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Cinema

Marc Scialom – Alla ricerca dell’Itaca perduta

Aux sans retour, aux Ulysses sans Ithaque, qui plusiers fois meurent et revivent[1]
Marc Scialom, Nuit sur la mer  

Dopo Paulo Rocha, Werner Schroeter, Thomas Harlan, Klaus Wildenhahn – ma solo per citarne alcuni -, il premio Anno Uno dell’XI edizione del Festival de I Mille Occhi è andato a Marc Scialom. Il regista, nato a Tunisi nel 1934 da una famiglia ebrea di origini italiane, disponibile nell’arco dell’intera rassegna sempre affiancato dalla figlia Chloé – anch’essa regista e presente alla manifestazione con alcune delle sue opere -, ha presentato nella sala del cinema Ariston le tre sue pellicole in programma, concedendosi inoltre alle domande del pubblico per poter meglio esprimere il fil rouge continuo di argomenti e tematiche che lo hanno accompagnato nel corso della sua intera carriera: le dinamiche capaci di caratterizzare l’identità dell’individuo, la peculiare condizione in cui si trova la figura dell’esule e le disamine del viaggio che ne conseguono, e quella sorta di micropolitica che nasce dal rapporto tra gli “stranieri per eccellenza” – l’io e l’altro, il mascolino e il femminino.

Marc e Chloé Scialom

Ampolloso, pomposo”. Con queste parole l’autore presenta la prima opera, Exils, nella quale dice di non riconoscersi più. Prodotta nel 1966, e vincitrice del Leone d’Argento alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia del 1972, Exils tenta in diciassette minuti una “riduzione” della Divina Commedia – tradotta in Francia dallo stesso Scialom per Le livre du poche. L’epica impresa viene compiuta utilizzando riproduzioni di pitture senesi e fiorentine del XIII e XIV secolo che, supportate da piccole e brevi animazioni, danno vita al viaggio dantesco nel regno dell’aldilà, lì dove le anime vivono avendo sempre come riferimento nella memoria la loro vita terrena, eredità di un’identità passata che non li abbandona.

La parole perdue del 1969, terza pellicola nella filmografia dell’autore, è caratterizzata invece dal forte contenuto politico e militante. Realizzata insieme al pittore Ouzani in maniera del tutto indipendente – senza alcun produttore o sostegno economico -, il cortometraggio si ispira a Le mystère Picasso di Clouzot: attraverso un grande foglio semitrasperente tenuto teso grazie a due listelli di legno, Ouzani, con un tratto marcatamente espressionista, dipinge in direttissima frotte di soldati, manifestazione di una dura critica nei confronti della guerra d’Algeria, giunta al termine solo qualche anno prima (1962), un evento capace di segnare profondamente la vita culturale e la coscienza della Francia del tempo e che ancor oggi è capace di risvegliare qualche imbarazzo.

Lettre à la prison

Tra il 1969 e il 1970 vede la luce l’opera più significativa e importante della carriera dello Scialom cineasta, Lettre à la prison, la quale risente piacevolmente della tradizione cinematografica d’oltralpe con citazioni che vanno dall’Atalante di Jean Vigo fino ad À bout de souffle di Godard, con un montaggio invece che ricorda la scuola russa di Ejzenštein e Pudovkin – autori questi ultimi che Scialom aveva “studiato” da giovane al cineclub “Le Paris” di Tunisi. Si narrano le vicissitudini di un tunisino sbarcato a Marsiglia per poter aiutare il fratello detenuto a Parigi, accusato ingiustamente di aver assassinato una ragazza francese. In quella terra di mezzo che appare la città marsigliese, porta dell’Occidente per molti africani, il personaggio si aggira tra la comunità tunisina del posto, già ai suoi occhi troppo diversa rispetto alla terra natia; cosicché il solo passare dei giorni, il solo peregrinare nella ville con i discorsi che la percorrono e che ne fanno di lui un forestiero, ne disorienta la mente: la sua identità ne è inevitabilmente segnata, e l’immagine dell’immigrato “fuorilegge” gli si appiccica addosso, tanto da fargli dubitare anche dell’innocenza del fratello, tanto da fargli posticipare incessantemente la partenza per la capitale – viaggio che alla fin fine non avrà mai luogo -; quasi fosse certo che spingendosi sempre più in profondità nella nazione francese, la sua personalità ne rimarrebbe inesorabilmente compromessa..

Strano a dirsi, Lettre à la prison non riscosse successo al tempo. Una delusione che portò l’autore ad allontanarsi dalla settima arte per ben quarant’anni, giusto il tempo necessario affinché un gruppo di cineasti ne riscoprisse la pellicola; una circostanza questa che ridiede spinta al regista perché intraprendesse il suo ultimo lavoro, Nuit sur la mer. In questo caso l’“eroe” è Scialom stesso, ebreo che riflette sulla sua storia personale, sulle origini italiane della sua famiglia, del suo essere esule, e che osserva come attorno a lui alcuni stereotipi inerenti alla questione identitaria si siano oramai evoluti. Come un novello Ulisse – figura simbolo dello “Scialom pensiero” -, interroga la sua coscienza e mette in discussione il suo essere nel mondo. Per spiegare quest’ultimo lavoro, sono fondamentali le parole dette in sala dall’autore al termine della proiezione: “Il film è la storia del film”. Un’operazione di felliniana memoria dove il nodo centrale sembra essere costantemente l’impossibilità di girare “quella storia” di cui non se ne riesce a sbrogliare la matassa, anche e soprattutto perché questa cambia con lo stesso scorrere degli anni.

Scialom a Trieste

E allora, come si conclude il viaggio verso Itaca? Rimane, al termine della visione delle opere del franco-tunisino, l’idea di uno scacco inevitabile: se le anime dei dannati restano legate alla memoria della loro vita terrena, se Lettre à la prison esprime inesorabilmente lungo tutta la narrazione la perdita della ragione e delle certezze che costituivano l’“essere” dell’individuo – sia esso l’esule tunisino, algerino, musulmano, ebreo, etc. -, e se nell’ultima pellicola è il regista stesso a “perdere la testa”, l’idea è quella della necessità all’identità; incapace com’è l’uomo di vivere in una condizione di “estrema” libertà, all’interno di una società dove è uno stato nazionale il solo a esser capace di garantirne i diritti fondamentali e le credenziali identitarie, lo scacco non è che la solita questione da “storia della filosofia” su che cosa sia l’uomo, quesito che nessun manuale di antropologia sembra ancora poter esplicare.

Note:

[1] Ai senza ritorno, agli Ulisse senza un’Itaca, che muoiono e rinascono più volte nella vita.

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