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Scrittura

Felicità raggiunta

Felicità raggiunta
Titolo: Felicità raggiunta
Autore: Paolo Giuranna
Editore: Caputo Edizioni S.r.l.
Collana: “Il mare”
Anno: 2011
Pagine: 55
ISBN: 978-88-97229-01-8
Prezzo: € 6,99
Acquista: EPUB | KINDLE

Un intero ciclo di romanzi dal quale si configura una immagine di Roma grandiosa e grottesca quale l’affligge la Melancholia Europea, forma epidemica dell’antico individuale Male oscuro, la follia depressiva, mentre la cittadinanza è in attesa ora di un prossimo Giubileo, ora è coinvolta da un Grande Evento, Campionato Mondiale, Maratona Mondiale, Raduno Ecumenico; mentre imperversano imprevedibili abnormi precipitazioni di neve, imprevedibili grandinate dal calibro distruttivo o l’Urbe è sfregiata da sempre più audaci imbecilli, o sconvolta dal solito misterioso attentato. Sembra così che lo sfondo delle storie lo narri Roma stessa, che affronta il quotidiano Male, le sue folle iperattive o ignave secondo la fase di Melancholia, con la sua vox populi ormai multilingue, mentre scorre ancora la vena profonda dell’antico romanesco cinico e partecipe. L’autore si è ispirato alla poesia di Montale il cui incipit è il titolo di questo romanzo tutto azione. L’autore si vanta di aver indovinato l’Italia vincitrice del campionato di calcio 2032; la finale avvenne a Roma e l’Urbe mostrò in mondovisione come possano i pochi conosciuti patrizi, la grande plebe burocratica e la smisurata sottoplebe superare le barriere sociali in una massa di minorenni ossessi che invade vie e piazze e occupa monumenti per una furibonda e colossale caciara. Ma c’è tra la folla e la montante follia, un ragazzino vero, di quelli nati dispari, che, in fuga da tutto, intanto si gode la sua impaurita libertà da una pretesa parente che l’ha sottratto alle minorili, ma è in combutta con trafficanti di organi…

In questa parte dell’anno Quaranta, che dovrebbe appar­tenere a primavera, un vento tramontano ha fatto in cielo repulisti e arriva a taglio qui su Monte Porzio.

Cittadona ti formicola quasi sotto ai piedi, ché s’è allargata tanto e in fretta da far comunella con Frascati. Sì, da questo cocuzzolo di colle, fin dove l’occhio può, vedi Romaccia in­sino al cuppolotto di San Pietro; e sempre nell’ora del tra­monto, pur oggi, azzurro limpido com’è, intravedi su lei una caligine che vaga, che cangia il grigio in nero e il nero in gri­gio; e hai voglia sole, hai voglia vento, a quest’ora, quella sorta di nuvolo non si dilegua che a sera fatta. E se vieni di paese campano o molisano e alla curva belvedere aguzzi lo sguardo e ti chiedi quel nuvolame che d’è, sappi ch’è il volo smisurato de li storni che ancora svernano sull’Urbe.

È così che una volta si diceva allegri ai ragazzini: “Uh! Guarda gli stornelli!”

Naso all’insù, i mocciosetti s’ammiravano di stucco per quelle danze in aria a precipizio, a cascatella, a giravolta e a intreccio di figure rade e fitte, fitte e rade. Non è passato mezzo secolo, ed eccoti che al giorno d’oggi, in Cittadona, quelli gentili animali, decuplicati di numero e di costume in­carogniti, le fanno un temporale ogni tramonto, le ricamano sopra figure di tormento e jella e, intanto che tutta la impia­strano, nessuno più li guarda. I ragazzini della brava gente restano tappati al chiuso; chi degli adulti sorte fuori a piede o torna, vedi caso, in quest’ora, che è proprio l’ora del rientro, porta cappucci, pellegrine, soprascarpe e ombrelli in cellofa­nio, li usa una volta e poi li getta in cassonetti appositi o a rampazzo se proprio è scostumato. Aggiungi che questi pen­nuti viaggiatori hanno occupato a poco a poco, inverno dopo inverno, ogni albero di parco, villa, viale e giardinetto della Capitale, così che al fragore di traffico s’è unito, nell’ora dei crepuscoli, un cigalare gigantesco, metallico, che dura fino all’oltre primavera, quando emigrano, ma intanto pare un versaccio d’anime perdute, costrette a patire in un catino d’ignavia e di furore.

Quel che piove dall’autunno a primavera non è che un fa­stidio, diomio, per Cittadona; c’è chi ritiene fastidio peggiore la dittatura demogratiga aziendale; ma pessima disgrazia per tutti si è un morbo dell’animo, che ammala in modo strano e multiforme e s’è diffuso tanto quanto la peste de li tempi antichi.

