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Cinema

Il gusto del sakè. Riparlare d’Ozu, cinquant’anni dopo

Una scena di Il gusto del sakéIl 12 dicembre 1963, battuto dal cancro, esalava l’ultimo respiro Yasujirō Ozu (o, alla maniera nipponica che vuole il cognome anteposto al nome, Ozu Yasujirō). Macabra coincidenza o estensione coerente delle simmetrie armoniche che governarono il suo cinema, il regista moriva proprio il giorno del suo sessantesimo compleanno, lasciando incompiuto il progetto a cui lavorava con l’inseparabile sceneggiatore Kōgo Noda, gemello artistico e morale di un’annosa e affollata carriera. Un lungometraggio echeggiante, manco a dirlo, i motivi diffusamente cantati nelle ultime opere e non solo: genitori ormai anziani, fanciulle in età da marito, affetti ovattati ed emozioni crepuscolari.  Il film sarà diretto da Shibuya Minoru e, battezzato Daikon to ninjin, uscirà nel 1965. Pertanto, l’ultima pellicola realizzata da Ozu e che ragioni indipendenti dalla volontà personale archiviano come definitiva è, nel 1962, Sanma no aji (Il gusto del sakè). Benché, lo si ribadisca, Ozu non considerasse esaurita la sua vis poetica e parlare di testamento sia, pertanto, improprio, Il gusto del sakè concentra nella sua formula chimica l’essenza del cineasta. Rammemorarne e commemorarne il cinquantenario significa cogliere, quindi, un’occasione preziosa per meditare e rimeditare sensi e significati di una filmografia che, invecchiando, a differenza dei personaggi ritratti, non incede verso il declino ma si rivela, una volta di più, depositaria di una lezione spirituale sempreverde.

Rammemorare e commemorare anche per recuperare un ritardo che l’Occidente sconta nei confronti di Ozu. È vero che il cinema giapponese irrompe nell’altra metà del globo negli anni Cinquanta, grazie soprattutto alla Mostra di Venezia. Nel 1951, Rashomon, di Akira Kurosawa, si aggiudica il Leone d’oro, seguito dall’Oscar come miglior titolo straniero; sempre Kurosawa verrà insignito, nel 1954, del Leone d’argento per I sette samurai. Analogo riconoscimento viene tributato, per ben due volte, nel 1952 e nel 1953, a Kenji Mizoguchi, per Vita di O-Haru, donna galante e per I racconti della luna pallida d’agosto. Mizoguchi divenne il pupillo dei Cahiers du cinéma, Kurosawa il sinonimo stesso di cinema orientale, riprova del carattere paradossale di certe canonizzazioni (in patria, infatti, Kurosawa fu oggetto di ripetute incomprensioni). Il successo dei due contribuì sensibilmente alla conoscenza della settima arte del Sol Levante, ma sortì il contraccolpo di sclerotizzarne l’immagine nello jidaj-geki, il film in costume, e nel chambara, il film di cappa e spada, che presero a guidare le rotte dell’esportazione. Samurai e geishe, duelli e kimono, guerre feudali e panorami arcaici non esaurivano, però, il paesaggio dell’industria cinematografica giapponese. E uno come Ozu, che esordì nel 1927 con un film storico, Zange no yaiba, per accantonare, poi, senza rimpianti, le antichità dell’Impero, ne risentì inevitabilmente. Nonostante il favore che pubblico e critica, nel suo Paese, gli accordarono, il regista raggiunse una fama planetaria quando ormai non poteva più godersela.

Se, in gioventù, il cineasta oscillò tra i generi con eclettismo febbrile, frequentando la commedia in odor di Lubitsch, il mélo e perfino lo yakuza-eiga (per intendersi, il gangster-movie), la maturità coincise per lui con la specializzazione nello shomin-geki, nei film, cioè, che ritraggono il ceto piccolo-borghese. L’anno della svolta è il 1949. Adattando per lo schermo un romanzo di Hirotsu Kazuo, Ozu e, naturalmente, Noda concepiscono un capolavoro come Tarda primavera. Un soggetto che gravita intorno a un padre vedovo e a una figlia ormai adulta, refrattaria alla prospettiva di una sistemazione coniugale; circostanza che spinge l’uomo a fingere di volersi risposare. Tarda primavera gemmerà almeno altri due titoli. Nel 1960, infatti, arriva nelle sale Tardo autunno, che non può essere considerato un doppione perché deriva dal libro di un altro autore, Satomi Ton, e perché il personaggio del padre viene sostituito da una madre; la trama, tuttavia, è pressoché sovrapponibile. L’altro titolo è, per l’appunto, Il gusto del sakè.

