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Scrittura

Walter Chendi e Roberto Franco

SessantaQuaranta: due generazioni e il loro sguardo sul proprio passato

La copertinaSulle prime ti domandi come possa un libro di parole scritte legare un fumettista ad un architetto: ti rispondi che potrebbe trattarsi di un saggio sulla rappresentazione della città nel fumetto. Ma non è la risposta giusta, almeno nel caso di Walter Chendi e di Roberto Franco. Sfogliando il volume, scopri che SessantaQuaranta è un libro di racconti, dodici a firma Chendi e quattro scritti da Franco. Ma non ti basta ancora. Cominci a leggere e ti accorgi che la proposta linguistica e il carattere delle storie narrate sono notevolmente diversi fra i due autori, e questo genera dentro di te un iniziale straniamento. Ma poi prosegui nella lettura e ti rendi conto di come ci sia un profondo legame che accomuna le vicende di uomini e donne protagonisti dei loro racconti. Son storie di confini, storici e geografici ma anche, e soprattutto, psicologici. Sono storie che affrontano il tema della memoria, lo sguardo diverso che due generazioni, i Sessanta di Chendi e i Quaranta di Franco, rivolgono verso il proprio passato. Due distinti punti di vista che illuminano le vicende ora ironiche, ora tragiche, gli incontri e le separazioni ora reali, ora immaginati che sono raccontati in questo libro.

Alessandro Olivo (AO): I vostri racconti sono nati in momenti diversi e sono stati uniti in un unico volume in una fase successiva. Perché li avete scritti e cosa vi ha fatto capire che si potevano racchiudere in un unico libro?

Walter Chendi (WC): I raccontini sono nati dal ricordo dei molti aneddoti che ho raccolto nella vita, aneddoti miei e di altri. Sono storie che raccontavo ai miei figli e che poi ho messo su carta con la speranza che, un giorno, le volessero riavere, farle proprie, magari raccontarle ad altri figli. Volevo anche farne un libro a fumetti e chissà…
L’amico Roberto mi ha dato il coraggio di pubblicare. Senza la sua idea non credo l’avrei fatto. Sono un autore di fumetti, non mi reputo uno scrittore, ma ho sempre scritto le mie storie. Si comincia sempre da un testo ed io preferisco che sia “leggibile” anche se è solo per me.

Roberto Franco (RF): Ho iniziato a scrivere per conto mio, poi nel mentre mi sono trovato a leggere le cose di Walter, immaginando un progetto più ampio, direzionando quanto andavo scrivendo con lo scopo di sviluppare un progetto comune. È bello quando ti scopri ad inseguire e al contempo a trainare. Rende più variegato il tutto. Sono racconti simili, i nostri, perché parlano di persone; in tal senso non provano disagio a condividere lo stesso spazio.

I due autoriAO: I racconti propongono una riflessione su come due distinte generazioni (i sessantenni e i quarantenni) affrontano il tema della memoria. Il modo attraverso cui ciò avviene è sostanzialmente diverso fra voi due. Le storie raccontate da Walter sono ambientate nei quartieri di Trieste o nei paesini del Carso, in un periodo che va dagli anni ’50 ai primi ’60. Sono caratterizzate da un’ironia di fondo, gli aneddoti narrati suscitano il sorriso, alle volte sono un po’ esagerati ma comunque molto realistici, con precisi riferimenti storici di contesto, con nomi e cognomi del tutto verosimili. Possono ricordare nello spirito e nella forma Le Maldobrie, ma con queste c’è una notevole differenza: non è così, Walter?

WC: Sì, notevole. Ho sempre dichiarato un grande amore per Le Maldobrie di Carpinteri & Faraguna ma, prescindendo da qualsiasi giudizio di merito che può esser dato solo dai lettori, l’accumunarci penso sia dovuto dall’essere, in qualche maniera, triestini. A ben vedere quasi tutto invece differenzia i raccontini miei dall’opera magna del famoso duo. Là c’è un personaggio fisso che racconta la potenza e la decadenza di un Impero. Lo fa con la forza della nostalgia dei bei tempi e dei bei luoghi andati. Racconta avventure navali ed incontri storici con l’ossequio verso nomi tutti maiuscoli. Alla fine la vicenda viene ridimensionata nella sua misura umana da una battuta, da una soluzione finale che ci fa sorridere, ridere e, forse, pensare. Ecco, io spero che solo questa parte venga ricordata dalle mie “fotografie” degli anni ’50 e ‘60.
Non ho un personaggio fisso, non indulgo, credo, nella nostalgia, non ho imperi da commemorare. Tento di ricordare, a chi legge, lo spirito che ci aiutava a superare le difficoltà in quegli anni. Uno spirito ch’era composto da un certo cinismo, ma da molto buon senso. Il buon senso che fa delle piccole vicende umane la base dell’esperienza comune.

