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Omnia

Azra Nuhefendić

Il viaggio verso un futuro incerto

In questi ultimi anni, sono stati scritti centinaia di articoli, libri e cronache storiche su ciò che è accaduto durante la guerra di dissoluzione della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. Sappiamo tutto: chi ha fomentato la guerra, quali erano le parti in causa, il numero delle vittime. Mai, invece, ci interroghiamo sul dopo; su cosa è rimasto di quelle città distrutte, di quelle famiglie di musulmani, serbi e croati mutilate e divise. Ed ecco, allora, che in soccorso alla nostra voglia di sapere viene l’incontro con Azra Nuhefendić, che ha da poco pubblicato il volume Le stelle che stanno giù.

Sarajevo

Alessandro Ortis (AO): Nella prefazione del suo libro, scritta da Paolo Mastroianni e intitolata Oltre la fine del film, si parla di ciò che è avvenuto dopo la guerra in Bosnia-Erzegovina. Oggi, due decenni dopo gli accordi di Dayton, come vive il suo paese?

Azra Nuhefendić (AN): La situazione peggiora sempre di più. Potrei dire che questi ultimi sono gli anni più difficili della Bosnia-Erzegovina dal dopoguerra. Durante il conflitto, c’era un nemico da combattere, che sparava sulla tua casa, sulla tua città e voleva la tua morte. Oggi, invece, c’è un nemico ben peggiore, che non spara nessun proiettile, e si chiama politica. A distanza di vent’anni da Dayton, oggi in Bosnia-Erzegovina i politici parlano di dissoluzione, sull’opportunità di compierla ora o in un prossimo futuro. Questa, però, è un’idea prettamente loro. La maggior parte della gente comune non crede in una nuova divisione: ancora esiste il multiculturalismo che ha da sempre contraddistinto il paese. I politici che portano avanti queste rimostranze vogliono finire un crimine cominciato con la guerra: distruggere una comunità. La mia preoccupazione è che se il loro folle progetto andrà avanti, avrà pesanti conseguenze, e darà vita a nuove violenze. Torneremo indietro nel tempo.

AO: L’attenzione dei media internazionali è tornata sulla Bosnia-Erzegovina in seguito all’arresto di Ratko Mladić, prima, e Goran Hadžić, poi, lo scorso maggio. Dopo, però, tutto è tornato nel silenzio.

AN: Le notizie si susseguono. Oggi, anche se è passato poco tempo, nessuno parla più della Libia o dell’Iraq. Le cronache seguono i focolai di notizie più forti, dimenticandosi degli altri. Per la Bosnia è accaduto lo stesso. La comunità internazionale ha abbassato l’attenzione nei confronti delle notizie provenienti dalla Bosnia: la crisi economica internazionale ha occupato tutti gli spazi informativi. E i media, correndo dietro allo scoop, alla notizia forte, spesso lasciano perdere tutto il resto. Mladić è stato la notizia, ma poi tutti hanno dimenticato la Bosnia e la sua drammatica situazione. Mi capita di frequente di leggere sui quotidiani italiani qualche articolo a riguardo: non si parla, però, dei veri problemi del mio paese, li si evita. Ci si sofferma su fatti quasi effimeri, come l’inaugurazione della nuova sede di Al-Jazeera a Sarajevo ripresa di recente da un quotidiano italiano, ma guai a toccare temi come la disoccupazione e la crisi politica. La Bosnia è uno stato di cui si parla, ma non nel modo giusto.

L'Holiday Inn di Sarajevo, sede dei corrispondenti stranieri durante la guerra

AO: Nel suo libro parla della mancata giustizia per le famiglie vittime dei criminali di guerra. Molti di loro oggi sono liberi e non hanno mai subito un processo. Il mandato del Tribunale Internazione dell’Aja scadrà nel 2015: c’è, secondo lei, il rischio che i processi di criminali come Karadžić e Mladić non arrivino a sentenza in tempo? Quali saranno le possibili conseguenze?

