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Percorsi

Breve storia del camminare

Deambulo ergo sum

Orme«Camminare significa aprirsi al mondo. L’atto del camminare immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la partecipazione di tutti i sensi» ha scritto David Le Breton, «si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, o anche, semplicemente, per rispondere al richiamo della strada. Camminare è un modo tranquillo per reinventare il tempo e lo spazio. Prevede una lieta umiltà davanti al mondo». 

L’avevano detto anche i saggi dell’antichità che deambulare era il vero rimedio per i mali dell’anima.
Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein, proprio per questo.

I sofisti invece si spostavano a piedi di città in città per insegnare la retorica.
Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene.

Da allora camminare è sempre stata un’attività costante degli uomini e, nel mondo moderno dominato dalla fretta e dalla rapidità, camminare è diventato un atto rivoluzionario e quasi eversivo.

Centinaia di migliaia di camminatori, viandanti, vagabondi, girovaghi, flâneurs, bighelloni, pellegrini solcano in ogni istante il mondo, pronti a tutto pur di andare.

Ha scritto Lao Tse che un viaggio di mille chilometri comincia sempre con il primo passo, che è l’unico che conta perché senza quello, come per il respiro, non ce ne saranno altri.

E perché segna un distacco.

Dalla vita di tutti i giorni, dagli affetti, dalle comodità, dalla propria casa, dal lavoro.

Walking boys

«Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, il fratello e la sorella, la moglie e i figli e gli amici e a non rivederli mai più, se hai pagato i tuoi debiti e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino». (Henry David Thoreau –Walking)

E inoltre perché definisce una soglia tra un prima e un dopo, oltrepassata la quale si entra in una vita sconosciuta dove regna l’anonimato, dove non si è nessuno, dove non si hanno responsabilità se non verso se stessi e la natura, dove si cammina nel regno dell’incognito. Sospesi tra l’identità passata e quella futura si vive in uno stato di continua potenzialità.

«La casa dell’anima non è in Paradiso, ma nella strada aperta. L’unica cosa da fare è mettersi liberamente in cammino. Il viaggiare per una strada aperta, esposti a ogni contatto, incontrando chiunque venga per via, accompagnandosi a coloro che sono sospinti nello stesso senso, senza scopo, su due lenti piedi, per la strada aperta…». (D.H.Lawrence)

Camminando si viene catapultati in un regno sconosciuto dove il tempo è sovrano, perché il camminatore si sposta in quella dimensione e non più in quella dello spazio.

Il tempo gli appartiene e non ne è più schiavo. Può disporne come vuole. Può persino perderlo, se vuole, perché ne ha in abbondanza.

Foto della serie People (3)

«Una vita passata a non guardare più le ore – scrive Stevenson – è l’eternità. Non si potrebbe concepire a meno di averla provata la lunghezza di un giorno d’estate che si misuri solo con la fame e che finisca solo quando si ha sonno».

Uno dei primi camminatori fu Gesù che, come ha scritto Christian Bobin in L’uomo che cammina: «Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su sessanta chilometri di lunghezza e trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli sia vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine potremmo fare a meno di quel libro e ricevere sue notizie ascoltando il canto dei granelli di sabbia sollevati dai suoi piedi nudi».

È una «fretta escatologica» che Pasolini ha ben rappresentato nel suo Vangelo secondo Matteo.

La predicazione di san Francesco d’Assisi e dei suoi compagni fu sempre itinerante. Attraversarono l’Italia e l’Europa, sostentandosi solo con il frutto del lavoro che veniva loro offerto e con l’elemosina.

Camminare era parte integrante della loro vita ed era il fondamento della loro spiritualità.

Nella Grecia classica il luogo di pellegrinaggio più famoso era Delfi, dove si andava per ricevere i responsi della Pizia.

I musulmani andavano (e vanno) alla Mecca e questo è uno dei cinque pilastri delle regole del Corano. Nel mondo ebraico tutti i maschi ebrei – il bambino appena è in grado di dare la mano al padre – sono tenuti ad andare a Gerusalemme.

Anche il buddhismo e l’induismo hanno sempre favorito il pellegrinaggio, sia delle persone comuni che camminano alla ricerca di una maggiore vicinanza con il divino, sia dei monaci erranti.