AO: Roberto, nei tuoi racconti, dal tono sostanzialmente più cupo e con protagonisti perlopiù negativi, emerge invece un altro sguardo sul passato. Il modo attraverso cui la generazione dei quarantenni rielabora le proprie esperienze è completamente diverso. Qual è la tua idea in proposito?

RF: Non so se i miei personaggi siano veramente negativi, o se i miei racconti siano cupi. Sono testi forse dolorosi, nel senso che scavano nell’interiorità delle persone piuttosto che nel rapporto tra queste e ciò che sta loro attorno… e quando scavi trovi sempre qualcosa, anche di spiacevole. Il male sta nell’occhio di chi guarda, si dice. Forse sarebbe meglio non guardare. Io credo che la mia generazione ha invece involontariamente imparato a guardarsi un po’ troppo dentro, rendendosi dimentica del fuori. Veniamo accusati, e lo sono ancora di più le generazioni successive alla mia, di superficialità. Io penso che abbiamo peccato e continuiamo a peccare di un eccesso di profondità. È per questo che le esperienze non sono poi mai serene, il che, inevitabilmente, rende anche il loro racconto alquanto “notturno”. A volte ciò che sembra superficiale è solo incompreso.

AO: Nella finzione narrativa, Walter, immagini che il contastorie dei tuoi racconti sia Il Capitano, ovvero un barbone che, ogni notte, raccoglie alla darsena altri suoi compagni per raccontare loro una vicenda, ispirandosi ogni volta ad una delle 65 fotografie contenute in un suo album. Che differenza c’è fra le centinaia di foto che oggi scattiamo con le nostre macchine digitali, dimenticandole subito su un computer, e le foto dell’album del Capitano?

Dal libro SessantaQuarantaWC: Posso rispondere riportando quel che ho scritto nella postfazione del libro: «È ormai abitudine, per noi, seppellire migliaia di immagini dentro un computer; esse appaiono però solamente come la risultanza del velocissimo “clic” provocato dalla nuova macchinetta digitale ricevuta a Natale. La vita che abbiamo fissato con quel gesto si riduce esclusivamente a quel centesimo di secondo. E poi? Avanti con i prossimi “clic”, per congelare altre migliaia di indifferenti situazioni.
Il Capitano ha un album di fotografie, roba vecchia, inchiostri su carta, chimica e non elettronica, grafie appunto. L’album ha poche pagine e contiene sessantacinque foto. Tutta una vita in sessantacinque fotografie! Ogni foto era a quel tempo parte integrante dell’avvenimento che ciascuno stava vivendo e, decidendo di scattarne una, vi era piena consapevolezza della sua importanza. Quell’attimo andava così ad imprimersi nella memoria e, solo più tardi, sulla pellicola. Passati gli anni avremmo potuto raccontare un’intera serata guardando quell’unico brindisi».
In SessantaQuaranta però non ci sono tutti i racconti e la vicenda del Capitano non appare completa. L’album delle foto riserva, alla fine, una sorpresa. Inutile ora parlarne, sarà per un’altra occasione.

AO: Nei tuoi racconti, Roberto, i personaggi “camminano sulla lama di un rasoio”, ovvero lungo un difficile confine psicologico. Walter ha definito i tuoi scritti dei “resoracconti”, perché i protagonisti sono chiamati ad una resa dei conti. Quali sono questi confini e a che cosa si deve rendere conto?

RF: Sì, i miei personaggi sono sempre portati all’estremo, a vivere un resa dei conti con se stessi e spesso anche con la società che li ospita. Vorrebbero poter camminare lungo percorsi diritti, lasciarsi andare, non dover sempre rimuginare o interrogarsi sulle cose. Invece la strada non è retta, ma fatta di curve continue. Anche il confine lo è, e se non sei scaltro tendi sempre a posare il piede di qua o di là dalla riga virtuale. I miei confini sono mentali, sono fatti di speranze disilluse, di aspettative non soddisfatte, sono in fondo dei grandi bastardi per i tranelli continui che pongono. Ma io credo, anzi ne sono convinto, che le certezze non siano poi così soddisfacenti. Dubitando è forse più facile cadere “oltreconfine”, ma lo sguardo fa percorsi più ampi, più alti, coglie molte più cose.

