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Scrittura

Roberto Bonfanti

Breve viaggio sentimentale

Furono giorni lenti, quelli che seguirono il risveglio di Elisabetta nel suo letto a casa della nonna. Giorni lenti e vuoti, ma in modo leggero, come sospesi in uno stato amniotico di calma assoluta. Senza nessuna fretta di ripartire, nessuna smania di dover comunque riempire ogni istante e nessuna urgenza di dare per forza alla sua vita una nuova direzione definitiva.

Roberto Bonfanti, In fondo ai suoi occhi.

Roberto BonfantiNato nella provincia lecchese nel 1980, Roberto Bonfanti è uno scrittore tanto giovane quanto prolifico, essendo già stato capace di dare alle stampe tre opere narrative in pochi anni (e tra non molto, chissà, anche un nuovo lavoro).
Dopo il suo esordio letterario nel 2007, con la raccolta di racconti Tutto passa invano, nel 2009 è la volta del primo romanzo, L’uomo a pedali, seguito nel 2010 dalla sua ultima prova narrativa, In fondo ai suoi occhi. Romanzo complesso, quest’ultimo, ricco delle contraddizioni e dei dubbi della vita portati alla luce dalla protagonista, Elisabetta, vero fulcro su cui ruota attorno tutta la vicenda. Ed è ripercorrendo le avversità e le avventure emotive di una ragazza come tante, essenziale e disincantata, che lo scrittore tratteggia pensieri e paure che nascono quando si è alle prese con il mestiere di vivere.
Impegnati a seguire il percorso a ritroso della giovane alla ricerca di un futuro da costruire, il lettore a tratti rimane affascinato dalla leggerezza di questo personaggio femminile, finché non si ritrova spiazzato per alcune scelte che, quasi di sorpresa, verranno intraprese dalla giovane donna.
Emerge dalla trama un quadro in cui il complesso rapporto con la madre sembra poter essere l’elemento scatenante di una individuale e silenziosa tragedia interiore, e dove la precarietà nell’ambito lavorativo viene rispecchiata nella transitorietà delle relazioni personali. Si apre la strada per un viaggio sentimentale che vedrà l’incomunicabilità, unita alla dissoluzione dei sentimenti, la continua nota dolente tra le pagine dell’opera.
Ma queste sono solo possibili interpretazioni di un testo che potrà suggerire al lettore anche altri punti di vista, nella convinzione – sia mia che dell’autore –, che nella semplicità di Elisabetta ognuno possa immedesimarcisi di riflesso.
Così, abbiamo chiesto all’autore di poterci raccontare ancora qualche elemento per poter mettere meglio a fuoco la sua personale eroina, e di dirci qualche parola su di lui e sul suo lavoro creativo.

Domenico Policarpo (DP): Quando ha iniziato a scrivere? Cosa sentiva la necessità di raccontare?

Roberto Bonfanti (RB): Il mio primo goffo tentativo di mettere su carta un racconto risale a quando avevo circa sette anni, per cui fondamentalmente ho sempre scritto, anche se l’ho sempre fatto solo per me stesso, per mettere ordine fra i miei pensieri, in modo estremamente discontinuo. Diciamo che sono sempre stato una di quelle persone che hanno bisogno di guardarsi allo specchio attraverso un foglio di carta e un pugno di parole.
L’esigenza di pubblicare qualcosa è arrivata molti anni più tardi, soprattutto dopo l’incontro fortuito con lo staff di Falzea Editore che mi ha spronato a lavorare sulla scrittura con più serietà e continuità. E di questo non potrò che ringraziarli sempre, perché lavorare sulle proprie parole significa fondamentalmente lavorare su se stessi, sui propri sentimenti e sulla propria visione del mondo. È qualcosa di molto forte che ti porta a cambiare molte prospettive.

Copertina di In fondo ai suoi occhiDP: Parlando del processo creativo, lei aspetta l’ispirazione prima di affrontare il foglio bianco oppure si impone un rigoroso programma con ore di lavoro ben precise?

RB: Credo che per costruire un buon romanzo siano indispensabili tanto la scintilla emotiva iniziale quanto il successivo lavoro rigoroso. Io in genere tendo a prendere “appunti emotivi” quasi sempre nel corso della mia vita. Poi arriva il momento in cui mi rendo conto che le sensazioni accumulate in un determinato periodo sembrano avere un filo conduttore comune che li rende potenzialmente parte di un corpo unico e allora provo a “mettere insieme i pezzi”, arrivando a tirare le fila con un lavoro che diventa sempre più meticoloso man mano che il romanzo prende forma.

DP: Com’è nato il suo ultimo lavoro editoriale In fondo ai suoi occhi?

RB: La storia di fondo mi è praticamente piovuta addosso durante l’inverno di quattro anni fa. Ciò che mi interessava però, più che raccontare la storia in sé, era esplorare l’animo della protagonista e farne una sorta di ritratto emotivo scendendo a fondo fra le sue contraddizioni, navigando fra la sua forza esteriore e la sua fragilità più intima.
Il secondo intento era quello, attraverso lo sguardo di questa ragazza e le sue vicissitudini, di fotografare alcune sfumature del mondo e dell’epoca in cui viviamo, che trovo sia altrettanto ricca di contraddizioni.