Govinda era andato a piedi in Tibet e giunto in cima al passo più alto, fedele alla tradizione aveva girato più volte intorno alla piramide di pietre alla quale ogni pellegrino aggiunge la propria in segno di gratitudine per il percorso fatto.

E Matreya, il Buddha del futuro, aveva declamato «Da solo erro per mille miglia… e chiedo alle nuvole bianche la strada da seguire…».

Nel buddhismo Vipassana, camminare è uno dei quattro modi di meditare e Thich Nhat Hahn, un monaco vietnamita, ha scelto la Provenza per edificare il suo Plum Village dove si insegna e si pratica il vagabondaggio meditativo.

Nel buddhismo Zen si alternano meditazione seduta e meditazione in cammino.

Luca Gianotti, in Italia, a seguito delle sue riflessioni e dei suoi studi su questi temi, ha fondato l’associazione Deep Walking che organizza lunghi viaggi di questo tipo.

Woman

Camminare a volte ha un significato politico e coincide con marciare: marce di protesta (come la Marcia di Gandhi, nel 1930, per protestare contro la tassa britannica sul sale), marce della pace (la Pellegrina della Pace americana che nel 1953 fece voto di continuare a camminare finché il genere umano non avesse imparato la via della pace e che camminò per 28 anni e morì in uno scontro frontale!), marce contro la Guerra in Corea o in Vietnam, marce per i diritti civili (le marce delle suffragette e quella di Martin Luther King a Birmingham nel 1963), marce delle Madri intorno all’obelisco della Plaza de Mayo, che, per non incorrere nell’accusa di occupazione abusiva di suolo pubblico dovettero alzarsi e camminare in circolo, e ancora scioperi e cortei e processioni.

Tutte queste manifestazioni si svolgono per la strada che è, per eccellenza, il luogo che appartiene a tutti e sono perciò strettamente connesse con il concetto di democrazia come spiega Rebecca Solnit che scrive che «camminare non ha classi, è uno dei pochi sport interclassisti» e che racconta come la questione dell’accesso ai terreni in Inghilterra sia stata nei secoli invece proprio una specie di guerra di classe.

Il conflitto verteva su due diverse idee del paesaggio, la prima che vedeva la campagna come un grande corpo suddiviso in parti ben distinte, la seconda come un organismo collegato da un sistema circolatorio costituito dai sentieri.

Le servitù di passaggio affermavano, in accordo a questa seconda visione, che la proprietà non comportava necessariamente diritti assoluti e che i sentieri erano principi significativi quanto i confini.

Nel 1949 era passata una legge (The National Parks and Access to the Countryside Act) che censiva le servitù esistenti rendendole definitive, ne aumentava il numero ma sopratutto stabiliva che l’onere del camminatore di dimostrare che esisteva un diritto di passaggio era sostituito dall’onere del proprietario terriero di dimostrare che non esisteva.

Foto della serie People (2)

Molti filosofi sono stati camminatori.

La strada regolarmente percorsa da Hegel a Heidelberg ha preso il nome di Philosophenweg, quella costeggiata quotidianamente da Kant a Königsberg è chiamata Philosophen-damm.

Ha camminato tanto Kierkegaard, che scrive: «Camminando ogni giorno raggiungo uno stato di benessere: i pensieri migliori li ho avuti camminando e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle camminando».

«Camminare è pensare: rimette in moto le idee e la ricerca» conferma Duccio Demetrio, docente di Filosofia dell’educazione e Teoria e Pratiche autobiografiche alla Bicocca di Milano.

Scrive Nietzsche, che ha solcato a piedi l’Engadina e la Liguria, «bisognerebbe ogni tanto star lontano dai libri per sei mesi e camminare soltanto».

E Hazlitt, il filosofo della mente che anticipò la psicologia e che nel 1821 scrisse un saggio sul camminare, On going a journey, è stato il grande teorico del camminare in solitudine.

Thomas Espedal sostiene che «da solo non sarei mai riuscito a portare a termine i tragitti più impegnativi. Da soli ci si sente vulnerabili, insicuri; quando si cammina da soli capita di sentirsi meno liberi… Quando si è in due è più facile dormire all’addiaccio, sotto il cielo aperto; di giorno si cammina per proprio conto, da soli ma insieme…».

Hanno camminato a lungo i poeti e gli scrittori di tutto il mondo.