AO: I confini di Walter sono perlopiù confini geografici, le vicende hanno luogo su un territorio che li vede spostare avanti e indietro. La Storia con la S maiuscola fa breccia con brevi ma importanti frasi nel mezzo del racconto divertente. Ne La bomba i muratori lavorano finalmente al coperto dopo aver tirato su muri confinari e abbattuto monumenti: chiaro riferimento alle vicende storiche della zona, ai confini spostati. In Bilinguismo fatale fanno capolino l’Armistizio, i tedeschi che bruciano le case, ancora il confine spostato, qualcuno che sparisce: ovvero dati storici anche tragici mescolati a frasi divertenti riferite ai due protagonisti. Walter, la tua generazione come ha vissuto quel periodo storico e la sua memoria? E adesso qual è lo spirito con cui lo fai rivivere su queste pagine?

Da SessantaQuarantaWC: In Bilinguismo fatale appare soprattutto il bilinguismo, direi. Un argomento che da troppi anni serpeggia a Trieste e che avvelena inutilmente gli animi per colpa di pochi che in poco tempo distrussero una convivenza che durava da sempre. Ma, tornando alla domanda: credo che i ragazzini di otto, dieci anni, di ogni epoca vivano nella stessa maniera un fatto tragico del passato.
Quel passato non è il loro passato, non era il nostro. Io ed i miei amici, non posso parlare per tutta la mia generazione, sentivamo la guerra passata come il racconto noioso di cose lontane. Se dico che Monfalcone appariva straniera ai miei occhi (infatti c’era il confine con l’Italia, ricordiamolo) posso assicurarti che le guerre puniche erano quasi coetanee di quella che mio padre e che tutti i padri raccontavano. Oggi, alla mia età, so che il mio calcolo del tempo e dei suoi effetti era sbagliato. Erano passati neanche dieci anni dalla seconda guerrra mondiale! Le bombe c’erano tra le nostre case ancora diroccate come c’erano ancora tra noi assassini ed eroi. Raccontando tento di mitigare quell’estraneità d’allora e di ristabilire una certa quotidianità al dopoguerra.

AO: Radura è, secondo me, il racconto più compiuto fra quelli di Roberto. In questo dialogo di Giulio con se stesso, emergono dalla memoria spezzoni felici di vita passata: una serata agli autoscontri, la ricerca delle anatre scomparse dalla fattoria della nonna. Risulta appropriata e forte l’immagine della radura, metafora nostalgica di momenti, di buchi nell’integrità del passato, vissuti senza responsabilità, con spensieratezza, senza impegno e coerenza. Perché questo tipo di “ancoraggi” sono così importanti per Giulio e per la generazione che rappresenta?

RF: Radura nasce dalla lettura di un dialogo sul restauro scritto da Camillo Boito nel 1860 o giù di lì. Emerge in esso come la verità non possa che risultare in fondo che molteplice. Questo invito al dubbio mi pareva interessante per affrontare le difficoltà della mia generazione nel momento in cui, negli anni ’80 è stata messa di fronte alla necessità di scegliere tra un mondo fatto di certezze, di superficialità, di auto-convincimento di stare sempre e dovunque bene; oppure vivere le difficoltà del sentirsi inadeguati e quindi anche persi dietro ai propri pensieri, alle difficoltà nel trovare motivazioni per garantirle. È un discorso politico, culturale, economico. È un discorso che molti non vorrebbero fatto e che invece qualcuno si è fatto, per fortuna, pagandone anche le conseguenze. Ecco perché gli “ancoraggi”, le “radure” sono importanti, perché permettono di trovare dei “vuoti” mentali dove respirare, tapparsi il naso, chiudere gli occhi, respirare aria fresca. Poi però la realtà ti assale di nuovo.

AO: Sior Pino è un racconto di Walter in cui si narra, appunto, del signor Giuseppe, ovvero del factotum-magazziniere del calcio locale, dopo essere stato, a partire dagli anni ’30, il magazziniere della Triestina o, meglio, dell’Unione. Colui che lo ricorda è un ragazzino che, pur di non perdersi nemmeno un aneddoto dell’insolitamente ciarliero sior Pino seduto accanto a lui sul filobus, non scende alla propria fermata, ma arriva al capolinea. Da qui, Walter, si intuisce facilmente che, ancor prima di raccontare una storia, a te piace ed è sempre piaciuto ascoltare le storie. Non è così?