Tra i più frequenti sintomi del male si è un umore fosco, un veder nero, una tristezza che si metta a pensare da sola, senza che tu dica: ”Adesso penso”. La tristezza pensa e desi­dera, tu sei lì che osservi i desideri e i pensieri, così come guardi i volacci degli storni inseguire una fame senza sazietà, ma non sai più se è il tuo pensiero che pensa, se è il tuo vo­lere che desidera. Mi dirai che succede ad ogni creatura sana di perdersi in pensieri tristi e in desideri vani. E appunto questa è la malignità del morbo, che il confine fra la tristezza sana e la tristezza malata puoi riconoscerlo soltanto tu.

D’altro canto i professori medici, preso atto che vano era prescrivere benzedrine e scosse elettriche o bagni caldi e bromuri, secondo il deliro fosse apatico o frenetico, presero anche a supporre e a discettare se, affetto dalla maligna paz­zia della tristezza, dovesse diagnosticarsi il tristanzuolo, l’uggioso, lo sconsolato e, di conseguenza, il nulla-tenente; oppure anche il festevole, il faceto, il mattaccino spensierato e, di conseguenza, il ricco nababbo. A seguito di questa di­sputa medico-sociale, qualche gazzetta affacciò l’ipotesi che il morbo fosse un effetto del reggimento a bottega dello stato, anche se le cifre statistiche sbandieravano che la follia della tristezza colpiva sia i sostenitori che gli oppositori del bottegaro di turno. A cifre sbandierate, gli estremisti, i terro­risti e i lettori delle favole di Trilussa ebbero buon gioco nell’attribuire l’origine della follia al sistema democratico, poi che, da parte delle rane nello stagno, fu democratica la scelta d’avere il topo per padrone, nella speranza di diventare tope pure loro.

Così gli scienziati biologi, sempre e invano ricercando qual gene bacato esponga la persona intima dell’omo all’attacco imprevedibile dell’angoscia malefica, al suo andamento am­biguo ed al suo esito troppo sovente infausto, si tennero su di una ferrea, quanto litigiosa, ignoranza delle cause e con­vennero soltanto nel battezzarlo “Melancholia europea”, per buona pace dei traffici aziendali e democratici del conti­nente; lasciando stare le dispute statistiche se la percentuale più alta degli attristati violenti sugli altri fosse a Madrid o a Belfast; se a Berlino la mania suicida seminasse morti quanto le autostragi sull’Autosole Due; se la satiriasi e la ninfomania infuriassero di più a Bruxelles o a Parigi; o se Londra fosse invasa dai bulimici più di quanto Roma fosse dannata dall’abulia e dalla frenesia maniaca. 

I

Nevio Lucanti, ultraquarantenne ma rinsecchito, sceso dal nativo Monte Porzio Catone, calcolato il tempo, era arrivato alla stazione Sud dell’Eur che non aveva finito di piovere quel che hai capito che pioveva e che, ognibonconto, pareva pure un segno della pazzia melancholica. Nel lusco dell’ora, riparato all’ingresso della Metro, il Lucanti appuntò uno sguardo interrogante nel fitto della nuvolaglia sporcacciona: una brigata che, fra le mille e mille degli storni, s’era slungata verso uno squarcio d’azzurro, laggiù verso occidente, pro­dusse uno svolazzo a forma di nastro ondeggiante; poi si av­volse in un fiocco, sfarfallò e s’era già mutato in una forma più tonda che somigliava la clessidra, quando parve esitare e fissarsi, sospeso in quella antica figura d’orologio, come do­vesse segnare il tempo e lo scoccare d’un istante. L’istante dopo si sciolse, lo stormo cadde, e tutta la masnada nuvolosa precipitò a ruscelletti, a fiumare, a trombe turbinanti, per sparire alla vista quasi non fosse mai esistita.

-“Il tempo è stretto.”- divinò fra sé Lucanti Nevio e te­neva la faccia di chi ha la prescia d’un appuntamento.

Quando s’avviò deciso in mezzo alla piccola calca d’omini e donne, alcuni impacchettati in cellofanio, sì che parevano ovi di Pasqua con le gambe, il Lucanti aveva l’aspetto appe­nato d’uno che avesse antevisto quel che di seguito e di fatto avvenne lì al semaforo; talché, attraversato viale America, mentre il gruppo di pedoni si sperdeva, Nevio s’arrestò sul marciapiede, preso da angoscia improvvisa e volse uno sguardo quasi a chiedere aiuto all’aria; ma intanto che la stretta lo acchiappava al petto e gli mozzava il fiato, vide una Standard, di quelle col trucco nel reattore, venire giù a sas­sata per la discesa di viale Beethoven.

Vai a capire se incalzato da qualche urgente scomodo o da qualche nuova pasticca ribalda o perché preso da una sgas­satadi Melancholia frenetica, l’autista prescioloso della Stan­dard volle passare col rosso ch’era sopraggiunto, volle evitare il bischero che all’incrocio aveva anticipato il verde, accelerò sterzando alla violenta e così, a somma delle sue smarronate, la due posti urlò di motore ed evitò il minchione, poi frenò, ma slittando sul guano infilò la tangente e colse in pieno il palo in ferro-cemento della luce comunale che, vedi caso, s’accese in quell’attimo un attimo, quasi la botta gli avesse dato e tolta la corrente.

