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Scrittura

Messaggio per il secolo

Messaggio per il secolo
Titolo: Messaggio per il secolo
Autore: Giorgio Pressburger
Editore: Caputo Edizioni S.r.l.
Collana: “Black Clouds”
Anno: 2011
Pagine: 62
ISBN: 978-88-97229-09-4
Prezzo: € 3,99
Acquista: EPUB | KINDLE

Questo racconto parla di un uomo che, a causa di un incidente accaduto al momento della nascita, vivrà la sua vita in carrozzella. Eppure, nonostante questo, parteciperà di persona, attivamente, ad alcuni grandi eventi della Storia del Novecento, aderendo a ideologie e filosofie contrapposte. Ma in questo individuo, scosso ogni istante da tremiti e impulsi fisici, si riassume il percorso esistenziale di tutti gli esseri umani, continuamente sollecitati da idee d’ogni tipo, violenze proprie e altrui, da malvagità e da suprema bontà. Il protagonista di questo racconto fatto in prima persona è capace di amare e odiare ferocemente, di donare tutto se stesso ma anche di uccidere. Ecco l’uomo.

Le cose straordinarie che mi sono accadute nella vita, le mie idee diventate azioni inarrestabili saranno narrate dalle parole che seguono. Non parlo di libri, di pagine, di capitoli: quando il mio racconto giungerà fino a voi, forse non esisteranno più libri di carta, e anche le parole verranno sostituite da ideogrammi, simili a quelli cinesi. Non riesco a immaginare con precisione la forma con cui questa storia arriverà fino a voi. Per trasmetterla tenterò tutti i mezzi oggi a disposizione dell’uomo. Questo è uno. Forse la mia storia non raggiungerà nessuno, e la sua realtà verrà inghiottita dal nulla. Ma se qualcuno riceverà questo messaggio, vorrei pregarlo di immaginare la persona che l’ha inviato: un uomo esistito negli ultimi decenni del lasso di tempo che per convenzione, nei Paesi occidentali, si è chiamato <<ventesimo secolo>>.

Quest’uomo si trova al centro di una <<villa>>, cioè un fabbricato di due piani fatto di camerette e vasti saloni. Vorrei che tutti mi vedessero, almeno mentalmente, seduto sulla mia sedia a rotelle, mentre mi aggiro per le stanze, rattrappito nel corpo, braccia e gambe molto corte e il busto gonfio di grasso, perché, preso dall’angoscia d’essere nato deforme, non avrò fatto che mangiare. Scusatemi se invado la vostra mente con queste immagini: come vedrete, in un certo senso potrete consolarvene, invece di angosciarvi inutilmente. La forma della mia testa, del resto, è perfettamente normale, anche se i suoi movimenti sono incontrollabili. A volte gli occhi si rovesciano all’indietro, la mascella si contrae e si rilascia disegnandomi sul volto smorfie di pena e tensione. Il doppio mento mi si gonfia e sgonfia di continuo come il gozzo di un tacchino. Anche le mie gambe corte e storte si agitano, le braccia annaspano nell’aria a caso. Da trentacinque anni vivo così. Sono nato così. Perché?

Non fu a causa di un difetto ereditario. Venni al mondo affetto da queste menomazioni perché mia madre, una donna disperatamente vanitosa, non riuscendo a espellermi dal ventre, piuttosto che farselo aprire con un taglio, pretese che mi tirassero fuori da lì con una sorta di tenaglia usata dai medici, chiamata forcipe. Questo strumento, schiacciandomi la testa, lese alcuni centri nervosi. Tutto ciò mi fu confidato da una serva poco prima che la mamma morisse.

Ma anche mio padre ebbe un ruolo altrettanto crudele in questa storia. Alcune sue decisioni, prese quando ero ancora piccolo, influirono su di me quanto quelle di mia madre. Queste due persone furono lo strumento con cui la vita voleva punirmi. Finora ho resistito alla pena. Non sono un mostro arrendevole. Sono capace di grandi sforzi, di concepire grandi pensieri e provare grandi sentimenti.