Chishū Ryū in Il gusto del saké

Shūhei, al quale dona il volto mansueto Chishū Ryū, attore-feticcio di Ozu, ha perduto l’amatissima moglie e spartisce la sua casa e la quotidianità di onesto impiegato prossimo alla pensione con i figli Michiko, aggraziata, premurosa e, ovviamente, nubile, e Kazuo, bifolco e irruente come gli adolescenti moderni. Il maggiore degli eredi, Kōichi, è sposato con la petulante Akiko e abita in un altro appartamento. L’apparente disinteresse di Michiko per i ragazzi spinge Shūhei, assillato, sul tema, da amici piuttosto indiscreti, alla preoccupazione che la figlia rimanga sola. Quando un collega gli fa il nome di un possibile pretendente, Shūhei accarezza la speranza che la giovane accetti la proposta. Ignora che Michiko è già infatuata di un amico di Kōichi. La ragazza non riuscirà, tuttavia, a coronare il suo sogno d’amore, perché scoprirà, troppo tardi, che l’uomo di cui è innamorata è già fidanzato. Il padre non dovrà ricorrere allo stratagemma visto in Tarda primavera, perché Michiko, a questo punto,  accetterà di unirsi al candidato suggeritole.

Lo sfaldamento del nucleo familiare nel Giappone contemporaneo, uno dei temi nevralgici della produzione di Ozu, trova nel Gusto del sakè una delle sue espressioni più compiute. Il Paese sta cambiando. Le campagne, custodi della tradizione, si spopolano a vantaggio dei centri metropolitani. Il film, non a caso, apre su di una veduta urbana: i mastodonti verticali (ciminiere e palazzoni) del quartiere industriale dove lavora e abita Shūhei, alla periferia della capitale. Che i figli non siano più disposti ad accettare remissivi le nozze combinate era già evidente in Inizio d’estate (1951), così come Viaggio a Tokyo (1953) denunciava l’inesorabile separazione tra le generazioni giovani e attive, stritolate dalle incombenze del frenetico vivere cittadino, e i vecchi, testimoni impotenti del nuovo corso delle cose. Le donne lavorano ormai fuori casa e ciò rappresenta, inevitabilmente, un sintomo di novità. Le due segretarie dell’azienda del protagonista, una a un soffio dal matrimonio, l’altra che, invece, temporeggia, senza la preoccupazione spasmodica che qualcuno la impalmi, incarnano due modelli femminili differenti e, in fondo, le due anime di Michiko, divisa tra fantasie romantiche e resistenze all’ipotesi della vita di coppia. Il gentil sesso, inoltre, non è poi necessariamente così gentile come si potrebbe esigere: Akiko è una donna volitiva ed estranea al concetto di sottomissione, non cucina, amministra il libro dei conti domestici e tedia il dolce Kōichi sull’acquisto del frigorifero. Anche Michiko, dal canto suo, rifiuta di assoggettarsi con il sorriso sulle labbra ai capricci e alle prepotenze del fratello Kazuo. Shūhei sa che la solitudine senile lo attende dietro l’angolo. Ciò nonostante, s’impone di non ricadere nell’egoismo di avvincere a sé la figlia con ricatti emotivi impliciti e investe nella ricerca di un marito uno zelo e un ardore anacronistici.  La disgregazione della famiglia, tanto dolorosa quanto inevitabile, turbava l’animo fondamentalmente consevatore di Ozu, che non prese mai moglie e convisse con la madre fino all’ultimo. Le stanze vuote su cui la macchina da presa indugia per due volte, dopo l’uscita di Michiko in abito da sposa e al ritorno di Shūhei nel finale, piangono, nel loro silenzio avvolto nelle musiche superbe di Kōjun Saitō, un rammarico rassegnato. Perché la partenza di Michiko, per quanto naturale, non sarà priva di conseguenze. Dario Tomasi, infatti, scrive: “Al regista non interessa la psicologia dei suoi personaggi, che son sempre inseriti in un contesto più ampio dove ciò che conta è semmai una psicologia di gruppo, dove la scelta del singolo non vale per il singolo ma per quel che modifica nelle relazioni all’interno di un insieme dato”. Sulle nozioni di vuoto e silenzio, come sull’ordine in cui i personaggi sembrano inscritti, sarà necessario tornare.