AN: Sì, questo rischio è concreto. Mladić, quando è stato catturato, era un uomo malato e vecchio. A mio parere il suo arresto è servito alla Serbia come moneta di scambio, la quale avrebbe ricevuto un aiuto dalla comunità internazionale per il suo futuro ingresso nell’Unione Europea. È certamente vero che, a differenza di Mladić, molti criminali sono ancora in libertà. Anzi, alcuni sono degli ufficiali pubblici o rivestono cariche pubbliche, mentre altri, i processati e condannati, in genere scontano solo i due terzi della pena, e poi escono di prigione venendo acclamati dalle folle e accolti come fossero degli eroi. E, per giunta, da liberi cittadini scrivono libri, rilasciano interviste con l’intento di ripulire la propria reputazione, rinnegando tutte le proprie colpe e accuse. A mio dire, questo è un sistema per riscrivere la Storia, ma in negativo, cambiandone tutti i connotati. È necessario che si reagisca a questo tentativo di mistificazione della realtà e degli avvenimenti, affinché si abbia una società più giusta.

Un giudice del tribunale dell’Aja ha detto che per costruire la pace bisogna fare giustizia: se non lo facciamo, diamo un cattivo segnale alle vittime dei massacri. Il senso di ingiustizia, se non soddisfatto, resta forte nelle persone senza essere cancellato, con il rischio che si risvegli all’improvviso.

Manifestanti davanti alla corte del Tribunale Internazione dell'Aja

AO: Sembra incredibile, quasi utopico, cercare di negare i fatti avendo le prove sotto gli occhi.

AN: Invece sta accadendo, ed è gravissimo. Si cerca di cambiare la storia in patria quanto all’estero. Di recente, la televisione svedese ha realizzato un documentario su Srebrenica, dove si affermava che il genocidio e il massacro di ottomila musulmani bosniaci sono stati la giusta conclusione dell’assedio delle truppe di Mladić… Come fosse un fenomeno naturale. E l’Italia non è da meno, perché anche da noi si tenta di giustificare quelle violenze, accusando i musulmani di aver voluto causare la reazione dei serbi. Chi riscrive le cronache passate, cerca di farle passare come unica verità: bisogna fermare questa tendenza a tutti i costi.

AO: Perché, secondo lei, abbiamo ancora una viva disattenzione per ciò che succede in Bosnia-Erzegovina, come accadeva vent’anni fa?

AN: Io credo che sia una differenza tra oggi ed allora. Al tempo, si diceva che nei Balcani c’era l’odio secolare tra le etnie, che le tribù non riuscivano a convivere. Si era molto ignoranti sulla società e sulla cultura bosniaca. Oggi, che sono stati pubblicati articoli e libri e depositate varie testimonianze, non abbiamo più incertezze: sappiamo come sono andati i fatti, conosciamo le cronache di guerra. All’Aja sono arrivati, in occasione dei numerosi processi, migliaia e migliaia di documenti che provano le atrocità del conflitto.

AO: Nell’articolo da lei scritto in occasione dell’arresto di Mladić, Il male in generale, pubblicato su Nazione Indiana, riporta come i media stranieri abbiano descritto le eccellenze militari del vecchio generale. Crede che ci sia stata una colpa o una complicità della stampa internazione nella guerra in Bosnia-Erzegovina?

AN: Per me non è corretto parlare di colpa, ma di ignoranza. Tanti giornalisti, una volta arrivati in Bosnia, avevano capito cosa stesse succedendo, che non si trattava di guerra, ma di un vero e proprio mattatoio e, di conseguenza, molti si sono schierati in favore delle vittime, cioè dei bosniaci.

