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Musica

Dome, il lato oscuro dei Wire

1-4+5Chi mastica un pochino di musica underground e chi ha vissuto il periodo fine anni Settanta – inizio anni Ottanta sa cosa abbiano rappresentato i Wire nell’evoluzione della musica pop, nel senso stretto del termine. Le loro strutture melodiche, ritmiche e armoniche diedero il via a quel gran calderone che fu la new wave, ingiustamente accusata di aver aperto la via alla ‘musica di plastica’ costruita dalle major in base alle indagini di mercato. In realtà, la musica degli anni Ottanta conteneva in sé molta voglia di innovare e svecchiare le vetuste strutture del rock. In questo senso i Wire furono maestri. L’unione di elettronica, funk, minimalismo e avanguardia con il pop rock dell’epoca, segnò un indubbio progresso, aprendo scenari che sarebbero poi stati sviluppati da decine di altre band, per non parlare dei loro act, teatrali e visionari al limite del dadaismo. Come tutti i grandi innovatori, i Wire furono un passo avanti rispetto al loro tempo, per cui la loro arte fu fruita solo da una ristretta cerchia di appassionati, salvo poi venir riscoperta negli anni successivi. Nel 1980 il gruppo interruppe la propria attività, sia perché in polemica con la casa discografica, la EMI, riguardo alla promozione del loro disco 154, sia per le divergenze fra Colin Newman, il mastermind del gruppo, Graham Lewis e Bruce Gilbert, rispettivamente bassista e chitarrista dei Wire. È dall’iniziativa solista di questi ultimi che nasce l’esperienza Dome, ovvero il progetto di cui l’attivissima label Editions Mego ha deciso di ristampare, in un elegante box, i cinque lavori, semplicemente intitolati con un numero progressivo. Da un punto di vista cronologico, i primi tre album (Dome 1, Dome 2 e Dome 3) uscirono fra il luglio del 1980 e l’ottobre del 1981, su una etichetta appositamente creata, la Dome Records. Il quarto album, conosciuto come Dome 4, ma in realtà intitolato Will You Speak This Word: Dome IV, uscì nel 1983 per la label norvegese Uniton Records, mentre per la quinta release, Dome 5 – Yclept (Mute Records), si dovette aspettare il 1988, complice anche la reunion dei Wire. L’uscita del box set sembra fatta apposta per aprire uno spiraglio di luce su uno dei gioiellini più nascosti della musica sperimentale e di avanguardia.

Dome 1

La prima esperienza musicale dei Dome, ovvero Dome 1, mette in evidenza un atteggiamento ipnotico e meditativo, ben rappresentato ad esempio dalla prima traccia Cancel Your Order, che riprendeva alcune istanze del gruppo madre, portandole, però, verso un estremo sperimentale che trovava il suo seguito naturale nella voce eterea e stregata dell’Angela Conway di Cruel When Complete, una specie di messa laica registrata in presa diretta. And Then è, invece, un blues obliquo intriso di lugubri atmosfere new wave, dove le chitarre si liquefanno, estremo omaggio all’arte di Captain Beefheart. L’andamento sognante del disco è interrotto dalla marcia percussiva di Here We Go, mentre i due brani successivi, Rollin Upon My Day e Linasixup, riprendono le atmosfere tipiche dei Wire. La conclusione, affidata a Airmail, Ampnoise e Madman ci riporta al mood sognante di inizio disco. Rispetto ai lavori con i Wire, Dome 1 è già un punto di rottura, in cui i due protagonisti mettono in mostra una innegabile padronanza delle strumentazioni di studio, girando e manipolando i suoni in maniera mirabile.

Come detto, a pochi mesi di distanza viene dato alla luce Dome 2, che si rivela la logica continuazione del precedente. Red Tent I si apre come si era chiuso Dome 1, ovvero atmosfere ipnotiche e rarefatte, che si aprono poi nella new wave sbandata di Red Tent II. Ancora blues obliquo con Breathsteps, mentre il gruppo madre viene debitamente omaggiato con Long Lost Life e Ritual View. L’apice dello sperimentalismo vien raggiunto con Twist Up e con i sette minuti di Keep It, ottima suite d’avanguardia.