WC : Ho avuto la grande fortuna di aver conosciuto molte persone che adoravano raccontare. Raccontavano piccoli fatti, non grandi avventure. Ma ci potevi trovare tutto un mondo in quei fatti se solo stavi attento, attento veramente, alle parole. Quella volta (nostalgia, nostalgia) c’era più silenzio e meno fretta; potevi “sentire”. El siòr Pino abitava all’ultimo piano del mio condominio ed era stato veramente il magazziniere della Unione Triestina Calcio degli anni di Colaussi, Pasinati, Umek e tutti gli altri. Per un ragazzino, come me, che voleva giocare al calcio, come non potevano essere “mitici”, si direbbe oggi, quegli aneddoti?

AO: L’oltreconfine è il racconto di Roberto più duro, dove il passato di droga del protagonista diventa purtroppo un presente possibile. Da dove nasce questa storia?

Dal libro SessantaQuarantaRF: Nasce dall’esigenza di parlare di droga prima di tutto. È di certo “la lama di rasoio” più tagliente per i giovani e non solo. Lo era per noi da ragazzi negli anni ’80, e poi ai tempi dell’Università. Perché è un male ben più grande di quanto si voglia far credere. Ho avuto modo di fare un’esperienza di insegnamento in un programma di recupero per ex tossicodipendenti ed ex alcolisti (l’alcool, un’altra piaga enorme, che si vuole nascondere spesso dietro la parola “cultura”), e ti trovi dentro situazioni dove ci vuole un fegato enorme per poterne far parte. Parlarne mi sembrava un dovere, proprio perché è qualcosa di molto più possibile di quanto ciascuno creda. Inoltre mi permetteva di portare all’estremo il ruolo della scelta. Molti mi hanno chiesto la componente autobiografica del testo. Sul piano reale pressoché nessuna, su quello mentale è un pensiero, quello di chi ha vissuto o sta vivendo quelle esperienze, che mi accompagna spesso.

AO: L’inizio del racconto Anteo vede ancora la Storia fare capolino attraverso il pericolo rappresentato dalle bombe inesplose nel secondo dopoguerra. La Croce Rossa ammonisce i ragazzini con dei cortometraggi che precedono la proiezione pubblica di un attesissimo film western. Le bombe sono vissute come una punizione futura da dei ragazzi che non c’entrano nulla e, personalmente, il giovane protagonista non si sente in colpa. Ho letto in queste righe quasi una presa di distanza da quei momenti così tragici e il desiderio di non volerne dipendere, di guardare avanti pur senza averli vissuti se non nei racconti dei vecchi. È corretta questa interpretazione?

WC: Nel racconto Anteo c’è anche l’aspettativa del film in contrapposizione alla serietà delle “solite” raccomandazioni. Solite per l’epoca. A scuola c’erano dei grandi manifesti con tutti i tipi di bombe che avremmo potuto trovare. Illustrazioni di braccia e gambe amputate. Le vedevi ogni giorno. Presa di distanza? Direi che è naturale autodifesa da un’oppressione ripetuta ogni momento che gli adulti, veri responsabili di tutto quel mondo, ritenevano di imporci. Quale profondo spirito critico può avere un “uomo” di otto anni?

AO: Nel racconto di Roberto intitolato Apriporta, il tempo e lo spazio si fondono, c’è il confine, rappresentato dai binari della ferrovia attraversati in bici, che separa le parole già dette da quelle pensate, le occasioni avute per vivere un luogo e quelle che ancora ci saranno. C’è il tempo circolare dell’attimo vissuto intensamente nel bar sulla spiaggia fuori stagione, un luogo fuori tempo. Però anche in questo attimo che potrebbe assorbire tutto il tempo, il protagonista sente il lascito e l’urgenza dei confini, di quelli già superati e di quelli da superare. Qui ho letto un conflitto fra il desiderio di abbandonarsi al senza-tempo rappresentato dall’attimo, e l’emergere inevitabile dei confini spazio-temporali, ma soprattutto psicologici, da superare. Era anche questo che volevi comunicare?