Per esempio era un grande camminatore Bashõ (1644-94), il grande poeta giapponese di haiku. Nato in una famiglia di samurai fra le più importanti della nobiltà aveva rifiutato il suo mondo ed era diventato un vagabondo.

Nel suo Lo stretto sentiero per Oku ha narrato i suoi viaggi sulle montagne sacre dello Shugendo, una setta di buddhisti escursionisti.

Common People Milano

Anche Gary Snyder, poeta che Ferlinghetti aveva soprannominato il «Thoreau della Beat Generation» e amico fraterno di Kerouac, che spesso portava con sé nei suoi viaggi, praticava sia il buddhismo sia l’alpinismo. Era membro di uno storico Club fondato nell’Oregon alla fine del XIX secolo, il Mazamas e in Mountains and Rivers without End aveva scritto che «camminare nel paesaggio può diventare un rito e una meditazione».

Amava le montagne tanto da scrivere:

Catena dopo catena di monti
Anno dopo anno dopo anno
Sono ancora innamorato

Vagabondare per i taoisti significa «raggiungere l’estasi».

Samuel Taylor Coleridge e il suo grande amico William Wordsworth scrivevano camminando, tanto che la domestica di Wordsworth a un viaggiatore che aveva chiesto di vedere lo studio del suo padrone aveva risposto: «Questa è la sua biblioteca, ma il suo studio è la fuori, oltre la porta».

Mentre Walt Whitman ha descritto così lo stato d’animo di chi si incammina:

A piedi e con cuore leggero mi avvio per libera strada;
in piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi,
il lungo sentiero pronto a condurmi ove voglia.
D’ora in avanti non chiedo più buona fortuna,
sono io la buona fortuna.
D’ora in avanti non voglio più gemere,
non più rimandare, non ho più bisogno di nulla,
finiti i lamenti celati, le biblioteche, le querule critiche.
Forte e contento mi avvio per libera strada.

Savona

E che dire di Rousseau? «Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, non sono mai tanto esistito, e con tanta fedeltà a me stesso, quanto nei viaggi che ho compiuto da solo e a piedi». «La marcia ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee: non posso quasi pensare quando resto fermo».

Per non parlare di Rimbaud, «l’uomo dalle suole di vento» come lo definì Verlaine: «Sono il viandante della strada maestra che attraversa i boschi nani; il rumore delle chiuse copre i miei passi. Vedo a lungo il malinconico bucato d’oro del tramonto». Nel settembre 1873 Rimbaud aveva scritto i suoi ultimi versi ed era partito. Non ne voleva più sapere di stare fermo alla scrivania. Cominciava così la sua vita di avventuriero e di viaggiatore. Dai 19 ai 23 anni aveva peregrinato per il Belgio, l’Inghilterra, l’Olanda. Nel 1875 era partito da Charleville ed era arrivato a Milano attraverso le Alpi dove aveva incontrato, in piazza Duomo, una signora che nonostante il suo aspetto affamato e febbricitante e il suo sguardo allucinato l’aveva invitato a casa sua, al numero 39 della piazza, al terzo piano di una casa popolare di ringhiera che oggi non esiste più. Rimbaud aveva poco più di vent’anni. Aveva lasciato in Francia Verlaine, suo amante e mentore, ed era diretto in Oriente. Si era fermato in città un mese accudito dalla brave femme non jeune, vedova di un mercante di liquori, lettrice appassionata, che conosceva il francese e che aveva appena perso un figlio della stessa età. L’aveva abbandonata senza salutarla ma qualche mese più tardi le aveva inviato una copia della Saison à l’enfer, sfuggita alla sua furia distruttrice. Aveva viaggiato in Asia e in Africa, le marce sfibranti nell’Harar avevano logorato le sue ginocchia e i suoi piedi fino alla cancrena, di cui sarebbe morto. Si dice che neanche i cammelli possano percorrere quella strada più di due volte.

