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Cinema

Due occhi fra Mille

Foto del Festival dei mille occhi“X”, come numero cardinale, perché I 1000 occhi, Festival internazionale del cinema e delle arti, è approdato alla sua decima edizione. Ma “x” anche come incognita. Interpretazioni che si accostano una all’altra, ma che si accatastano pure, per non  essere scisse e per sfidare assieme la Vertigo, la vertigine della visione.

Basta questo per intuire che al Festival non interessa essere complice  di una cinematografia accomodante, che si arrende ai vili sistemi economici che ne guidano la produzione. Grazie alla guida del direttore artistico Sergio Grmek Germani, allora, il pubblico dei 1000 occhi ha l’occasione – ormai rara – di vivere una vera e propria esperienza cinematografica attraverso un programma che non vuole banalmente stravolgere un ordine per dar vita al caos (di questo si occupa già una certa autoreferenziale avanguardia spiccia…), bensì smuovere una parte intima dello spettatore, la cui emotività è stata giocoforza intaccata dal piattume culturale che i burattinai sociali cercano d’imporre. Più di cento pellicole a disposizione per farlo, suddivise in generi e rassegne che spaziano dai temi economici a quelli religiosi (eretici) e letterari. Contestualmente, l’elenco dei registi prevede italiani e stranieri, senza privilegiare quelli più famosi (Rossellini, Cottafavi, Comencini, Klopčič) per snobbare quelli dal nome meno altisonante come Klaus Wildenhahn (Premio Anno Uno di quest’edizione), Roberto Palma, o lo stesso Peter Lorre, indimenticabile attore, la cui incursione nel mondo della regia tramite la direzione di un solo film (Der Verlorene) è stata trascurata.

Klaus Wildenhahn

Il festival – come dichiarato nei suoi intenti – si rivela quindi una vera e propria avventura, in cui anche passato e presente, svincolandosi dalle imposizioni temporali, attingono l’uno dall’altro per mettersi a servizio dello spettatore, che sente la necessità di perdersi grazie alla caduta preannuciata dalla vertigine, per scontrarsi col proprio sé, magari recuperandolo attraverso la dimensione del sogno, che prevede non tanto il rassicurante equilibrio dei luoghi comuni, né contorni-confini definiti, quanto piuttosto sovversioni e condensazioni di ruoli e termini. Festival stra-ordinario, allora, che trova terreno fertile in una programmazione che non teme di disorientare, che forse vuole dare più domande che risposte,  che non cerca la compiutezza di soluzioni, per avvicinarsi – ancora – al paradosso, come quello ben racchiuso nell’immagine simbolo  di due parallele che convergono.

I mille occhi Festival del cinema e delle arti

Un giorno fra Mille

Dopo ogni proiezione dei 1000 Occhi lo spettatore avrebbe bisogno di una certa latenza per riuscire a metabolizzare quanto ha appena visto, come se in lui, tramite il film, si fosse insinuata una qualche scomoda verità, che finisce per fargli capire che non è sempre possibile scendere a compromessi col “sé”. Non è semplicemente cinema: si tratta invece di porzioni di vita, del “fardello” che può essere l’esistere, talvolta.

Marina BertiCon La porta del cielo (1944), il maestro Vittorio De Sica ci porta fra i malati che intraprendono il viaggio della speranza verso Loreto. Storie disperate che s’intrecciano nell’attesa di un miracolo: una governante, un pianista, un cieco, un bambino paraplegico. Fra dolore, sensi di colpa e devozione, questo capolavoro inserito nella rassegna Viaggio in Italia 45/48 ci fa dissotterrare la testa dalla sabbia dopo averla immersa per aver ceduto all’illusione che, allontanando l’idea del dolore, esso possa svanire. E la fede? Il film fu commissionato dal Vaticano che – come era prevedibile – lo considerò poco rispondente all’ortodossia cattolica: troppe le concessioni al libero arbitrio (che può portare addirittura alla contemplazione del suicidio) e troppo flebile la voce del dogma nella storia? Forse il Centro Cattolico Cinematografico sperava che – almeno sullo schermo – la misericordia di Dio agisse a comando. Indisciplinatamente, De Sica, contrastando la Chiesa, attacca ogni forma di coercizione e, dato il periodo storico, va a colpire inevitabilmente il fascismo. La porta del cielo, allora, non può che essere un film politico e, quindi, incredibilmente attuale.