Ero ancora nella culla quando m’accorsi che il mio corpo resisteva a qualunque atto di volontà. Volevo afferrare un oggetto che mi veniva porto, e quell’estremità che si chiama mano andava in una direzione diversa da quella a cui la stava destinando la volontà. Toccato dai reggi del sole che entravano dalla finestra, volevo stare fermo a goderne il calore, simile a quello del ventre materno che avevo appena lasciato. Non potevo. I miei muscoli erano percorsi da stimoli senza senso, e i miei arti si tendevano, s’agitavano, la testa mi si torceva sul collo. Ero una domanda vivente, prima ancora di sapere cosa fosse una domanda. Quei lampi che mi percuotevano non avevano causa. Cos’è questo? Gridava il mio essere senza ottenere risposta. Ero una sorta di sedia elettrica per me stesso. Quando mia madre mi ripeteva per ore e certe parole, cercando di insegnarmi a pronunciarle, mi sentivo uscire dalla bocca un belato orrendo, assolutamente diverso da quel fenomeno acustico così gradevole che era la dolce voce di lei. Eppure cercavo di ripetere quei suoni, che associai ben presto al volto apparso per primo al mio sguardo. Così imparai a pronunciare la parola <<mamma>>.

Devo fare uno sforzo enorme per pronunciare, una dopo l’altra, le parole. I muscoli della lingua e della bocca si oppongono a un funzionamento regolare. Così, spesso devo scandire il mio discorso sillaba dopo sillaba. Altre volte, con uno sforzo estremo, sono costretto a parlare sin troppo in fretta, per precipitarmi verso la fine delle frasi.

So tutto della mia infanzia. Con l’aiuto di un medico ho recuperato la memoria della mia vita di neonato. Per mezzo dell’ipnosi questo giovane dottore è in grado di far <<regredire>> la mente dei pazienti fino allo stato fetale, e oltre: a una vita precedente. Un giorno lessi un resoconto della sua attività su una rivista dal nome misterioso: <<Rizoma>>. Il mio segretario non faticò a trovare l’indirizzo di quel medico, si mise in contatto con lui, stabilì la data dell’incontro, che avvenne qui, nella mia <<villa>>. Cominciarono le nostre lunghe sedute… Con me le tecniche normali dell’ipnosi fallirono: il piccolo portachiavi che mi oscillava davanti agli occhi, la voce pacata del medico che voleva persuadermi a chiudere le palpebre <<pesanti, sempre più pesanti>> mi causarono contrazioni ai muscoli. Presi a muovere gli arti, a tossire, a torcere il collo. Dovettero farmi inghiottire un calmante.

Dopo molti tentativi, il dottor F. escogitò uno stratagemma. Un giorno si presentò a casa mia provvisto di un <<registratore>>. Dai due altoparlanti portatili uscì un rumore assordante. Sulle prime le mie reazioni a quello stimolo sonoro furono terribili: le braccia fecero movimenti improvvisi, le gambe cominciarono a scuotersi, tutto il mio corpo sobbalzava. Ma dopo un minuto di questo <<ballo>> insensato il fragore vinse la forza degli stimoli muscolari e il mio organismo s’acquietò. In capo a dieci minuti caddi in uno stato di ipnosi. La musica rock produce questo effetto su di me: mi agita e mi calma al tempo stesso.

Il dottor F. registrò, come stabilito, su un altro apparecchio tutto il colloquio che avvenne tra noi durante quella prima <<seduta>>. Fu così che io potei riascoltare la mia voce, i belati, i rantoli, e le pacate, oneste domande del medico. Quella conversazione verteva su vecchi ricordi innocenti: non era ancora saltata fuori la verità sui miei primi anni di vita.

