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Omnia

Banana Republic

HondurasSono da poco tornato da un viaggio di lavoro in Honduras e quello che mi ha colpito di più di questo paese centroamericano, al di là della sua rude e primordiale bellezza, è stata la possibilità di verificare dall’interno la sua controversa natura e la sua storia travagliata.

A differenza di altri paesi centroamericani che hanno “goduto” negli anni di una storia politica di primo livello internazionale (basti pensare al Nicaragua dei Sandinisti o al Panama invaso dagli USA) causando scandali internazionali e sconvolgimenti politici, la caratteristica che accomuna il recente passato dell’Honduras e del vicino Guatemala è un’altra: la frutta.

Ai giorni nostri è usuale sentire parlare di Repubblica delle Banane, tanto che, con un significato molto ampio, si è più volte giunti a definire anche l’Italia un paese con queste caratteristiche “vegetali”, a causa delle tragicomiche vicende degli ultimi decenni.

Ma in realtà, l’origine del termine risale veramente al popolare frutto amarillo.

A partire dall’Ottocento, in quella che può essere definita una delle più precoci industrie ad espansione multinazionale, alcune compagnie americane come la United Fruit Company (ora nota con il nome Chiquita), si espansero in maniera impressionante in centro e sudamerica, interessate ai profitti determinati dal commercio di frutta locale verso gli States. Negli anni che seguirono, il business diventò sempre maggiore e realmente mondiale, portando le corporation ad adottare dinamiche e spinte di interesse a noi molto comuni: influenzando la politica e le società locali per ottenere un substrato civile favorevole ai propri scopi. Più o meno ciò che oggi è cristallino in settori come quello del petrolio, dei diamanti, dell’oro, del tabacco e molti altri. La United Fruit Company assunse dimensioni tali che venne denominata dalle popolazioni locali el pulpo (il polipo) per le sue caratteristiche di presenza tentacolare. Certo, se pensiamo che spesso Cosa Nostra viene soprannominata La Piovra il paragone non dovrebbe di sicuro rallegrarci.

Banana Republic

Il giudizio storico su queste vicende è molto diverso e contraddittorio. Per molti, l’industria della frutta ha recato grandi benefici ai paesi produttori, sotto forma di incremento della ricchezza locale, maggiore occupazione e, in generale, migliori condizioni di vita. Per altri, si tratta invece di un nuovo tipo di colonizzazione, gli albori della globalizzazione a cui oggi assistiamo ovunque nei paesi del Terzo Mondo.

Ciò che, però, è innegabile è che molti lavoratori fossero in realtà sottopagati, sfruttati e con pochi se non inesistenti diritti. Può far ridere, ma il termine Bloody bananas sembra veramente appropriato, soprattutto in riferimento al Banana Massacre avvenuto a Santa Marta in Colombia nel 1928 a seguito di scioperi e rivolte dei lavoratori delle piantagioni. I lavoratori chiedevano minime tutele sindacali, come otto ore lavorative giornaliere, sei giorni di lavoro alla settimana e contratti scritti. Le rivolte assunsero dimensioni imponenti e il governo statunitense minacciò la Colombia di intervenire militarmente se la United Fruit Company non fosse stata tutelata. Così Bogotà inviò una spedizione militare che riuscì a reprimere con il sangue le rivolte sparando sulla folla in uscita dalla messa domenicale. Le cifre sono poco attendibili e si parla di un numero di morti tra le cinquanta e le duemila persone, inclusi mogli e figli dei lavoratori.

Il fatto, riprovevole di per sé, ha assunto negli anni forma di metastasi, in quanto si è soliti far risalire a quella data la nascita di molti gruppi terroristici e paramilitari, che ancora oggi martoriano la bellissima Colombia. Gruppi militari (tra cui le FARC) sono stati negli anni finanziati dalla stessa Chiquita in cambio di protezione e sicurezza per le piantagioni. Oltre a ciò, sono diverse le accuse e insinuazioni di corruzione, danni ambientali e, addirittura, sul permesso dato da Chiquita di trasportare cocaina sulle sue navi dirette verso gli USA.