Una scena di Il gusto del saké (1)

La macchina da presa ad altezza di tatami, specialità del fedele direttore della fotografia Yūharu Atsuta, è l’ingrediente stilistico più peculiare di un film che, anche nella forma, riafferma le inclinazioni espressive del suo autore. Spesso, Ozu indugia su pareti alle quali è appeso un orologio, tanto in ufficio quanto a casa di Akiko e Kōichi. Non si tratta di elementi scenografici ornamentali: quello che mette in scena Ozu è il tempo della vita, secondo il suo costitutivo fluire, scandito da secondi e minuti. La proverbiale lentezza del cineasta poggia su fondamenta teoriche robuste e si dispiega nella fissità delle inquadrature come nella sinuosità di un montaggio che non interrompe e non spezza mai le movenze umane. Soluzioni che hanno condotto Max Tessier, non senza una propensione all’iperbole, a definire “antitecnico” lo stile del nostro. È noto che Ozu dismise gli effetti più platealmente cinematografici, come le dissolvenze incrociate, ai tempi del muto, aderì con scarso entusiasmo al sonoro e salutò molto tardi il bianco e nero (Il gusto del sakè, d’altronde, è solo il sesto film a colori), ma, per quanto essenziale appaia la sua grammatica, la sicurezza nei passaggi dal campo al controcampo e la gestione esemplare dei corpi degli attori sono il sintomo di una conoscenza inoppugnabile della sintassi filmica. Certo, se paragonate agli impetuosi carrelli di Mizoguchi, le inquadrature di Ozu risultano decisamente statiche; non per questo, però, sono liquidabili come teatro filmato. Antitecnico o meno, lo stile è perfettamente conforme alla trasmissione di sentimenti e dolori che mai s’attorcono in strazio e convulsioni, di un pàthos inesploso e soggetto a un intransigente regime di controllo. Intervenuto a riguardo sulla rivista Artforum, Jim Jarmush ha commentato: “It is through this elegant quietness that Ozu navigates his slight stories around the expected landmarks of dramatic curves and heightened emotions” (tradotto liberamente, “È attraverso questa elegante tranquillità che Ozu consente alle sue tenui storie di aggirare il prevedibile scoglio delle curvature drammatiche e del crescendo emotivo”).

Una scena di Il gusto del saké (2)

