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Cinema

La “sociologa” Pauline Kael: fama e avversione nella critica cinematografica americana

Pauline KaelPauline Kael (1919-2001) è stata uno dei critici cinematografici più influenti e celebrati del panorama americano. Firma per oltre vent’anni della rivista The New Yorker, tanto amata dai lettori, quanto avversata dai suoi stessi colleghi, sui quali, per altro, Kael non disdegnava di esprimere giudizi ai limiti dell’offesa (famosa fu la disputa con Andrew Sarris, il cui approccio critico fu bollato da Kael come “un esercizio di stile per adolescenti”), Kael è stata una delle principali esponenti della cosiddetta “critica sociologica”, in opposizione proprio all’approccio formalista. Secondo Kael, che difese sempre i film americani commerciali e marcatamente trash al cospetto della produzioni “artistiche” di stampo europeo, “Il ruolo del critico è di aiutare le persone a vedere quello che c’è nell’opera, quello che c’è che non dovrebbe esserci e quello che non c’è che potrebbe starvi”, evitando dunque quelle che sono considerate marginali considerazioni di forma.

Cercare di inquadrare l’attività critica di Pauline Kael e ponderare il peso specifico che la sua attività ha esercitato sulla critica cinematografica americana è alquanto difficile poiché ne sono state date svariate letture – non di rado contrastanti tra loro – il cui unico tratto comune è quello di evidenziare l’intrinseca asistematicità del lavoro della scrittrice californiana. Partendo da questa consapevolezza si cercherà dunque di ricomporre un quadro organico che dia ragione sia della frammentarietà del suo approccio sia dell’ambivalente rapporto di amore e odio che Kael ha alimentato negli anni, da un lato tra i suoi epigoni e dall’altro tra i suoi più accesi detrattori.

Nessuno ha scritto pagine più illuminanti a proposito del fascino del “trash”, o dei piaceri contingenti che riceviamo dai film che non sono di ottima qualità. Tende a perdonare la stupidità in nome del “divertimento” mentre è estremamente censoria verso qualsiasi seria elaborazione o pretesa artistica. La sua posizione secondo cui “la volgarità non è così distruttiva per un artista quanto la snobberia” la spinge talvolta verso un antagonismo distorto nei confronti del cinema d’arte “Chiunque abbia iniziato a interessarsi al cinema come forma d’arte attraverso Bergman o Fellini o Resnais” ha dichiarato una volta “per me è un alieno (e la mia mente è accecata dall’ostilità e dall’indifferenza quando inizia a parlare’).”[1]

In questo passo estratto dal saggio The Passion of Pauline Kael, scritto da Phillip Lopate e inserito nella sua raccolta Totally, Tenderly, Tragically, si ritrova non solo uno scorcio della visione estetica di Kael sul cinema, ma anche un’idea di come questa visione sfoci in una vera e propria condotta antagonistica nei confronti del “cinema intellettuale”. Un’etica che coincide con la bocciatura senza appello – eccezion fatta per alcune rare eccezioni – dell’idea di film come arte, da cui ne consegue un atteggiamento di aperta ostilità per ogni tipo di sperimentazione. 

For Keeps di Pauline KaelUn giudizio sicuramente meno paterno e giustificativo si ritrova, all’opposto, in Edward Murray in particolar modo quando l’autore affronta l’analisi di uno dei saggi più noti di Pauline Kael, Trash, Art, And The Movies[2], considerato il testo migliore per capire l’“estetica” (il virgolettato è dell’autore) di Pauline Kael. La puntigliosità con la quale Murray smonta ogni passo del saggio di Kael – e dunque la visione critica che lo presuppone – è rigorosa e intransigente. Riferendosi all’insanabile frattura tra forma e contenuto nel cinema, Murray in un primo momento riporta alcune parole di Kael – “Uno non vuole parlare di come Tolstoy ottiene i suoi effetti, ma dell’opera in sé; uno non vuole parlare di come Jean Renoir tratta un argomento in un film, ma di cosa tratta” – e successivamente scrive:

Qui il nostro più conosciuto critico cinematografico paragona “l’opera in sé” al “contenuto”, al cosa. “Cosa” Renoir ha fatto è considerato “arte”, mentre “come” lo ha fatto è una questione di “tecnica”; così la “forma” è uguale alla “tecnica” e “l’arte” è uguale al “contenuto”. “Uno può separare le due cose, certamente, distinguendo la forma dal contenuto per propositi analitici. Ma questa è una secondaria funzione analitica, e difficilmente è necessario esplicitarla nella critica.” Kael ha un’idea curiosa della “critica” se crede davvero che l’analisi della forma sia così irrilevante.[3]