RF: Lo hai detto benissimo. Non posso che rispondere sì! Se vuoi posso dirti che c’è anche un discorso molto generazionale, nostalgico a differenza di Walter, sulla giovinezza, che fugge via troppo rapida. Quella maledetta!

AO: Walter, perché questi racconti non sono diventati dei fumetti?

WC: Credo Winston Churchill abbia detto un giorno, in altre circostanze: «Così poco tempo e così tante cose da fare!» Non sono, ancora, fumetti perché ho rivolto l’attenzione verso altre storie che sono venute a trovarmi e che, nella maturità degli anni, mi paiono più potenti.

AO: Roberto, quanto c’è di imperativo morale, di esigenza vissuta come dovere etico nello scrivere questi racconti? E a proposito del tuo linguaggio, in cui è evidente una ricerca (che si intuisce voluta ad ogni costo) del peso di ciascuna parola: anche qui c’è un’esigenza etica?

RF: La parola “morale” non mi è mai piaciuta molto. È la morale sempre e solo una convenzione, quindi non parla un linguaggio universale. Ciò che per me può essere “giusto”, per te può non esserlo, ma questo non significa che uno di noi abbia torto o ragione. L’etica è qualcosa di fondato su dei principi, dei valori, che come tali dovrebbero anche assumere un ruolo condiviso dai molti. La cultura politica dovrebbe sempre parlare un linguaggio etico, mi importa molto meno se vi sia poi dietro anche un’esigenza morale. Anche i giornalisti dovrebbero utilizzare meno questi termini come intercambiabili, avrebbero un ruolo forse più pregnante nel quotidiano che vanno raccontando. È inevitabile per me che anche il mio linguaggio faccia attenzione. Magari non ci riesco sempre, ma ci provo. Le parole sono pietre, diceva qualcuno. Penso che ciò valga anche per Walter e credo che questo sia uno dei motivi principali perché noi due si possa scrivere contenuti nello stesso spazio.

L'illustrazione di copertina

AO: Il volume è impreziosito dall’illustrazione di copertina e da alcuni disegni che inframezzano i racconti, ovviamente opera di Walter. Perché hai rappresentato (quasi) sempre dei personaggi inquadrati di schiena?

WC: Ce n’è solo uno di fronte che guarda il lettore e potrebbe essere lo scrittore. Avevamo parlato, io e Roberto, della copertina. Non ricordo di cosa, ma l’immagine si era formata quel pomeriggio. Poi, mettendo in atto l’idea, ho capito che volevo rappresentare tutti quelli che mi hanno “raccontato” qualcosa della loro vita senza che io, noi, li conoscessimo. La quantità e la scelta dei tipi rappresentati è però solo una questione estetica.

AO: Alla pubblicazione del volume avete fatto seguire un tour di incontri con il pubblico, tenuti nell’ambito di manifestazioni culturali, in librerie o in luoghi pubblici destinati alla cultura. Qual è il riscontro dei lettori riguardo ai temi presentati e alla diversa proposta linguistica che vi contraddistingue? E quali stimoli ricevete dal pubblico?

WC: Difficile rispondere. Chi interviene a questi incontri in realtà non interviene, viene e basta, si siede ed ascolta. È raro sentire una domanda e quindi gli stimoli di rimando sono fievoli. Non vorrei esser cinico come il Capitano, ma lui disse una gran verità, anche se mi fa inc… arrabbiare, disse: «È totalmente inutile aspettarsi un riscontro qualsiasi da quel che hai fatto. Scrivendo sei stato in compagnia di vecchi amici? Ti sei in qualche forma divertito? Bene! È tutto quello che hai avuto, hai e potrai avere.» Spero sempre che qualcuno lo smentisca.

RF: Non sono del tutto in accordo con quanto dice Walter. Mi è parso di capire che chi ha acquistato il libro ne sia stato colpito, soprattutto per lo straniamento a cui è costretto nel leggere storie dal carattere molto diverso tra loro. Mi è sembrato che al di là delle domande, che non sono comunque un obbligo, la gente nell’ascoltarci abbia in parte condiviso alcuni concetti, alcune riflessioni. Spesso scopriamo delle persone dire: «Ma effettivamente anch’io ho vissuto esperienze simili». Oppure: «Anch’io ho ricordi analoghi!» È gratificante, perché quando scrivi esprimendoti sul piano generazionale, rischi sempre di generalizzare o peggio di banalizzare. Che i racconti possano cogliere nel segno rispetto quello che vi è riassunto è un aspetto che mi rende soddisfatto del lavoro fatto.

