eventi. Però, ora come ora, siamo in questo cerchio, in questo orizzonte dal quale non possiamo saltar fuori. O ammettendo la determinazione socio-culturale del nostro approccio logico-deduttivo, o ammettendo tale approccio come una necessità antropologica che caratterizza l’essere umano da sempre, potremmo ammettere l’impossibilità di conseguire una risposta definitiva (a quel punto l’affermazione “Credo ai fantasmi” sarebbe però senza senso) senza vietarci l’interrogazione e l’indagine sui fatti in questione. Insomma, se è il funzionamento del nostro cervello e del nostro intelletto a muoversi secondo il paradigma di causa-effetto, e se il nostro linguaggio si muove all’interno di limiti basati sulla logica, allora ci è concessa l’interrogazione e l’indagine sull’ignoto. A quel punto, però, bisogna tener conto anche del buon senso delle conclusioni, dei calcoli di probabilità delle varie risposte, facendone oggetto di dibattito (dibattito escluso da qualsiasi “atto di fede”, ovvero “ci credo VS non ci credo”, logica più appropriata all’agnosticismo o al fanatismo).

Se si rimane nell’ambito del dibattito razionale, allora ci sono risposte più adeguate di altre; a questo punto ci viene in soccorso niente poco di meno che Immanuel Kant in persona. Ancora giovane, il filosofo di Königsberg si interrogò proprio su questo tema; il suo pamphlet I sogni di un visionario fu scritto intorno alla metà del XVIII secolo. Da buon razionalista, Kant arriverà a conclusioni di ordine agnostico, ma passando attraverso la sottigliezza della speculazione razionale e l’opposizione energica alle teorie spiritualiste diffuse alla sua epoca e che sarebbero state messe al patibolo dall’avvento dell’Illuminismo (per poi tornare in auge nel Romanticismo). Maggior rappresentante e contemporaneo di Kant delle teorie spiritualistiche era Emanuel Swedenborg, chiaroveggente, mistico e teologo particolarmente di moda in quegli anni. Swedenborg credeva nella possibilità di evocare i morti, di mettersi in comunicazione con l’Aldilà e sosteneva l’esistenza effettiva delle anime dei defunti.

Fantasma

Kant, attraverso gli strumenti della sua metafisica, fece a pezzi gli assunti del collega: data la divisione cartesiana tra res cogitans e res extensa (che apparirà sotto altre forme nella dicotomia kantiana di noumeno e fenomeno), Kant rifiutava che i due piani potessero venire confusi. Pur ammettendo egli stesso, al di là di Cartesio, l’intreccio indissolubile di spirito e materia (abbandonando ogni rigido empirismo), Kant respingeva ogni possibilità di confusione tra le due: un fantasma non potrebbe in alcun modo appartenere alla dimensione sensibile, che invece è quella della materia. Non sarebbe visibile, perchè non potrebbe avere una forma: qualcosa può essere visibile e percepibile solo dal momento in cui appartiene all’ordine materiale delle cose (pensate al paradosso del film Ghost, dove il protagonista-fantasma attraversa la materia essendo uno spirito, ma cammina sull’asfalto e sui pavimenti). Tra materia e spirito non potrebbe perciò darsi comunicazione:

[…] l’anima umana già in questa vita è collegata in unione indissolubile con tutte le nature immateriali del mondo spirituale, che essa agisce su queste e ne riceve delle impressioni, delle quali però non è consapevole, come uomo, finché tutto va bene. D’altra parte è anche verosimile che le nature spirituali non possano avere immediatamente coscienza di alcuna impressione sensibile del mondo corporeo, perchè esse non sono collegate con alcuna parte della materia in una persona in modo da essere consapevoli, per mezzo di essa, del loro posto nel mondo materiale e, per mezzo di organi artificiosi, del rapporto degli esseri estesi con esse medesime e fra di loro […]

Molto più probabilmente, i fantasmi sono “sogni di un visionario”, ovvero visioni interiori che pretendono di essere esteriorizzate, in quanto l’uomo vuole necessariamente avere delle risposte sul mistero di ciò che lo attende oltre la vita. Convincendosi di ciò, la sua mente crea e proietta fuori di sé quelle che sono delle sue invenzioni mentali, perciò non si tratterebbe di malafede per chi sostiene di aver visto qualche fantasma (nella migliore delle ipotesi), quanto di un problema psicologico. Ora, se ci affidiamo alla ragione per relazionarci a questi eventi, e come abbiamo sostenuto è necessario rifarci anche sul livello di confutazione e dimostrabilità di una teoria (basandoci quanto meno sul calcolo probabilistico), se la possibilità che una persona sana di mente abbia delle visioni del genere è “una su un miliardo”, si tratta di una probabilità sempre maggiore rispetto a quella del ritorno dei morti sulla terra, che è “una su infinite” perché si tratta di un evento impossibile che si sottrae da quella stessa possibilità di calcolo. Ponendosi al di fuori del ragionamento, non può venire considerata nemmeno come possibilità, perché a quel punto non potrebbe “contendere” con altre tesi (e torniamo al mero “atto di fede”). Persino la tesi che quel fantasma fosse in realtà un tizio identico alla persona defunta che crediamo di aver visto ha maggiore probabilità di veridicità, ma anche la possibilità che due, tre, quattro persone abbiano la stessa identica visione nello stesso identico momento (quante saranno? Una su cento miliardi? Una su mille miliardi? Una su un trilione?) è comunque più probabile dell’impossibile.

E concludiamo con le seguenti – meravigliose – parole di Kant, a chiusa del suo saggio:

La ragione umana non è fornita di ali siffatte da potere fendere le alti nubi che velano ai nostri occhi i segreti dell’altro mondo, e ai curiosi che sono così smaniosi di indagarli si può dare la risposta semplice, ma molto naturale, che la cosa più prudente è di rassegnarsi ad aver pazienza finché non arrivino là.

Commenti

2 commenti a “Delegittimazione filosofica dell’esistenza dei fantasmi”

  1. Mah…

    Di giovanni | 7 Novembre 2011, 13:30
  2. Leggendo quanto avete scritto, mi sento un povero scolaretto difronte a Voi: Per cortesia, andate sul sito: veritaspiritismo altervista.org e fate un commento. Mi voglio tanto istruire. Grazie. Nicola

    Di Nicola | 17 Novembre 2011, 20:39

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