Dome 3

Alla fine del 1981 esce Dome 3 e il progetto sembra muoversi su sentieri diversi rispetto ai primi due album. Il primo pezzo Jasz anticipa molte istanze ambient, inserendo sottili motivi orientali. Il muro di feedback di Ar-Gu riprende le intuizioni di gente come The Jesus And Mary Chain, così come le cadenze robotiche e industrialoidi di An-An-An-D-D-D rendono omaggio a Suicide e Amon Duul II e il pop sbilenco e zoppicante di Ba-Dr richiama alla mente le cose più stralunate dei Talking Heads. Solo per questi primi pezzi Dome 3 va considerato un deciso passo avanti nell’arte di sperimentare a trecentosessanta gradi dei due ex Wire, come confermato dagli altri pezzi presenti, strani già a partire dai titoli (Na-Drm, Ur-Ur, tanto per fare qualche esempio), che abbracciano le più disparate influenze musicali, avvicinandosi all’arte del grande Frank Zappa.

I due anni passati fra Dome 3 e il successivo Dome 4 – Will You Speak This Word sembrano far maturare ancora di più il duo. Innanzitutto, vi è uno dei brani più lunghi della loro produzione, ovvero quel To Speak della durata di oltre diciotto minuti. Ad una prima parte tetra e con un anima vocale, quasi da canto gregoriano, fa da contrappunto una accelerazione dei ritmi fra vorticose incursioni jazzate che si aprono alle atmosfere orientali della parte centrale. La chiusura è affidata ad un lungo drone, quasi dark ambient, molto avanti per quei tempi. Gli altri pezzi vanno dalla world music percussiva di To Walk, To Run al delirio ipnotico di This per chiudere con la cacofonica, ma non fine a se stessa, Atlas.

È bello vedere come chi vuole veramente esprimersi attraverso la musica non cerchi di piacere a tutti i costi, magari ammorbidendo i toni e rendendo meno taglienti i contorni, ma anzi tenda ad accentuare le asperità della propria musica, per renderla più complessa approfondendo al tempo stesso il livello della comunicazione. L’opera dei Dome in questo album travalica il mondo sensoriale per arrivare a toccare il lato inconscio della natura umana, quello vero che spesso fa paura. Dome 4 sembrava essere la pietra tombale della loro epopea, complice anche la reunion dei Wire, ma in realtà, e per fortuna, non è stato così.

Dome 5

Nel 1988 infatti è uscito Dome 5 – Yclept. Il fatto che esso venga riproposto nel box-set della Editions Mego è forse il lato più importante di questa operazione. Dome 5 infatti, a differenza dei suoi predecessori mantenuti in stampa per anni, fu fatto uscire dalla Mute Records e rimase disponibile per pochissimo tempo, ed è quindi il disco più raro del gruppo. Rispetto agli altri quattro, Dome 5 è probabilmente il lavoro più sperimentale e meno accessibile, a partire dall’iniziale Virtual Sweden, incalzante pop elettronico in cui aleggia ancora il fantasma dei Suicide. Plosive Pluck riprende, invece, atmosfere tipiche delle sonorità industrial, cosa che accadrà anche in altri episodi del disco come Vertical Seeding (in cui si rinvengono anche tracce dark ambient) e Making A Meeting. Una citazione meritano anche le due versioni di Because We Must. Nella prima, il pezzo si presenta come una new wave destrutturata e caotica, rivelando invece tutta la sua bellezza melodica nella seconda.

In conclusione, si può dire che l’operazione di archeologia musicale della Editions Mego in questo caso centra pienamente l’obiettivo. Da una parte recupera alcuni gioielli della musica elettronica e d’avanguardia degli anni Ottanta, dall’altra rivela, a chi non lo conosceva, il lato più sperimentale di quelli che furono i Wire, una delle band più influenti nella storia del rock.

Commenti

Un commento a “Dome, il lato oscuro dei Wire”

  1. Le Vostre parole sono pienamente condivisibili,
    Dome sono stati assolutamente stimolanti, potenti.
    “Let’s panic later” quando uscì in 45 giri,
    diventò la mia colonna sonora quotidiana per settimane.
    Complimenti.

    Roberto Nanni

    Di Roberto Nanni | 28 Gennaio 2012, 09:10

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