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Cinema

Reality, ovvero un film teologico

Significato della fede e cristianesimo pagano nell'ultimo film di Garrone

Locandina inglese RealityNegli anni Sessanta, sulle pagine dei Cahiers du Cinéma, il semiologo francese Gérard Genette fece scalpore pronunciando la seguente sentenza: “È ora che il cinema di Hitchcock venga interpretato attraverso la sua autentica chiave di lettura, che è la teologia!”.

Le frase di Genette riferita ad Hitchcock credo possa essere adottata anche per l’ultimo film di Garrone, Reality, un’opera apparentemente dedicata all’influenza nefasta che alcuni programmi TV hanno sulla psicologia di molte persone, ovvero la diffusione dell’idea di poter arrivare alla celebrità e alla ricchezza attraverso la partecipazione a un reality show. La grandezza di questo film sta nel porre una serie di interrogativi antropologici e filosofici all’interno di una cornice strettamente legata al mondo contemporaneo. Reality indaga lucidamente il significato della fede, il rapporto dell’individuo con l’Assoluto, e mette in discussione ogni usurata tesi che sostenga la definitiva secolarizzazione dell’Occidente.

Luciano ha una vita umile, in qualche modo statica e svuotata di ogni progettualità e prospettiva; quando avviene qualcosa in grado di dare senso alla sua esistenza, ovvero la possibilità di partecipare al Grande Fratello, egli vi si dedica anima e corpo. La possibilità di trasformare la propria vita attraverso la partecipazione alla celebre trasmissione diviene l’elemento in grado di infrangere la quotidianità, l’incrinatura che determina un varco dal quale possa filtrare una nuova dimensione di Senso. L’ambientazione nella Napoli umile e popolana è particolarmente significativa, perché si riflettono, nel comportamento di Luciano, alcuni elementi tipici del modo in cui la religione viene vissuta dalla popolazione partenopea.

La candidatura al Grande Fratello è la chiamata, l’illuminazione sulla via di Damasco, l’ordine di Jahvè ad Abramo di sacrificare il figlio: la Grazia è promessa solo a chi è disposto a seguire il verbo fino in fondo, investendo in esso tutte le sue energie fisiche e psichiche, senza remore, senza dubbi. Possiamo, a ben vedere, parlare anche di irrazionalità, perché per quello che Kierkegaard definiva “salto della fede” è necessario smarcarsi dalla logica razionale per gettarsi nel vuoto. Solo chi è disposto a gettarsi nel vuoto, abbandonandosi tutto alle spalle, avrà aperte le porte del paradiso.

Rispondere a questa chiamata significa riconoscere l’Assoluto e ridefinire fin nel profondo l’orizzonte delle proprie convinzioni, abitudini e principi morali; e riconoscere l’Assoluto significa, in altri termini, sapersi osservati, giudicati, negare la contingenza e ammettere un ordine superiore. La paranoia di Luciano è religiosa: è la convinzione di essere perennemente oggetto di giudizio da parte di un occhio “panoptico”, per dirla in termini foucaultiani. Lo staff del Grande Fratello è ovunque, conosce mezzi infallibili per introdursi in casa, spiare l’identità del candidato e decretare se sia degno o meno del proprio sogno.
Dicevamo della concezione tipicamente popolare di assumere il cattolicesimo: specialmente a Napoli, Cristo, la Vergine e i Santi sono formule tradotte della Dea Bendata. Il sentimento della gente comune si rivolge alla divinità (in ognuna delle sue forme) per chiedere favori, miracoli, guarigioni e vincite al lotto. Per perseguire tali finalità, l’ “uomo di fede” può anche compiere atti di innegabile nobiltà morale: può fare offerte in chiesa, può donare i suoi averi ai poveri, può dedicare la sua vita agli altri. È un offrirsi agli altri a vantaggio di se stessi, ma nelle religioni abramitiche non c’è spazio per l’egoismo; siamo , qui, di fronte a una traduzione in chiave mercantile della religione cattolica, che la avvicina alla magia sacrificale pagana.