Mi rivedo nella culla, sento certe misteriose, enormi leve (le mani e le braccia di qualcuno) che mi sollevano in aria, provocandomi spaventose contrazioni muscolari. Sento una cosa enorme e calda avvicinarsi alla mia bocca, un flusso dolce e tiepido scendere dentro di me: è il seno della mamma che mi allatta. Sento sul ventre il contatto di una cosa calda e liscia, la mano di mia madre. Tutto mi passa a una velocità terribile davanti agli occhi, che a poco a poco distinguono quel tutto che si muove a scatti: il mondo circostante. In quel continuo caos, in quel movimento inarrestabile passa molto tempo, e io provo un dolore lancinante, poi comincio a distinguere quei suoni che si ripetono con fastidiosa ostinazione. Ogni tanto una voce grossa, informe si abbatte su di me, è quella di mio padre, una voce chiara, armoniosa mi accarezza, mi avvolge, è quella di mia madre. Nel mio cervello in preda al panico, comincia a organizzarsi il linguaggio.

C’è anche una terza forma mobile e sonora che ogni tanto appare. È la mia balia. Le sue mani si attaccano alle mie gambe e le tirano, nel tentativo di far loro compiere dei movimenti lenti, sempre uguali. Quelle operazioni mi provocano uno stato di tensione insopportabile. I muscoli si irrigidiscono, trasformandomi in un’enorme massa dura, uno stupido pupazzo inchiodato a se stesso, goffo e pesante.

Questi tre volti furono i primi ad apparirmi. Qualche volta vedevo anche un quarto viso da cui emanava uno strano odore amaro: era il mio medico, il dottor Spitzer, un pediatra. Sulle prime i suoi occhiali mi spaventavano, quegli enormi cerchi rilucevano minacciosi, tanto più che dentro si muovevano altri due cerchi scuri e lucenti: gli occhi. Quel volto non allungava così caparbiamente delle leve come facevano gli altri tre, non mi tirava gambe e mani, si limitava a toccarmi. Il suono che veniva da quella cosa morbida (la bocca), era lieve, basso, non mi spaventava. – Resterà per sempre così, – disse una volta. Per due tre anni mi sforzai di risolvere l’enigma di quelle parole, finché un giorno non capii. Allora cominciai a odiare anche il mio medico di quei primi anni di vita, a sputargli, a defecargli in faccia.

Ogni nuova parola che apprendevo era preceduta dall’odio e dallo spavento. Di solito la prima volta la gridavo con rabbia, la urlavo a squarciagola, come per dispetto. Alcune registrazioni del dottor F. ricostruiscono fedelmente quelle tappe del mio sviluppo mentale e fisico. Posso affermare in tutta onestà che non esagero nella mia descrizione. Trovo miracoloso l’esperimento dell’ipnosi: non mai supposto che una voce d’adulto potesse ritornare ai suoni emessi da un neonato. Chiunque rimanesse scettico di fronte a tale affermazione, può farne la prova con l’aiuto di un buon medico ipnotista.

Ultimamente, durante il mio tempestoso rapporto d’amore con Dora, ho provato a cancellare le terribili impressioni dei miei primi anni di vita, e forse qualche volta ci sono anche riuscito. Ma di questo più tardi.

Possibile che il linguaggio non si associasse in me a qualche sentimento più positivo, come gratitudine, piacere carnale, affetto? Non so. L’unica cosa che posso affermare con certezza è la pena inimmaginabile che mi costò l’appropriarmi del corretto uso del linguaggio.

In quegli anni viveva in città un giovane poeta, il quale, in aperto rifiuto della società civile, insegnò al figlio, mio coetaneo, non a parlare, ma ad abbaiare. Quel poeta morì di fame all’età di ventidue anni. Negli ultimi mesi di vita aveva abitato in una grotta. Sua moglie e suo figlio sono sopravvissuti. La vedova, a distanza di più di trent’anni, sta lavorando alla prima edizione completa delle opere di quello spirito ribelle. Sarei stato grato ai miei genitori se mi avessero risparmiato la fatica di comandare alle labbra, ai polmoni, alla lingua, se non mi avessero costretto a emettere quei suoni che non si stancavano di ripetermi. Avrei preferito abbaiare anch’io, esprimere soltanto rabbia e contentezza: mi fu impedito. Hanno voluto insegnarmi tutte le astuzie della lingua.