DP: “Madame Bovary, c’est moi” disse Flaubert, a sottolineare quanto di biografico ci fosse nella sua opera. Mi chiedevo quanto di personale ci potesse essere in Elisabetta…

RB: Credo sia naturale che la scelta del punto di osservazione condizioni inevitabilmente il panorama che si vede. Detto questo, penso che, se si vuole cercare qualcosa di me in questo romanzo, non lo si debba fare nel personaggio di Elisabetta in sé, quanto nel modo in cui racconto la sua storia. E soprattutto, come è naturale che sia, c’è tantissimo del mio modo di vedere il mondo nel modo in cui racconto la realtà che le scorre accanto e nelle riflessioni che ogni tanto attribuisco a lei.

Copertina di Tre camere a Manhattan di SimenonDP: Per la creazione della protagonista si è ispirato, o avrebbe voluto che questa assomigliasse, per carattere o sensibilità, a qualche figura in particolare della letteratura o dell’arte in genere?

RB: Sinceramente, nel momento in cui scrivevo, avevo così chiaro ciò che volevo delineare che non sentivo il bisogno di confrontarmi con altri modelli letterari.
A posteriori ammetto che non mi dispiacerebbe se chi leggesse il romanzo ritrovasse qualche affinità fra Elisabetta ed i personaggi femminili di alcuni romanzi di Simenon, come la protagonista di Betty o la donna di Tre camere a Manhattan.

DP: Elisabetta sembra lasciarsi vivere passivamente, bloccata da un malessere interiore; prova a spostarsi, a viaggiare, ma sempre senza un programma ben preciso o un obiettivo da raggiungere. Un vuoto – e un dolore – causato dalla rarefazione dei sentimenti, siano questi familiari o sociali?

RB: Su questo mi permetto di essere d’accordo solo in parte. Giustamente ognuno è libero di interpretare la storia a proprio modo e soffermarsi sugli aspetti che più lo colpiscono, ma personalmente credo che Elisabetta sia un insieme di contraddizioni: un misto di forza e fragilità.
È vero che il romanzo scava molto a fondo nell’animo di questo personaggio arrivando inevitabilmente a mettere a nudo la sua fragilità di fondo e le sue inquietudini profonde; ed è vero anche che nei suoi spostamenti non c’è mai nulla di programmato e probabilmente alla base di tutto c’è la difficoltà di riuscire a trovare davvero il proprio posto nel mondo. Però si tratta anche di una persona capace di prendere con grande coraggio decisioni forti e drammatiche: vista dall’esterno è una donna che sembra in grado di sfidare il mondo intero senza mai piegarsi e senza mostrare a nessuno le proprie ferite. Non credo che si lasci vivere: a suo modo, tenta di reagire e di rimettersi continuamente in gioco. Anche la sua decisione finale credo sia una sfida enorme ai preconcetti di tutti i mondi con cui si è trovata a confrontarsi nel corso della sua vita. Non a caso solo dopo quell’ultima “sfida” riesce a liberarsi delle lacrime che aveva accumulato negli anni precedenti.
Questa, però, è la visione di lei che ho io. Parlando con i lettori mi rendo conto che Elisabetta ha lasciato in ognuno delle sensazioni diverse: in alcuni ha suscitato persino antipatia mentre in altri tenerezza e comprensione e, in fondo, credo sia giusto così. Sicuramente non è un’eroina senza macchia e senza paura o un modello di perfezione. È una ragazza come tante, figlia della nostra epoca, con i propri fantasmi, le proprie inquietudini e la propria fragilità.

Copertina di L'uomo che guardava passare i treni di SimenonDP: Quali sono gli autori che hanno influenzato maggiormente il suo stile, e quali opere ritiene siano state fondamentali per la sua crescita come romanziere?

RB: Sicuramente Georges Simenon, con romanzi come La neve era sporca o L’uomo che guardava passare i treni, mi ha segnato molto: ho sempre amato il suo approccio umano alla narrazione. Accanto a lui metterei John Fante con Chiedi alla polvere e la saga con protagonista Arturo Bandini.
Fra le altre opere che ritengo fondamentali per la mia crescita citerei Opinioni di un clown di Heinrich Böll, Le braci di Sandor Marai, Post office di Bukowski o Tropico del cancro di Henry Miller.

DP: Progetti per il futuro? Ha nel cassetto altre opere?

RB: Ho da poco ultimato la stesura di un nuovo romanzo: un lavoro che si staccherà un po’ da In fondo ai suoi occhi per riavvicinarsi all’approccio narrativo de L’uomo a pedali, il mio romanzo precedente.
Non so ancora come e quando uscirà, ma spero comunque di vederlo in libreria nel corso del 2012. Non sono uno di quegli scrittori che riescono a tenersi le storie nei cassetti per anni.
Vedremo…

Roberto Bonfanti è nato nella provincia lecchese nel 1980. Esordisce nel 2007 con la raccolta di racconti Tutto passa invano (edizioni Uni Service). Nel 2009 esce il suo primo romanzo, L’uomo a pedali, a cui fa seguito nel 2010, In fondo ai suoi occhi (entrambe le opere sono edite da Falzea).

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