È, tuttavia, a un altro celebre filmmaker statunitense, Paul Schrader, che dobbiamo una delle più acuminate analisi di Ozu. Il trascendente nel cinema, la tesi di dottorato discussa quarant’anni or sono e diventata un caposaldo nella storia della critica cinematografica, colloca la filmografia di Ozu e lo stile che la permea sul più ampio sfondo della cultura orientale, per individuare nella forma le tracce del sacro, l’epifania dell’assoluto. Schrader rinuncia consapevolmente a un approccio narratologico e all’esame dei contenuti, come, d’altronde, a incentrare la dissertazione sulla personalità del regista. Per la tradizione Zen, infatti, l’individualità è più un mezzo che un fine, e il singolo è inglobato nei ranghi di una realtà cosmica che tutto abbraccia e sussume. Comprese la società e la famiglia, dimensioni semantiche imprescindibili in Ozu, messe in pericolo da una modernità che, nel provocare fratture, sortisce alterazioni ontologiche. Il concetto intorno al quale Schrader conduce l’argomentazione è il mu, ovvero il vuoto, stilema cruciale, anzi, fondativo. E non solo su pellicola. Mu designa, originariamente, lo spazio che separa i ramoscelli nelle composizioni floreali. L’arte giapponese è pervasa dal mu, in ogni sua branca, perché sono proprio la mancanza, lo spazio vacante a dare non solo respiro, ma anche significato all’altro da sé, la presenza, lo spazio occupato. In pittura, è lo specchio d’acqua a conferire senso all’esigua barchetta raffigurata ai margini del quadro. Nel giardinaggio, è la superficie sgombra a sovrastare, per importanza, il cantuccio in cui si concentrano i sassi. Nella poesia, pensiamo ai famosi haiku, le pause “strutturano” il verso, l’implicito supera, spesso, per pregnanza, l’esplicito. Ebbene, è un simile vuoto che attraversa i lungometraggi di Ozu, ierofania di un ordine superiore. Vuoto che non “intacca” solo la sfera fisica, manifestandosi nelle stanze, nei corridoi e in tutti gli ambienti, spesso vistosamente spogli, in cui sono inseriti i personaggi, ma si può intendere anche in un’accezione ideale. Nessun flashback, come nessun ritratto, ci restituisce le fattezze della moglie di Shūhei e la felicità del ménage coniugale, ma la donna sopravvive solo nei ricordi, a noi preclusi, di chi le ha voluto bene, per riaffiorare nel viso di quella barista che alcuni sostengono somigliarle (ma sarà poi vero?). Dall’altra parte, una delle geniali ellissi di Ozu investe proprio lo sposo di Michiko, del quale non vedremo mai la faccia, né udiremo la voce. Una censura che dà risalto al nucleo del film: la famiglia della sposa e il suo tentennare tra coesione e spinte centrifughe.

Ritratto di Yasujirō Ozu

L’ineluttabile si compie e Shūhei, come la ginestra leopardiana, non può che accondiscendere. Sono numerose le ragioni per cui, a cinquant’anni dall’uscita, Sanma no aji conserva la facoltà, per nulla scontata, di carpirci quel po’ d’emozione che ci strugge blandamente, ma se una svetta sulle altre è, forse, l’effigie di un uomo che, con delicata dignità, si avvia al crepuscolo. Il titolo originale significa letteralmente “il gusto della costardella”, pesce mangiato sul finire dell’estate e, quindi, profeta dell’autunno imminente. Il sostantivo sakè, in giapponese, doverosa digressione, designa semplicemente l’alcol e non, come lo intendono gli occidentali, il liquore di riso che annaffia le serate dei personaggi. Il crepuscolo che cala su Shūhei sta avvolgendo, d’altronde, anche quel cinema di cui Ozu è stato araldo. Già la Nūberu Bāgu, la Nouvelle Vague nipponica, agitava, allora, il suo vessillo e Nagisa Ōshima andava edificando i suoi imperi sensoriali di sesso, violenza, politica e ribellione. Un orizzonte incompatibile all’universo di Ozu, che, infatti, si congedò dal pandemonio terreno. Lasciandoci cinquantaquattro film e un profondo mu.

Il gusto del sakè

Titolo originale: Sanma no aji
Regia: Yasujirō Ozu
Sceneggiatura: Yasujirō Ozu, Kōgo Noda
Fotografia: Yūharu Atsuta
Montaggio: Yoshiyasu Hamamura
Musiche: Kōjun Saitō
Produzione: Shōchiku Co.
Origine: Giappone, 1962
Cast: Chishū Ryū (Shūhei), Shima Iwashita (Michiko), Keiji Sata (Kōichi), Mariko Okada (Akiko), Shin’ichirō Mikami (Kazuo), Teruo Yoshida (Yutaka), Nobuo Nakamura (Shūzo), Ryūiji Kita (Shin), Eijirō Tono (Sakuma “il Tasso”), Kishida Kyōko (la barista)

I testi citati

Jim Jarmush, Two or three things about Yasujirō Ozu, in Artforum, ottobre 2003

Paul Schrader, Trascendental style in film. Ozu, Bresson, Dreyer, University of California Press, Berkeley 1972; trad. it. Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2002

Max Tessier, Le cinéma japanaise. Une introduction, Nathan, Parigi 1997; trad. it. Breve storia del cinema giapponese, Lindau, Torino 1998

Dario Tomasi, Ozu Yasujirō, La Nuova Italia, Firenze 1992

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