Reality di Garrone (foto di scena)

Questo elemento traluce in Luciano: la sua non è più solo una richiesta, ma la precisa convinzione di essere messo perpetuamente alla prova per poter vedere realizzato il suo sogno. Poco importa che venga considerato pazzo, maniaco o esaurito, d’altronde Cristo era disprezzato nella medesima maniera (ritenuto Idiota secondo la celebre idea di Dostoevskij e Nietzsche) e San Francesco deriso e insultato. Solo chi ha fede nell’Assoluto ed è disposto a sacrificare tutto ad esso avrà la ricompensa tanto agognata. Il comportamento di Luciano è intessuto di cristianesimo da provincia italiana, e non a caso Garrone apre il film con un matrimonio, introduce diverse sequenze ambientate in chiesa, e chiude l’opera con una processione; nel finale, la moglie esasperata e il suo miglior amico provano a coinvolgere Luciano nelle attività pastorali della sua parrocchia, portandolo persino a Roma a fare la Via Crucis. Come capiamo nelle scene conclusive, questo tentativo si rivelerà fallimentare: Luciano è un cavaliere della fede, non si lascia influenzare da quelli che dalla sua prospettiva sono “falsi idoli”. È il relativismo degli Assoluti: non si tratta dell’estinzione definitiva del trascendente, quanto della co-esistenza di principi che assumono tutti un valore assoluto a seconda della prospettiva di Senso. Se nella modernità, all’indomani della morte di Dio, l’Assoluto è stato assorbito dalle “grandi narrazioni”, politiche o tecnoscientifiche, nella contemporaneità “postmoderna” l’Assoluto non si è affatto estinto ma è trasmigrato in altri ambiti, dalla televisione allo spettacolo, dalla comunicazione al divismo mediatico. Non ha senso ritenere che la fede di Luciano sia meno legittima di quella di un fervente cattolico o musulmano, altrimenti scadremmo nel mero moralismo, cosa che il film evita di fare.

Locandina francese RealityMa qual è la differenza tra fede e fanatismo? È possibile distinguere nettamente le due cose? Il problema si pone in particolar modo in riferimento alla religione di riferimento della cultura occidentale, e paradossalmente anche del film in questione. Il fanatismo, per sua natura, espelle ogni forma di dubbio e prevede una completa adesione della coscienza con l’oggetto della fissazione; per questo, tale oggetto diviene “mania”, e il fanatismo, più che essere uno stato della coscienza o uno stato d’animo, pervade l’intera esistenza, diventa la vita stessa, il centro di gravità attorno al quale tutto ruota. Il cristianesimo, specie nella sua essenza originaria, che però è andata confermandosi con la filosofia tomistica prima e col ruolo che esso ha ricoperto nella storia, non si basa sul fanatismo, perché si fonda, fin dall’esperienza cristica, sul dubbio (“Eloi, Eloi, lema sabactàni?” –  “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?“), che è un altro modo di specificare come la religione cristiana segni una cesura nella storia dell’umanità per la fondazione di una nuova idea di libertà. Per questa ragione, la storia della teologia cristiana ha potuto sviluppare l’incontro tra indagine razionale-filosofica e fede, che può apparire, e in fondo è, una contraddizione in termini. Se non si tratta di fanatismo, ma di fede, in quanto la religione cristiana è inscindibile dal dubbio, allora l’interrogativo è quello che si pone Emanuele Severino in Téchne. Le radici della violenza:

Ma può esistere la fede? Questa domanda va intesa alla lettera: non chiede se la fede possa avere, ad esempio, valore, ma chiede proprio se possa esistere l’atteggiamento che vien chiamato «fede», ossia l’atteggiamento di colui che – così si esprime Gesù nel Vangelo di Marco – «non ha alcun dubbio nel suo cuore». […] Eppure, anche se tu sei Pietro, anche se tu sei il più umile e il più semplice dei fedeli, ti illudi. Ti illudi di credere. Tu non hai, non puoi avere la fede che Gesù esige da te. […] La fede è infatti una lotta continua contro il dubbio. Se questa lotta è assente, non c’è fede, ma abitudine. La vera fede è quella che vince il dubbio, e quindi ha a che fare costantemente con esso.