Il veleno della parola entrò dentro di me per non lasciare mai più le cellule del mio corpo.

Ma c’era qualcosa di peggio della costrizione della parola. Nella loro caparbietà, i miei genitori si misero in testa di farmi superare gli ostacoli fisici della mia natura. Prima a turno, poi tutti e due insieme cominciarono a tenermi per mano. Con le braccia tese verso l’alto, le mani nelle loro mani, venivo costretto a colpi di ginocchio ad avanzare verso una meta stabilita: un tavolo, una sedia, il lavandino. Se mi fermavo, o mi mostravo indeciso, oppure le contrazioni dei muscoli mi paralizzavano, un colpo nella schiena mi pungolava a muovermi. <<Perché muovermi? – domandavo a me stesso. – Dove andare? Perché di là e non di qua? Mi sentirò meglio dopo aver fatto questa tremenda fatica?>> Non capivo il senso di quelle azioni forzate, di quell’assurdo spostarmi da un luogo all’altro. Tanto più che i miei muscoli non mi assecondavano affatto. Ma il peggio doveva ancora venire. Mamma e papà avevano deciso di fare di me un uomo come gli altri, ed erano disposti a qualunque sacrificio pur di ottenere il loro scopo.

Fecero fissare ai muri certi attrezzi chiamati <<pareti svedesi>>, cioè dei gradini di legno rotondi, verniciati di chiaro e laccati. In teoria, aggrappandomi ai gradini, a poco a poco avrei potuto salire fino al soffitto, ma quella era soltanto teoria. La parete svedese venne installata lungo tutti i muri interni della casa, in modo da consentirmi di fare il giro della <<villa>>. Non provai mai a farlo.

Dopo alcuni pomeriggi passati nel tentativo di scalare le pareti svedesi, ebbi un’illuminazione. Salii alcuni gradini (ci volle mezz’ora) e improvvisamente lasciai la presa e precipitai a terra. Sentii un dolore indescrivibile, udii le urla della balia, quelle spaventose di mia madre, infine la voce <<rauca e bassa>> di mio padre. Accorsero anche altre persone che non avevo mai visto. Mi sollevarono con cautela: la frattura di alcune ossa mi procurò un dolore straziante.

Mi portarono nella mia stanza e mi adagiarono sul lettino. Urlavo a squarciagola, piangevo e imprecavo.

Ci fu un grande trambusto attorno a me, più chiasso di quanto riuscissi a fare io. Mi trasportarono fuori, giù per le scale, nella strada assordante e polverosa, fino all’automobile di papà. Soffocavo dalle grida, dallo sforzo di fronteggiare il dolore e l’odio. Fui trasferito in un posto puzzolente, il cui odore mi fece subito vomitare. Era un ospedale. Mi misero di nuovo in un lettino, un uomo dai grandi peli neri sopra le labbra mi toccò, e un attimo dopo sopraggiunse l’oscurità e il nulla.

– Allora, Abramo! – gridò il volto dai grandi peli scuri. A quel grido mi svegliai. Risposi con l’unica frase che a quell’età sapessi pronunciare correttamente.

– Eccomi, – dissi. Era una frase che avevo sentito una volta da mio padre, e che scimmiottavo  alla perfezione, con la mia vocina simile al verso di un cagnolino. Il dottor F. mi ricondusse varie volte a quell’evento. Così potei comprendere che quell’<<eccomi>> era anche il debole segnale con cui volevo affermare la mia esistenza, e la mia incontenibile rabbia per essere esposto alle vessazioni del mondo.

Prima che potessi rientrare a casa passarono mesi. Non che stare nella clinica <<Salus>> in cui ero ricoverato non mi piacesse. Anzi, le continue attenzioni delle infermiere e dei medici mi gratificavano molto più delle carezze della balia. Mamma e papà venivano a trovarmi ogni giorno, mi sorridevano, mi manifestavano tutto il loro affetto. Di quell’affetto, che mi costava sforzi dolorosi e inutili, non ne potevo più.

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