Si arriva così a Henry David Thoreau, grande pensatore e viandante appassionato, nonché precursore dei movimenti di disobbedienza civile, finito in carcere per essersi rifiutato di pagare le tasse per sostenere la guerra e la schiavitù. Ribelle e visionario, seguace delle teorie di Ralph Waldo Emerson, fondatore del movimento kantiano del Trascendentalismo, il giovane Thoreau si era chiesto un giorno come fare a mettere in pratica i precetti ambientalisti e pacifisti del suo maestro. Leggendo Rousseau aveva capito che la soluzione era una sola: camminare. «Occorre essere nati nella famiglia dei camminatori. Ambulator nascitur non fit». Camminare sul serio, penetrare i boschi, attraversare i fiumi e i laghi, valicare le vallate, incontrare la natura incontaminata e selvaggia. Thoreau nel suo libro citava niente meno che Geoffrey Chaucer e i suoi Racconti di Canterbury, centoventi storie narrate da un gruppo di pellegrini durante il loro pellegrinaggio dalla Locanda del Tabarro a Southwark alla Cattedrale di Canterbury per visitare il santuario di San Thomas Beckett: «E gli uomini ricercano pellegrinaggi, e i pellegrini terre sconosciute».

Foto della serie People

L’8 dicembre 1933, poco dopo l’ascesa al potere di Hitler, Patrick Leigh Fermor, detto Paddy, all’età di 18 anni era partito da Hoek van Holland per andare a piedi a Costantinopoli, «come un viandante, un pellegrino o un cavaliere errante», risalendo il Reno e scendendo il Danubio fino alla mitica Bisanzio dove sarebbe arrivato il primo gennaio 1935. Si era messo in cammino portando con sé pochi abiti e pochi soldi, l’Oxford Book of English Verse, le Odi di Orazio e una lettera di presentazione che gli avrebbe permesso tra le tante notti passate nei fienili e nelle capanne di trascorrerne qualcuna nei castelli e nelle country house della nobiltà dell’Europa centrale. Il primo dei tre volumi dei suoi diari di viaggio, non a caso, si intitola A time of gifts.

Oggi, a 96 anni, nella sua casa di Kardamili nel Peloponneso, vicino alla quale volle essere sepolto Bruce Chatwin, sta scrivendo l’ultimo capitolo della sua avventura. Chatwin, appunto… uno dei più grandi… esploratore, viaggiatore, scrittore, che ebbe il fatale destino di passare gli ultimi anni su una sedia a rotelle.

Era partito da Monaco Werner Herzog nel 1974 per raggiungere Parigi dove giaceva gravemente malata Lotte Eisner, critica cinematografica tedesca, convinto che se fosse riuscito ad arrivare da lei a piedi, la sua amica sarebbe guarita. Era un pensiero magico ma funzionò. Herzog lo narra in Sentieri nel ghiaccio. Quando, dopo ventun giorni di fatica e di sofferenza, era entrato nella camera di Lotte, lei gli aveva sorriso.
Scrive Herzog: «Per un istante senza peso, per il mio corpo esausto è passato un soffio di dolcezza. Ho detto: apra la finestra, da qualche giorno io so volare».

E nel 2010 Sébastien de Fooz ha camminato per sei mesi da Gand, nelle Fiandre, fino alla Città Santa attraversando 13 paesi, con uno zaino e cinquanta euro in tasca.
Prima di partire ha raccolto al lager nazista di Dachau un sasso per poi depositarlo, alla fine del viaggio, in una breccia nel Muro del Pianto e ha raccontato la sua avventura in A piedi a Gerusalemme, 184 giorni, 184 volti.

Ed ecco infine i pellegrini, una comunità in cammino. Da secoli.

Si tratta di una particolare specie di camminatori diretti alle tre città sante.

I Romei, diretti a Roma, i Palmieri a Gerualemme, i Pellegrini in Galizia alla tomba di San Giacomo.

Come disse Goethe «L’Europa è nata camminando verso Compostela».

Aristocratici, autorità ecclesiastiche, artisti, musici, mercanti, capitani di ventura, monaci erranti riempivano le strade vagando di corte in corte e di monastero in monastero.

Finisterre beach

Ma si trattava soprattutto di gente comune che compiva un cammino in cerca dell’indulgenza, plenaria o meno, sotto la protezione dei Cavalieri dell’Ordine dei Templari (che inventarono la cambiale per evitare ai pellegrini di essere derubati delle loro poche monete) o di quello di San Giovanni. Erano devoti che percorrevano le strade portando con sé idee, novità, tradizioni che, mischiandosi e confrontandosi le une con le altre, creavano un vasto intreccio culturale.