La fracassata provocò l’assemblea degli storni, che concionava appollaiata sui platani del viale e che s’alzò in un volo tempestoso di paura e protesta. I passanti spettatori, incerti se avessero visto televisione o realtà, rimasero gelati al botto, ma ripensarono o dissero l’intera serie dei commenti al caso, dal “Così t’empari a corere!” al “Madonna santa del suffraggio!”; un venditore nero di collane, seduto al suo banchetto, prese a scuotersi tutto, battendosi le cosce con le mani, non sapevi se per pianto, riso o qualche suo rito tribale; ma intanto che una dozzina fra indiani, albanesi e affricani s’appressava curiosa e magari furtiva, a rimediare la mancia o il furto nel soccorso, Nevio Lucanti era già lì con la pena provata che adesso coincideva al fatto.

Altro che mancia: quei pori lazzeri, rummeni o borgatari semplici che fossero, non avrebbero insaccato due centesimi, perché quel cartoccio strizzato non potevi più credere che contenesse il guidatore e, in quanto al passeggero, sfondato di capo il parabrezza, giaceva meschino col busto sul cofano e le gambe spezzate per dentro alle lamiere.

Nevio Lucanti era lì, ma che doveva fare? Si volse ai sopraggiunti e comandò:

-“Fermi a dove state. E chiamate presto l’intervento!”- E quelli, fatti scolari compunti dall’ordine improvviso, obbedendo s’arretrarono; così Nevio Lucanti si rivolse al ferito, giudicò che avesse passato i trent’anni e lì finito la sua vita; poi si chinò sul viso tutto sangue a sentire se ancora aveva il fiato. E quello fiatava e farfugliò:

-“Una… preghiera…”-

Seppure alla sprovvista, Nevio ebbe presenza, cercò nella memoria, poco trovò che fosse adatto, sentì un impeto pietoso e disse di suo:

-“Credi a Cristo Iddio che t’ama e vai in pace.”-

Lo sfregiato non dovette intendere, perché continuò faticando:

-“Viale… Cina… nove… cinque… due.“-

Nevio non capiva, gli prese una mano e quello fece la forza per stringerla, così che Nevio s’accostò d’orecchio al viso sconciato dall’urto e udì tre parole:

-“Vai… Prendilo tu…”-

-“Ma chi? Che devo prendere?”-

Nevio sentì più forte la stretta di mano di colui e dovette udire, misto ad un gorgoglio, un nome.

Girò la testa allora; i due stavano accosti di faccia e il Lucanti sentiva il fiato acre dello sfranto e negli occhi accesi di supplica e colorati verdi, s’accorse che l’ombra era lì prossima.

Eppure quello aprì la bocca e, senza suono, la mosse a ripetere forse quel nome. Nevio fece cenno di sì, che aveva inteso e che gli dava il viatico a conforto; ma l’altro sbarrò l’occhi nell’ansimo e, come sospirasse un “santa pazienza, questo non capisce”, disse: -“Gesù!” – e non riprese più fiato.

Nevio aspettava ancora una risposta, sentì inerte la mano che appena prima lo stringeva, ma chiese ancora: -“Dimmi perché!”- con la stessa supplica che, da quella mano e da quel fiato, pareva passata a lui invece che al Verbo universo.

Nel silenzio sospeso che s’era fatto intorno, quasi si fosse inserito di coscienza in quella pausa, Nevio avvertì la scossa e il bagliore del distacco; incredulo, rimase raccolto qualche istante, poi gli si aprì il respiro e si levò in piedi, liberato anche lui, spinto da un’esultanza solenne e assurda in quella pena, scemati di testa tutti quelli intorno e, lui, stupito che ancora risentisse il nome ricevuto in battesimo dal morto e la propria voce che chiedeva ancora: -“Dimmi perché.”-

-“Ma dategli dell’acqua, santoiddio!”- spropositò un pensionato di seconda fila, ché adesso il capannello infittito cominciava la gara dei consigli. Successe invece che si fece largo un giovane occhialuto; si disse medico, venne deciso a quel povero busto bocconi, gli pose due dita sul collo qualche istante, poi guardò Nevio che neanche lo vedeva, si rivolse agli astanti e scosse il capo. 

Sia detto per certo che Nevio Lucanti non era, al meno al momento, melancholico: numero primo, perché teneva a bada il suo pensiero, sì che poteva pure dirgli: “Sta zitto” e quello stava zitto; numero secondo, perché si coltivava un orticello dietro casa, leggeva qualche libro di poesia e campava di suo, con lo stento stipendio delle Poste, tenendo in casa le ripetizioni della matematica per li scolari gnocchi su di Monte Porzio. Dunque Nevio Lucanti era ben composto di sensi, ragione, volontà e fantasia, se giudicò che il nome, inteso dalla bocca agonizzante e ripetuto senza suono, con quei gesti minimi delle labbra protuse e poi aperte, era un pezzo del suo proprio cognomine: Lucanti. E dunque sì, la povera bocca aveva detto e ripetuto: Luca. 

[Fine estratto]

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