Non di meno risulta esserlo La vita ricomincia di Mario Mattoli (1945), dove, all’interno di un dramma familiare, la corruzione – che parte dal corpo per sporcare l’anima – sembra l’unica soluzione a portata degli indigenti. La ricchezza si fa ricatto e chi è povero è costretto a cedervi, non per vizio, ma per necessità, per sopravvivenza. Davvero un ritratto del nostro passato? Perché, se scartiamo per un attimo l’entusiasmo da cui siamo colti riguardando recitare la straordinaria Alida Valli, realizziamo che le vicissitudini narrate da Mattoli sono molto simili a quelle di cui si avvalgono i nostri contenitori televisivi a caccia di audience  e inorridiamo, quindi,  al pensiero che siano relegate all’intrattenimento.

Disorientati da un esterno in decadenza, forse dovremmo vivere come se ci rimanessero solo dieci minuti. È quel che suggeriscono Leo Longanesi e Nino Giannini in Vivere ancora (1943/1945), nel quale la notte di Natale, gli inquilini di un palazzo sembrano destinati a una tragica fine a causa degli intenti terroristici di un pazzo deciso a farli saltare in aria. Non prima di averli avvisati, però… Le situazioni che ne emergono sfiorano il grottesco, ma il lieto fine non è certo, nonostante la scoperta di un difetto della bomba. L’“averla scampata” è un monito che invita ad agire con coscienza, tenendo sempre vivido il ricordo di quella paura che ha dato finalmente valore alla vita, la nostra.

Senza Mostra

Pur operando in maniera diametralmente opposta, anche Jean-Claude Rousseau pare voler divulgare lo stesso messaggio. Lo fa per contrasto, mettendo in scena una sorta di apatia, dapprima con Senza Mostra (2011), ambientato a Venezia, e poi con Festival (2010) girato fra le strade e dentro le stanze a Torino. Camera fissa, piani sequenza, dialoghi quasi assenti rendono bene il grigiore della vita. Anche chi è protagonista – come lo stesso regista presente in sala – pare non esserlo effettivamente, alla stregua di chi è solo di passaggio. Come fosse inconsapevole dell’effimerità dell’esistenza, ne sciorina la noia mettendola sullo schermo tramite la lentezza, la modularità, la staticità. Rosseau si muove sottraendo e ci conduce con cautela verso la desolazione, la spossatezza, la “volgarità” (in ogni sua accezione) dell’uomo che lo porta a entrare nella vita pressoché accidentalmente.

Chi invece trasuda energia è la protagonista di Trittico di Agata Schwarzkobler, l’anteprima con cui viene ufficialmente inaugurato il festival. Tratto dal romanzo di Rudi Šeligo del 1968, il film è una produzione televisiva del 1997, che vede finalmente, dopo quindici anni, la sua copia cinematografica in 35mm, così come era sogno del suo regista, Matjaž Klopčič, deceduto nel 2007. Indispensabile il raggiungimento di questo obiettivo per la diffusione di un’opera straordinaria della Slovenia post socialista, nonché del lavoro più importante di Klopčič, “il grande amore della sua vita”, come testimonia incredibilmente la moglie commossa presente in sala.  Insieme a lei, Nataša Barbara Gračner, la magnifica e intensa protagonista del film, che ricorda come Klopčič, esperto e attento a tutte le arti, era andato a vederla in La signorina Giulia per ben cinque volte prima di proporle la parte. Ascoltandola parlare in sala, è evidente il suo fondamentale contributo a questo film capolavoro, perché – dopo la visione – si è sicuri che lei, Nataša Barbara Gračner, è anche la sensuale Agata. Agata come Eva, come Maddalena, tanto tentata quanto tentatrice. Agata ammalia, provoca, seduce fingendo inconsapevolezza, poi si ritrae, si spaventa, è ingenua, è maliziosa, immorale perfino. Agata è un personaggio dirompente, ma al contempo indefinibile perché è concepita tramite ossimori e cammina in bilico fra verità e menzogna, fra realtà e immaginazione, fra concretezza e impalpabilità in un mondo narrativo straripante di simbologie che ne rafforzano l’equivocità e ne negano l’armonia. Un film sulla donna, dunque, sulle sue sfaccettature, sulla sua impossibilità di poter essere tratta in tranello, sulla sua intelligenza, sul suo essere più elementi – tutti fondamentali – senza bisogno di farne prevalere uno. Raramente il grande schermo ha ospitato tanto erotismo in un solo sguardo.