Walter Chendi in un incontro con il pubblico

AO: Dopo Continuavo a guardare fuori questa, Roberto, è la tua seconda prova narrativa, realizzata anch’essa nella forma racconto. Da dove nasce il tuo desiderio di scrivere e quali aspettative ti poni?

RF: Scrivere non è per me un mestiere. Non potrebbe esserlo per questioni di tempo e di incapacità a pensare al mercato. Mi piace come forma di espressione. Mi piace perché impone delle regole, quelle sintattiche e grammaticali. Aiuta a sintetizzare dei pensieri. Una bella canzone italiana dice: «Sulle pagine bianche cade inchiostro nero, è il sangue del mio pensiero». È inoltre proprio per questa sintesi che amo scrivere racconti, perché nella loro brevità richiedono maggior attenzione, maggiore rispetto per il lettore, anche nella scelta delle parole. Nessuna aspettativa, quindi, solo un’esperienza rigorosa. E poi Continuavo a guardare fuori ormai è diventato un imperativo mentale.

AO: A parte il titolo Maledetta balena, cosa ci puoi anticipare, Walter, della storia a fumetti che stai scrivendo e disegnando?

WC: “Scrivendo e disegnando”, prima si scrive, come già detto, poi si disegna. Ho letto tempo fa una frase che mi ha colpito: «Fatalmente il lettore pensa che se uno ha bisogno di disegnare una storia è perché non riesce a farlo ricorrendo alle sole parole. Chi ha come sua principale espressione le immagini è avvantaggiato».
Non so quali lettori credano ciò, ma solo chi non sa produrre una storia a fumetti completamente può pensare che il fumettaro abbia vita più facile dello scrivano. Basterebbe provare con uno testo come questo: Buio. Silenzio. Apro gli occhi. Vorrei le stelle attraverso le vetrate, ma la luce blu illumina il soffitto e la mia meridiana segna due ore diverse. Il chiarore del corridoio vorrebbe far tornare indietro il tempo. Dal corridoio sono entrati anche due uomini. Svolgono il loro incarico senza dir parola. Li vedo passare mentre spingono un cilindro argentato. È Sergio che se ne va. Li saluto con la mano, ma è quella destra e, allora, non li saluto affatto. Quello dietro il tubo d’alluminio mi guarda. Forse vorrebbe risparmiarsi un viaggio.
A qualcuno sembra facile disegnare questo? Io, l’autore, sono avvantaggiato a volerne fare un fumetto? «Ma mi faccia il piacere!» come direbbe Totò.

Ma, per tornare alla tua domanda: l’embrione di Maledetta balena l’ho pensato quando stavo andando a Lucca in macchina con Roberto, nel novembre del 2010, al tempo del Gran Guinigi per La porta di Sion. Poi c’è stato un lungo lavoro di limatura, aggiustatura e qualche cambiamento totale. L’ho finito di scrivere sei mesi fa. Ci vorranno ancora due mesi per finire le matite, ad oggi ho preparato ottanta pagine. In tutto saranno centoquaranta e sono molte anche per un romanzo a fumetti. Posso dirti che questa storia mi sta dando una speciale soddisfazione a vederla sulla carta, ricordiamo che anche l’autore vede le scene per una prima volta quando le disegna, e, con il cinismo del Capitano, potrei dire che è già molto.

RF: Scusa, devo per forza intervenire. Avendolo pregustato mentre si sta formando, posso solo dirti che Maledetta balena sarà un gran esempio di arte sequenziale. Da appassionato sono già impaziente di leggerlo nella sua stesura finale.

Walter Chendi nasce a Trieste nel 1950, in una giornata di Bora scura. I suoi romanzi a fumetti sono pubblicati presso i maggiori editori del settore (Vedrò Singapore?, 2002; Mont Uant, 2005; Est Nord Est, 2007). Per La porta di Sion, edito nel 2010, ha ricevuto uno dei più importanti riconoscimenti del fumetto italiano: il premio “Gran Guinigi” 2010 per la miglior storia lunga. Dal 2004 si dedica alla trasposizione a fumetti delle Maldobrie di Carpinteri & Faraguna.

Roberto Franco nasce a Gorizia nel 1968. Lavora come architetto a Monfalcone, dove vive. Ha pubblicato nel 2008 il suo primo libro di racconti dal titolo Continuavo a guardare fuori.

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