Qui Severino definisce abitudine l’habitus che arriva a dominare l’esistenza dell’individuo e, assieme al “fanatismo”, è spurio dal dubbio. Ma avevamo sostenuto che Luciano fosse espressione di un certo cristianesimo cattolico. In realtà, il film dimostra la complessità del cristianesimo popolare italiano, e nello specifico di quello tipico del meridione della penisola; se, come sostiene Croce, “non possiamo non dirci cattolici”, c’è da aggiungere che il cristianesimo “non può non dirsi pagano”: soprattutto nell’orizzonte delle credenze popolari e del folklore, il cristianesimo ha assorbito al suo interno esperienze culturali pregresse, è sceso a compromessi più volte con convinzioni e valori radicati nelle differenti comunità dove si è diffuso. Il culto dei Santi è una chiara sopravvivenza del paganesimo, ma anche lo sono la confusione tra Assoluto e Fato, nonché formule sacrificali che, seppur abbiano modificato radicalmente riti e cerimoniali, restano comunque ben presenti nella vita quotidiana di molte comunità. Luciano è espressione di questo cristianesimo, il cristianesimo delle borgate e dei quartieri spagnoli, delle campagne e della vecchia provincia italiana.

Reality (scena finale)

La sua fede è più forte di quella del comune cristiano che dubita: lui è un fanatico, vive la sua fede fino alla mania, e – se vogliamo – sacrificando la sua stessa sanità mentale. Questo significa credere realmente, come fanno molte persone semplici per le quali sembrerebbe una follia mettere anche solo in discussione alcuni principi morali, e per le quali la fede non è più tale essendo divenuta abitudine. La complessità di questo argomento sta nel fatto che tra abitudine e fanatismo c’è un’altra bella differenza; potremmo persino sostenere che il fanatismo può (e accade spesso) degenerare nella follia perché anch’esso è una forma di fede mai compiuta. Nel fanatismo, il fanatico cerca di convincere gli altri, se stesso, ma soprattutto Dio di credere veramente: ha bisogno di nuove ed estreme dimostrazioni, perché ambisce al Paradiso delle Vergini, e il proprio cuore è trasparente agli occhi di Dio. Anche in questo Luciano esprime la peculiarità del cristianesimo “moderno-popolare” rispetto alla sua essenza originaria: la fede non è solo un fattore interiore (se credo e ho fede, solo Dio può saperlo), ma deve sempre dimostrarsi all’esterno tramite l’azione (con atti di vario genere a seconda della confessione). Quella di Luciano è una mentalità pre-secolarizzata, diffusissima ancora in Occidente contrariamente a quanto si possa pensare: la differenza è che all’assoluto divino è andato sostituendosi un assoluto laico che, però, ha ereditato esattamente i medesimi caratteri dell’entità religiosa.

Luciano si consegna all’assoluto in piena adesione spirituale, combatte contro il tarlo del dubbio che rischia di compromettere la realizzazione del suo sogno fino al fanatismo, e alla fine, come è giusto che sia e come tutte le dottrine religiose ci insegnano, viene premiato per la sua fede cieca e infrangibile: che riesca a entrare realmente nella casa del Grande Fratello perseguendo il “paradiso” tanto agognato, o, come ci fa intendere il film, si tratti solo di una proiezione delirante della propria mente stravolta, questo poco conta perché nella nostra interpretazione sarebbe la stessa identica cosa. Luciano è stato premiato per la sua fede, e chi coltiva il dubbio, d’altra parte, non merita tali ricompense.

Commenti

Un commento a “Reality, ovvero un film teologico”

  1. …Non è solo per la definizione di Dio come il più grande occhio giudicante puntato sulle nostre azioni, né per la promessa di un paradiso, da vivere l’uno nella vita ultraterrena, l’altro in questa terrestre, quanto piuttosto nella coincidenza di valore da attribuire a un’immagine che non rimanda più a un ulteriore sentimento (la fede vs. il riscontro di pubblico) ma è di per se stessa il sentimento…

    Di carmen | 5 Novembre 2012, 15:55

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