Matjaz Klopcic

E se i giullari non fossero loro?

Un festival creato su tanti tasselli perché ancora “in progress”, come usa definirlo il suo direttore artistico Sergio Grmek Germani. Questo non solo per la varietà del programma, ma soprattutto perché il suo essere in divenire lo lega anche allo spettatore: a lui, infatti, è dato il compito di trovare i collegamenti (spesso imprevisti) che gli sono maggiormente congeniali, essendogli così concessa la possibilità di spaziare intellettualmente, nonché la rara chance di godere di una visione libera, quasi eretica. Alla rassegna “I Giullari di Dio” sono state affidate alcune delle prime e seconde serate della settimana. È dunque ai “profeti e messia nascosti del cinema italiano” che è chiesto di interloquire con lo spettatore, senza paura di risultare essi per primi blasfemi, puntando il dito quando necessario contro l’istituzione Chiesa, a cui scelgono di ribellarsi.

Beppe Grillo in Cercasi Gesù

L’autostoppista Giovanni (Beppe Grillo), in Cercasi Gesù di Comencini, è il volto scelto da una casa editrice cattolica per lanciare una collana a puntate sulla vita del Messia. Grillo, vincitore di un Nastro d’argento e di un David per questa interpretazione, è capace di trasmettere la pena del protagonista, che scopre, nel tentativo di aiutare gli altri, che la fiducia nell’essere umano porta sovente ad amare delusioni, come se la mala-fede avesse sempre la meglio. La sua sagace comicità tuttavia non lo rende ingenuo ai nostri occhi, ma, in linea col suo personaggio, ci aiuta anzi a trasformarlo in un “Gesù Cristo pentito”. I suoi sforzi di fare del bene portano a un aggravamento delle situazioni di disagio, la cui origine è la negligenza della chiesa che considera più importante la sua missione evangelica rispetto alla possibilità di fare opere buone. È, allora, la Chiesa per prima a non credere in Gesù, che è solo un mezzo per gonfiare le proprie tasche, ed è disposta a pagare fior di quattrini Giovanni pur di poter tappezzare le strade di Roma col suo volto, ma – con la scusa delle sue (sedicenti) virtù che non le permettono di scendere a compromessi – non paga un riscatto per liberarlo da un gruppo di terroristi di sinistra. È stata la sua “Maddalena”, Francesca (un’originale Maria Schneider), a organizzare il suo rapimento, per evitare che i suoi compagni si vendicassero di lei per non essere riuscita a compiere un omicidio, inibita dai racconti di Giovanni. Alla fine, però, sarà solo lei a sacrificarsi per lui. Il film inverte di ruolo il bene e il male, scardinandoli dai luoghi comuni per riappropiarsi di un Gesù-Giovanni infinitamente buono e – a sua insaputa – capace di miracoli, ma soprattutto uomo e non solo simulacro, come la Chiesa desidera (per sé) per ragioni di convenienza, al punto da ricoverarlo in un centro di salute mentale.