Il generale Ratko Mladic

Alcuni giornalisti e reporter arrivavano a Sarajevo senza sapere nulla della cultura e della storia bosniaca. Le hanno scoperte solo più tardi, a conflitto iniziato. E non è neppure giusto parlare solo di Sarajevo, su cui era focalizzata tutta l’attenzione della stampa estera, e divenuta una “maschera” della guerra agli occhi dell’Occidente. Il cuore delle violenze non era lì, ma nei villaggi e nelle piccole città nella Bosnia orientale, lungo il fiume Drina: gli orrori e le atrocità venivano commessi prima che il mondo cominciasse a seguire la guerra. Migliaia di musulmani erano già stati uccisi, senza che nessuno lo sapesse.

AO: A Sarajevo, prima, e a Belgrado poi, lei stava realizzando una carriera giornalistica importante. Nel libro lei parla di come tutto, con l’avvento della guerra, sia finito.

AN: Prima della guerra lavoravo a Belgrado, presso la radio e televisione di stato. Là si viveva bene, la città era accogliente, viva e ricca di appuntamenti culturali. Alla tv di stato facevamo un buon giornalismo, merito che ci veniva riconosciuto anche all’estero. Capitava di incontrare i giornalisti stranieri, e loro stessi mi raccontavano che la nostra era un’informazione di alta qualità. La mia carriera era in ascesa, visto che ero stata la prima donna ad entrare nella redazione esteri in cui lavoravano solo uomini. Quella promozione derivava dalle mie capacità, dalla mia esperienza professionale: era un giornalismo in cui si poteva fare carriera grazie ai propri meriti, senza alcun tipo di discriminazione. Poi, all’improvviso, tutto è cambiato: il governo di Milošević ha iniziato ad utilizzare la televisione come mezzo di propaganda politica e nazionalista, i giornalisti che non obbedivano sono stati puliti, cacciati via, e i molti dei miei colleghi, e miei amici si sono allontanati da me. È stato un periodo brutto, ho perso lavoro e temevo per la mia vita: dal mio cognome è facile capire che sono bosniaca. Il mondo in cui credevo si stava sgretolando, e le mie ambizioni con esso.

AO: La popolazione, sia in Bosnia-Erzegovina che in Croazia, non ha creduto alla guerra fino all’ultimo, fino a quando non ha bussato alla porta. Perché tutti erano così sicuri che le violenze iniziali si sarebbero risolte in poco tempo?

AN: Nella ex-Jugoslavia tutto sembrava stabile e forte. Eravamo cresciuti in un mondo che rispondeva a tutte i nostri bisogni e necessità. Sembrava impossibile che crollasse. La guerra in Croazia ci sembrava assurda, ed anche quando è arrivata in casa nostra c’era una forte confusione. Tra le gente c’era la speranza che tutto si risolvesse e finisse bene. Io stessa non ci credevo, tanto che ho chiesto due settimane di aspettativa al lavoro:  credevo che tutto sarebbe finito in una due settimane. Forse, eravamo troppo convinti della nostra sicurezza, credevamo troppo nel mito della forte Jugoslavia, dell’unico paese del blocco comunista che godeva un certo livello della libertà… D’altra parte, nessuno lascia la propria casa con facilità, e noi abbiamo resistito fino all’ultimo.

Lapide commemorativa a Mostar

AO: Secondo lei, per quale motivo noi occidentali ci siamo ostinati a non capire il mondo dei Balcani?

AN: I Balcani sono sempre stati visti come altro rispetto all’Occidente. Per l’impero romano si trovavano oltre il limes; nel Medioevo rappresentavano la terra dell’impero Ottomano, dei turchi musulmani, i nemici sconosciuti. Nel Novecento, durante la Guerra Fredda, si trovavano oltre la cortina di ferro, nel blocco comunista. Tutto questo ha creato una lunga serie di stereotipi: l’idea di un mondo severo, lontano dove la gente era rigida e austera. I Balcani sono, da sempre, etichettati come, il mondo oltre ma io non mi sento per nulla “fuori”, anzi: sento di condividere molto del mio bagaglio culturale con europei ed americani. Le visioni e le idee promosse dagli occidentali hanno fatto sì che si avesse una visione “misteriosa” di quel mondo, al quale si guardava – e si guarda tuttora – con diffidenza e spesso con paura.