Una comunità di stranieri: pellegrino viene infatti dal latino per-ager, colui che transita al di là del campo… Provenivano da tutta l’Europa e confluivano sulla Via Francigena che parte da Canterbury e attraversa la Francia.

Era stato, nel X secolo, il Vescovo di Canterbury Sigerico (ecco di nuovo Chaucer e Thomas Beckett) a definirne il tracciato principale in 79 tappe, rientrando da Roma dove aveva ricevuto dalle mani del Papa un mantello bianco che rappresentava la pecora che Cristo porta sulle spalle.

Dal tratto francese i viandanti imboccavano una delle quattro strade che portano in Spagna attraverso i due passi pirenaici di Roncisvalle e del Somport per raggiungere Santiago de Compostela e poi, all’estremo occidente, Finisterre e l’Oceano Tenebroso.

«Quatuor vie sunt que ad Sanctum Iacobum tendentes, in unum ad Pontem Regine in horis Yspaniae coadunantur […]».

Oppure proseguivano lungo la strada maestra fino a Roma e poi a Brindisi e Otranto e da lì raggiungevano, via mare, Gerusalemme che naturalmente poteva essere raggiunta anche via terra attraverso l’Albania, la Grecia, la Macedonia, la Turchia e la Siria, come ha fatto Sébastien de Fooz.

Nei primi secoli della loro esistenza, quando le notizie viaggiavano ancora molto lentamente e la comunicazione a distanza richiedeva tempi lunghi, i pellegrini portavano sul Cammino notizie fresche relative al loro mondo e, una volta tornati a casa, narravano tutto ciò che avevano appreso lungo la via, nei monasteri, nei villaggi e nelle fiere e diventavano così operatori culturali che intessevano tra città e città e tra paese e paese una fitta trama di informazioni mentre i veloci cavalieri che li accompagnavano avanti e indietro costituivano la prima rudimentale forma di intelligence, recando notizie di pace e di guerra, di matrimoni e di nascite reali, di pestilenze e di carestie, di morti e di successioni, di intrighi e di complotti.

I pellegrini del medioevo, e tutti quelli che da allora in poi si sono incamminati sulle loro orme, lasciavano la loro casa, i loro affetti, la loro sicurezza e s’immergevano in questa nuova esperienza che cambiava completamente il ritmo con cui veniva scandita la loro quotidianità entrando nella condizione itinerante dello status viatoris, il viaggio come perenne ricerca, in quel transito tra la nascita e la morte che è la vita stessa.

Durante il pellegrinaggio attraversavano luoghi sconosciuti e si legavano alle persone che incontravano, condividendo gioie e dolori.

I vincoli che si creavano allora erano gli stessi che si creano oggi e che alimentano quella che Paolo Caucci Von Saucken, rettore della Confraternita di San Jacopo di Compostela di Perugia ha definito una societas sovranazionale, sradicata dal territorio di origine, ma legata alla via, che non ha regole scritte, ma affinità, identità, comportamenti, interessi e necessità comuni, quasi una nuova e più complessa civiltà nella quale i pellegrini di tutto il mondo si ritrovano.

Oggi questi percorsi antichi sono ancora cammini di fede ma sono sempre più cammini di conoscenza.

Il pellegrino è animato più spesso dalla spiritualità che dalla religione, alla ricerca di una metamorfosi personale, di una rigenerazione e di una cura per l’anima.

La ricerca dell’infinito? Forse.

La ricerca dell’assoluto? Anche.

La ricerca di un senso? Naturalmente.

La ricerca di Dio? Certamente, se esiste…

Si ringrazia la MURSIA EDITORE per la gentile concessione alla pubblicazione di alcuni brani tratti dai volumi Tutte le strade portano ad Assisi e Contare i passi di Carla De Bernardi.

Commenti

2 commenti a “Breve storia del camminare”

  1. Molto bello, posso inserirlo sul nostro sito. Grazie

    Di Paolo Tessiore | 28 Dicembre 2013, 20:57
  2. Bellissimo, davvero un gran bel documento sul cammino, ammirevole! Quale libro mi consigliereste su questa lunga e lenta storia? Premetto di aver già letto Andare a piedi di Frederic Gros e L’elogio della marcia di Le Breton

    Di Matteo Esposito | 16 Maggio 2015, 20:48

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