Banana Massacre di Codly Grail

Al di là di quanto bene possa apportare all’economia di un paese, possiamo davvero accettare che delle imprese possano delegarsi il controllo di un paese straniero arrivando ad appropriarsi di poteri politici solo per avere un contesto maggiormente favorevole ai propri scopi commerciali?

Troppo spesso ci risulta facile criminalizzare settori storicamente molto controversi come quello energetico, farmaceutico o dell’alcool. Più difficile è invece comprendere che anche industrie apparentemente più innocue e con un’immagine meno offensiva possano in realtà agire al di là dei confini di potere che una realtà imprenditoriale dovrebbe avere.

Il problema non si pone solo ad un livello temporale passato. Ora che probabilmente queste multinazionali devono rispettare maggiormente le autonomie locali, i problemi per questi paesi non sono finiti. Certo, l’instabilità e le problematiche dell’Honduras e di altri stati dell’America Latina vanno ben al di là delle responsabilità della Chiquita o della Dole. Ma è innegabile che anch’esse hanno contribuito a creare un contesto di scarsa indipendenza locale, con la loro potente influenza e con l’ombra sempre molto presente degli Stati Uniti, tenendo il paese alla propria mercé senza rispetto per l’autonomia nazionale o per le culture del posto.

Pablo NerudaQuanto avvenne in Honduras e Guatemala con la frutta non è molto differente da quanto accade ai giorni nostri in Iraq per il petrolio o in Liberia in riferimento ai diamanti.

La storia sembra ripetersi in maniera monotona lasciando uno strascico di instabilità e problematiche che sembrano insolvibili. E questa scarsa speranza verso il futuro risulta ancora più evidente parlando con la gente del posto, dedita alla vita di ogni giorno con una prospettiva spesso limitata al breve termine, disillusa dalla possibilità di un vero miglioramento nel lungo.

Negli anni, moltissimi si sono esposti per denunciare questo ingiusto sistema, primo fra tutti Gabriel Garcia Marquez, che ha riprodotto nel suo capolavoro Cent’anni di solitudine il massacro di Santa Marta, o Pablo Neruda, che ha dedicato addirittura un poema alla United Fruit Company:

 Appena squillò la tromba
tutto era pronto sulla terra,
e Geova divise il mondo
tra Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, e altre società:
la Compagnia United Fruit
si riservò la parte più succosa,
la costa centrale della mia terra,
la dolce cintura d’America.
Ribattezzò le sue terre
“ Repubbliche Banane”,
e sopra gli inquieti eroi
che conquistarono la grandezza,
la libertà, e le bandiere,
instaurò l’opera buffa:
cedette antichi benefici,
regalò corone imperiali,
sguainò l’invidia, e chiamò
la dittatura delle mosche,
mosche Trujillo, mosche Tavho,
mosche Carias, mosche Tartinez,
mosche Ubico, mosche umide
d’umile sangue e marmellata,
mosche ubriache che ronzano
sopra le tombe popolari,
mosche da circo, sagge mosche
esperte in tirannia.
Tra le mosche sanguinarie
sbarcò la Compagnia
stipando di caffè e frutta
le sue navi che poi scomparvero
come vassoi con il tesoro
delle nostre terre sommerse.
Frattanto, entro gli abissi
pieni di zucchero dei porti,
cadevano indios sepolti
dal vapore del mattino:
rotolò un corpo, una cosa
senza nome, un nome caduto,
un grappolo di frutta morta
finita nel letamaio.

Anche nel mondo della musica troviamo un tributo. A queste vicende è infatti dedicata la celebre Bitter Fruit di Little Steven (chitarrista e stretto collaboratore di Bruce Springsteen).

Forse anche noi quando gustiamo una gustosa e matura banana possiamo sentire che, in realtà, è un po’ amara.

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