AO: Ritornando al suo libro, lei dedica due capitoli a Trieste, dove oggi vive. Com’è stato l’arrivo in questa città, ormai quindici anni fa?

AN: Sono arrivata a Trieste per caso. Pensavo di fermarmi una decina di giorni, poi invece sono rimasta. L’inizio, però, è stato duro. Ero arrivata qui come profuga, e non da emigrante. Chi emigra in un altro paese lo fa per scelta, perché vuole cercare di costruirsi un futuro migliore e diverso. I profughi abbandonano la propria terra perché costretti, a causa di un male che l’ha colpita. Non ero felice del mio esilio e non volevo rassegnarmi alla nuova situazione. Facevo il possibile per non inserirmi nella società, preferivo starmene in disparte; volevo solo tornare a casa e riprendere la mia vita.

AO: Lei parla di Trieste come meta obbligata per voi jugoslavi, da visitare almeno una volta nella vita. Sembrava che fosse la vostra “America”.

AN: Si, è così. L’America vera era troppo lontana per noi. Così, per sentirci un po’ vicini allo stile di vita occidentale , venivamo a Trieste: compravano vestiti, oggetti che noi in Jugoslavia non avevamo. Forse questa città ha rappresentato un po’ più dell’America, ed è cosi ancora oggi.

Enjoy Sarajevo

AO: Oggi si sente usare spesso il termine balcanizzazione. Secondo lei, dove sono i Balcani oggi?

AN: I Balcani sono in Europa è ci sono sempre stati. Balcanizzazione è un termine che indica disgregazione, disunione. Noi dei Balcani siamo europei. E come dire che Canada o Messico non appartengono al continente americano. Chi vive in Bosnia o in Croazia, vede l’Europa molto vicina, la sente affine alla sua cultura e al suo vivere. Chi, invece, vive in Europa e guarda ai Balcani, li sente lontani, diversi dalla propria identità. Questo termine, balcanizzazione, è usato per descrivere uno spazio piccolo diviso in tante parti, ma oggi – secondo me – usare balcanizzazione significa anche una sorte di auto-protezione, bisogno di distinguersi dai quei popoli cugini non voluti o non capiti. I Balcani per l’Occidente si trovano sempre giù, a Sud, che è sinonimo di retrogrado, arretrato, sottosviluppato, diverso. Capita che mi venga chiesto quando torno in Bosnia, usando l’espressione “quando torni giù”. “Giù” intende sempre un rapporto di subordinazione ad un su, ad una realtà superiore. Ed ogni persona, ogni realtà ha un proprio giù: ognuno di noi ha i propri Balcani.

Azra Nuhefendić

Giornalista di origine bosniaca, dal 1995 vive e lavora a Trieste. Collabora con il quotidiano «Il Piccolo», è corrispondente dell’«Osservatorio Balcani e Caucaso», pubblica su «Nazione Indiana », «Wall Paper» e «Sud ». È anche redattrice del quotidiano di Sarajevo «Oslobodjenje ».
Nel 2004 ha vinto il premio «Dario D’Angelo» della Fondazione Lucchetta Ota D’Angelo Hrovatin riservato ai giornalisti della carta stampata non-italiani per l’articolo Storie d’emarginazione pubblicato su «Il Piccolo». Nel 2010 ha ricevuto, per il racconto Il treno, il premio europeo «Writing for CEE ».

Negli anni Ottanta, trasferitasi da Sarajevo a Belgrado, ha lavorato per la radio e tv di stato nella capitale jugoslava, fino all’inizio della guerra. Ha vinto il premio annuale della Radiotelevisione di Belgrado, nel 1986, per i servizi giornalistici sugli scandali finanziari, mentre nel 1987 ha ricevuto il premio «Reportage dell’anno» per i servizi sullo sciopero dei minatori in Kosovo. Nel 1989, è stata premiata per i contributi giornalistici sulla rivoluzione in Romania.

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