In questo passaggio Murray obietta a Kael non tanto di preferire soggettivamente un approccio sociologico ad uno formalistico, quanto il fatto di svalutare apertamente la questione formale riducendola ad un mero fatto tecnico. Successivamente, qualche paragrafo più avanti, Murray scrive:

[Nella quinta parte del saggio] Kael sostiene che ci piacciono i film per motivi che hanno ben poco a che fare con l’arte. Il nostro più grande piacere nei film è non-estetico e consiste nell’eludere le responsabilità delle convenzionali risposte richieste dai valori borghesi della scuola e dell’ambiente domestico. (…) “L’arte è ancora ciò in cui credono insegnanti, signore e fondazioni; è intellettuale e raffinata, colta, seria, bella, europea, orientale: è ciò che l’America non è, e soprattutto è tutto quello che i film americani non sono.” (…) Una delle ragioni per cui Kael, nel suo saggio intitolato Trash, Art, And The Movies, ha così tanto da dire sul trash e così poco sull’arte è che l’arte coincide per lei con i valori della scuola e della società, mentre il trash rappresenta una fuga da tutta questa “falsità”. (…) Ma ciò che rimane è una visione adolescente: una “estetica” anti-intellettuale, anti-artistica e non-estetica.

Qui Murray illustra, attraverso alcune citazioni della stessa autrice, la visione (anti)estetica di Kael, criticandone soprattutto la totale mancanza di sistematicità teorica. Ciò che viene messo in discussione, infatti, non è tanto il valore del punto di vista espresso dalla scrittrice californiana, quanto il fatto che Kael non organizzi mai le proprie idee all’interno di un quadro più ampio. Kael non arriva mai, secondo Murray, ad articolare in modo esaustivo una propria estetica, la cui teorizzazione rimane ad uno stadio embrionale, ingenuo, “adolescente”. Fatto questo che porta Murray a concludere che la critica di Kael sia in definitiva “non estetica”. Emblematico l’interrogativo con il quale l’autore termina l’analisi del saggio:

Dal momento che Kael si rifiuta di “riguardare e riesaminare i classici”; dal momento che sceglie di non focalizzare gran parte della sua attenzione su quei film (soprattutto stranieri, ma anche americani) che seguono la tradizione dei classici o che creano nuove tradizioni [neoavanguardie N.d.T.]; dal momento che considera lo studio dell’aspetto espressivo dei buoni film una mera “funzione secondaria e analitica, una funzione scolastica” – e dal momento che, in breve, preferisce guardare l’ultimo e “più recente prodotto del trash americano” – siamo davvero sicuri che sia cresciuta affamata di arte?

Pauline Kael

L’influenza esercitata in modo diretto e indiretto da Pauline Kael su una intera nuova generazione di critici americani è ancora oggi oggetto di ampio dibattito. E ancora una volta il mondo della critica appare spaccato: da un lato coloro che ritengono che l’influenza dell’autrice sia un fatto positivo e stimolante; dall’altro coloro che vedono nel continuo “protezionismo” di Kael a favore di alcuni suoi epigoni una sorta di mafiosa “connivenza”. Di certo è la stessa Kael a dimostrare nel saggio Trash, Art, And The Movies quanto ci tenga a rappresentare un valido orientamento per il pubblico, definendo “un’ossessione” il lento ma inevitabile gap generazionale che nel tempo allontana il critico dai propri lettori. Lopate è ancora una volta illuminante in tal senso:

Pauline Kael ha reso legittimo praticare la critica cinematografica come una professione e la sua influenza su
 un’intera generazione di critici è stata immensa. Alcuni critici più giovani sono stati accusati di scimmiottare non solo le sue opinioni, ma anche il suo stile e la sua sintassi. Questi imitatori sono chiamati, in gergo, ‘Paulettes’, una categoria simile alla Mafia della quale molti negano l’esistenza, mentre altri vedono le radici cospiratorie dappertutto. Tra i critici che in una occasione o in un’altra sono stati definiti ‘Paulette’, si ritrovano: Gary Arnold, David Denby, David Edelstein, Steve Farber, Hal Hinson, Elvis Mitchell, Terrence Rafferty, Peter Rainer, Lloyd Rose, Stephen Schiff, Paul Schrader, Michael Sragow e James Walcott. Chiaramente la lista comprende scrittori di vario livello di originalità, ma tutti condividono il fatto di essere stati aiutati da Kael nell’ottenere il lavoro. I Paulettes di oggi sembrano votare in blocco per i premi conferiti dalla National Society Of Film Critics. Kael si inalbera, tuttavia, davanti alla prospettiva di condividere “un’idea di partito” che altri seguono in modo servile.