Foto del Festival dei mille occhi 3

Folle è considerato anche il gesto del protagonista di Centochiodi di Ermanno Olmi, il professore di filosofia delle religioni interpretato da Raz Degan che inchioda (crocifiggendoli) gli incunaboli e i manoscritti antichi della biblioteca universitaria perché “c’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri”. Un gesto apparentemente sacrilego, ma ispirato dalla sana volontà di un ritorno a quei valori che davvero possono salvare l’uomo da ciò che lo distrae dalla vera felicità. I libri diventano allora il simbolo dell’indottrinamento religioso – ma non solo – che ha dato l’illusione della certezza, della Risposta, allontanando l’uomo dalla verità che risiede nel suo profondo. Il film toglie, perciò, la parola scritta dal piedistallo: essa, univoca e indisposta al dialogo, è rea di ostacolare la via dell’autenticità, precludendo armonia col prossimo e la natura.

Beppe Grillo e Raz Degan ovviamente riprendono nei tratti del volto l’iconografia classica di Cristo, eppure i loro personaggi sono la negazione dell’icona-idolo, perché il loro ruolo è di opporsi a una religione che li preferisce piegati ad essa piuttosto che consapevoli. E che li vorrebbe automi per salvaguardare i propri interessi. Entrambe le pellicole, girate a distanza di venticinque anni l’una dall’altra, avrebbero potuto cedere al richiamo di un facile moralismo di condanna, e invece, grazie alla bravura di Comencini e Olmi, riescono a operare un capovolgimento fra sacro e profano, senza avvalersi di toni sentenziosi e retorici.

Foto del Festival dei mille occhi 2

Chi, poi, non ha per nulla timore di risultare addirittura politically incorrect è Pasquale Squitieri, che porta al Festival il suo film d’esordio Io e Dio, del 1970. Finanziato con due milioni di lire da Vittorio De Sica, il film, considerato eccessivo, ebbe scarso successo di pubblico, ma diede le coordinate per l’opera futura del regista. Un’opera difficile esteticamente, ma soprattutto scomoda per le tematiche che affronta, senza filtri né stratagemmi narrativi volti a edulcorare la realtà. Storie crude, allora, indisponenti per i detentori del potere ma – ahinoi – atrocemente attuali. Io e Dio, pur mantenendosi nella cristianità, racconta le vicissitudini di un cosiddetto “cane della chiesa” pugliese, ossia uno di quei preti che lottano contro l’istituzione Chiesa e la sua anacronistica ortodossia che la porta a una certa indifferenza verso l’agire della malavita. Il film possiede la fermezza del regista. Presente in sala, Squitieri ha il vigore della sua napoletanità nel modo di porsi e di parlare al pubblico, e l’enfasi propria di chi vuole lasciare qualcosa d’importante. Si trova lì “per comunicare” – dice. Parla della religione, delle sue imposizioni, del pericolo rappresentato da alcune ideologie, ma al di là dei messaggi, quel che trasmette è il coraggio della propria verità. Il cinema allora si fa impegno civile, ricerca, disvelamento di situazioni celate dalle dinamiche di uno Stato viziato e corrotto, che non ebbe alcuna remora a censurare il suo film La musica nelle vene del 1973, adducendo come motivazione che il problema della droga in Italia non esiste. Non solo per onor di cronaca, ma con un certo intento provocatorio, il regista inoltre sottolinea, durante la presentazione del volume a lui dedicato “Pasquale Squitieri un autore di cinema… e non solo” (a cura di Domenico Monetti, Guida Editori, 2009), come basti varcare i nostri confini per trovare governi che riconoscono il valore educativo della sua opera, tanto che in Francia, a tutt’oggi, il suo film Atto di dolore del 1990 è obbligatorio nelle scuole.

Un tono rude e nobilmente impavido, dunque, quello con cui si rivolge al nostro Paese e ai suoi rappresentanti politici verso cui pare nutrire ben poca stima: “La politica deve smetterla di pensare di fare, ma iniziare a fare”, aggiungerà in conferenza stampa. E a ulteriore dimostrazione che Squitieri non è personaggio a caccia di consensi, timoroso d’incolpare apertamente i preposti dello Stato, guarda dritto in faccia – come a sfidarlo – l’assessore alla cultura Andrea Mariani, mentre lo dice e mentre ammette che il cinema italiano, a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, è morto. Dura la sentenza, ma emessa paradossalmente senza aria di resa e con la rabbia di chi, nonostante la delusione, ha ancora voglia di lottare.

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