C’era un tempo un cui tutti noi si cantava, si stonava, si cercava una dritta via al canto. Poi i modelli sono cambiati, l’articolazione vocale è stata modificata e i format che provenivano dall’estero più avanzato c’insegnavano a scimmiottare i vari andamenti musicali per riprodurli nella sterile sera musicale. L’uragano è poi arrivato, ha spazzato via il superfluo e ha ridato giusta dignità a quell’antico canto che dalle paludi, alle terre di lavoro, serviva a risarcire l’animo della povera gente.
Dino Buzzati, nella sua essenzialità scrittoria, ha saputo ben cantare il senso della povera gente, ora come ora molto lontano da quello che appare solamente pura immagine, realtà dei diseredati. Fra le terre di nessuno e quelle che avevano una firma autoriale (forse sarebbe meglio dire “di proprietà”) c’è sempre stato un grande divario e l’essenziale cantato, ovvero il canto della povera gente, diviene realtà. E la voce di Amy è come la voce delle mondine, segno tangibile di come il tempo si sia riappropriato della propria solitudine terrena. Certo, oggi in Italia è facile avvilupparsi attorno alle immagini da vetrina di “X Factor” o di “Amici” ma sempre più sorpresi si rimane nell’interno uterino di una vita vissuta per non scandire mai il tempo, quello giusto.
Amy scandiva il tempo, lo puliva e lo reintegrava quasi come se fosse in missione per gli astri. Forse è per questo che la sua appartenenza terrena sembrava un oscillare fra i Blues Brothers e un avveniristico suono californiano che sapeva tanto di terre di neri abitanti. Magia concreta di un canto che ha il sapore giusto, frenetico, inverosimile, mai vigliacco e catodico. Noi in Italia, nel tetro mondo dei discografici d’arrembaggio, sentiamo tante voci stentoree, lontane dalla terra e dal ritmo, così tutte uguali e impercettibili; false, falsissime come sono le chimere di chi le canta. Nel grandissimo vuoto che la indolente discografia ci propone, sale da molto lontano qualche antico suono, e mentre scorrono le immagini di Amy, della sua consistente inconsistenza terrena, fra un soul e un mondo nero, c’è chi ha già perso il ricordo di un canto straniero: ai sordi, ai perdenti posti nei supermarket, agli arrangiatori di suoni non capaci, l’insegnamento dovrebbe servire a scoprire quel pizzico di swing che ancora ci rimane. Del rock neanche l’ombra!
Amy Jade Winehouse (Londra, 14 settembre 1983 – Londra, 23 luglio 2011) è stata una cantautrice britannica. Ha debuttato nel mondo della musica pubblicando, nel 2003, per l’etichetta discografica Island, l’album di debutto Frank, che riscuote un buon successo di pubblico e critica. Il vero successo arriva nel 2007, con l’uscita del secondo album Back to Black, che trainato da singoli come Rehab, Love Is a Losing Game e l’omonima traccia Back to Black ha scalato le classifiche mondiali, ottenendo un successo che l’ha portata alla vittoria di cinque Grammy Awards. Contemporaneamente, l’artista ha fatto spesso parlare di sé per gravi problemi legati a droga, alcol e disordini alimentari che l’hanno portata a ritardare la realizzazione del suo terzo album fino alla prematura morte, avvenuta nella sua casa, a Londra. È deceduta, secondo gli esiti degli esami tossicologici, rivelati il 27 ottobre, a causa di un abuso di alcol. Assieme a Duffy ed Adele (delle quali è ritenuta apripista), era considerata una delle esponenti della nuova generazione del soul bianco.
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