Lopate affronta in questo passaggio la questione dei cosiddetti “Paulettes”, ovvero di quei critici giunti alla notorietà grazie alla raccomandazione iniziale di Pauline Kael. Parallelamente però, come precisa Lopate, la scrittrice californiana è la prima a rinnegare stizzosamente tale accusa o anche solo l’idea di esercitare una pressione ideologica su alcuni di questi critici. Nel suo saggio su Kael, Lopate annota che:

Un ex-Paulette mi ha confessato: “Ti dà l’impressione di interessarsi ai tuoi scritti più di quanto non faccia tu stesso. È uno stimolo incredibile essere apprezzati da qualcuno così influente. Sfortunatamente, c’è il desiderio di mantenere questo stimolo, c’è una dipendenza ai suoi elogi. Non è colpa sua, ma dei giovani critici che fanno in modo di essere dominati da lei”.
Ma un’altra fonte anonima mi ha dichiarato: “Pauline è sia la Madre Buona che la Madre Cattiva. Appare enormemente interessata nell’allevare [il tuo talento], ma più tardi arriva quella tipica forma di rifiuto e ti chiama dicendo, ‘Non è molto buono [ciò che hai scritto], caro’ specialmente quando hai cercato di spingerti in qualcosa di nuovo”.
Joe Morgenstern rigetta questa accusa in modo categorico: “Ho sempre trovato che quando ero più originale Kael rispondeva con enorme generosità, mentre quando ero più prevedibile rimaneva tatticamente in silenzio”.

Si tratta ancora una volta di pareri contrastanti, a tratti contraddittori, e questo rende difficile anche solo costruirsi un’idea personale sulla questione. Tuttavia un fatto è lampante: Kael, nonostante abbia calcato la scena per decenni, non è mai stata compresa fino in fondo se è vero che anche le persone a lei più vicine ne forniscono versioni così diverse. Scrive ancora Lopate nel suo saggio:

Kael insiste che le dà fastidio quando qualcuno imita il suo stile e che sono solo quelli che non la conoscono ad accusarla di avere una “corte” [di critici]. Come tanti altri aspetti che riguardano questa donna così complessa, è possibile fornire una interpretazione positiva o negativa dello stesso fatto. Perché parlare di “corte” e non di un gruppo di amici? Cosa c’è di sbagliato nell’essere il mentore di giovani allievi o nell’aiutarli ad ottenere un lavoro? Forse la verità sta da qualche parte nel mezzo. Come Morgenstern sottolinea: “La generosità di Pauline è tutt’uno con il piacere di essere arbitro, intermediario e di avere influenza”.

Come sempre quando si parla di Pauline Kael, la conclusione non può che essere ambivalente. In fondo, se davvero una cerchia di allievi di Kael è mai esistita – e gli indizi fanno supporre di sì – e se la scrittrice ha veramente esercitato una influenza determinante su di essi, nulla dovrebbe sorprendere più di tanto. E il fatto dovrebbe scandalizzare ancora meno se si pensa al carattere passionale e autoritario di Kael: un carattere che spesso ne ha offuscato o distorto l’immagine pubblica, compromettendone anche una corretta valutazione degli scritti, ma che non deve in fondo condizionare la valutazione del suo operato.

Note

[1] Phillip Lopate, “The Passion of Pauline Kael”, in Totally, Tenderly, Tragically, New York, Anchor Books, 1998

[2] Pauline Kael, “Trash, Art, and The Movies”, in For Keeps, Boston, Dutton, 1994

[3] Edward Murray, Nine American Film Critics, New York, Ungar Publishing Company, 1975

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  1. […] di aiuto riflettere sulle parole di un altro grande critico americano, di cui ho già offerto una lettura analitica per Fucine Mute: Pauline Kael. La scrittrice newyorchese si esprime così su James Agee e sul suo […]

  2. […] in un’accezione negativa, sono anche le caratteristiche fondamentali che a Cary Grant attribuisce Pauline Kael in un celebre ritratto dell’attore. Qualcosa però non torna. Perché Intrigo internazionale […]

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