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Scrittura

Colin Thubron

“La mia Cina”: intervista allo scrittore di viaggio Colin Thubron

La presente intervista allo scrittore di viaggio Colin Thubron è stata condotta alla fine di maggio 2013, in occasione della partecipazione dell’autore al Festival di Antropologia di Pistoia “Dialoghi sull’uomo”. L’intervista è stata l’occasione per approfondire con Thubron il suo rapporto con la scrittura, con il viaggio e con la Cina, paese di cui ha scritto la prima volta nel 1987, nel libro Oltre la Muraglia, e successivamente in Ombre sulla Via della Seta (2006), libro nel quale racconta il suo viaggio dal Paese del Dragone alle coste della Turchia. L’intervista è stata fatta in inglese, la traduzione è opera dell’intervistatore e autore dell’articolo.

Colin Thubron al festival di Pistoia

Stefano Calzati (SC): Che definizione daresti della letteratura di viaggio? E cosa significa, per te, viaggiare e scrivere?

Colin Thubron (CT): Per me viaggiare significa soddisfare la curiosità. Tutti i miei libri di viaggio iniziano con l’ignoranza, con il mio non sapere qualcosa, o il non capire una determinata cultura, sicché lo scopo del viaggio è quello di fare esperienza di una certa terra e delle persone che la abitano, esperienza che spesso comporta anche imparare la lingua del luogo, se ne sono in grado. Di conseguenza, i miei libri di viaggio sono diversi, per esempio, dai saggi accademici, nei quali il ricercatore è talvolta più propenso a dire “questo paese è così”; nel mio caso l’implicita assunzione dietro i miei libri è “questo è come il paese è parso a me”. È anche per questa ragione che dico sempre che, quando viaggio per scrivere un libro, ciò che temo di più non è che mi accada qualcosa di brutto, ma che non mi accada proprio nulla di interessante. E, in effetti, ciò che ogni libro di viaggio fa e permette, a differenza di altri testi più scientifici e rigorosi, è di costruire l’immagine del paese come una sorta di mosaico, ovvero un’immagine nella quale trovano posto sia informazioni obiettive – ad esempio storiche – sia conversazioni improvvisate o incontri imprevisti.

SC: Quindi potremmo dire che in ogni libro c’è una soggettività – la tua soggettività di scrittore di viaggio – che occupa la scena.

CT: Sì, penso proprio che questo sia uno dei grandi vantaggi della letteratura di viaggio; in altre parole, la possibilità di usare la prima persona singolare, l’Io dello scrittore-viaggiatore, il quale diventa responsabile della narrazione. Infatti, è come se ci fossero sempre due persone quando viaggio: quella che sta viaggiando e quella che sta scrivendo. Così ciò che ne deriva è un resoconto di viaggio filtrato non solo dall’intelletto, ma anche dai sensi, in un collage postmoderno nel quale eventi incongrui e cruciali coesistono l’uno accanto all’altro, e del quale l’unico vero filo conduttore è la mia personalità.

SC: Cosa si nasconde dietro l’organizzazione del viaggio? Hai già ricordato, per esempio, che cerchi nei limiti del possibile di imparare la lingua del paese in cui ti recherai; allo stesso modo, emerge da diversi tuoi libri (e in particolare Oltre la Muraglia e Ombre sulla Via della Seta) che sul posto incontri persone con le quali avevi preso contatto prima della partenza. Ecco, vorrei quindi che mi parlassi, più in generale, di tutto il lavoro nascosto che anticipa la partenza.

CT: Indubbiamente, dietro il viaggio si cela un sacco di ricerca preliminare, di solito un anno e mezzo di ricerca prima di fare anche solo il primo passo. Dopodiché impiego circa un anno a scrivere il libro una volta che sono tornato a casa. Alla fine, il viaggio in sé – è un po’ un peccato ammetterlo – dura appena cinque o sei  mesi. Di solito conduco le mie ricerche alla Biblioteca Nazionale di Londra: inizio leggendo tutti i libri più ovvi e banali sulla mia destinazione, fino a quando alcuni piccoli dettagli, o talvolta alcune località, iniziano a solleticare la mia fantasia. A quel punto la mia curiosità si accende e indirizzo la mia ricerca verso ciò che più mi interessa. Quando sulla mappa individuo una località particolare, ho come la sensazione che essa parli per la cultura stessa dell’intero paese e mi dico: “Voglio andare là”. Non è solo perché la località mi pare interessante o bella, ma perché è collegata a storie particolari che mi affascinano.

SC: Parlando di Oltre la Muraglia e Ombre sulla Via della Seta, ci sono altri scrittori di viaggio che hai letto prima di partire o che ti hanno in qualche modo ispirato?

CT: Onestamente, no. Penso, infatti, che se avessi saputo che qualcuno aveva già scritto, molto acutamente, sulla Via della Seta, per dire, non avrei mai intrapreso il viaggio, poiché avrei pensato: “questo è già stato fatto, non c’è ragione di farlo un’altra volta”.

SC: L’impressione è che in Oltre la Muraglia, il confronto tra la Cina e l’Occidente sia un tema ricorrente, mentre in Ombre sulla Via della Seta questo raffronto è più diluito, come se il Medio-Oriente funzionasse da cuscinetto tra l’Europa e la Cina, obbligandoti a ripensare di volta in volta la tua identità in rapporto agli altri che hai incontrato. Hai avuto questa stessa impressione durante il viaggio?

CT: Sì, penso di sì. Mi sento più lontano dai cinesi, e loro da me, di quanto non mi sento, per dire, dagli Iraniani con i quali condividiamo molto in termini storici e culturali. In effetti, può sembrare banale, ma più mi avvicinavo al Mediterraneo, più mi sentivo vicino a casa. Ho avuto sempre grande difficoltà a capire i cinesi, la Cina mi ha richiesto un grande sforzo di adattamento e trovo la lingua molto difficile.

la Grande Muraglia

SC: Oltre la Muraglia è un libro ampiamente connotato dallo sviluppo performativo del viaggio (per esempio, sei molto accurato nel descrivere tutte le varie tappe del viaggio), mentre Ombre sulla Via della Seta è ricco di excursus storici che, in qualche modo, trascendono la dimensione del viaggio, dal momento che sei più preoccupato, come spieghi nelle prime pagine del libro, a dimostrare che la Via della Seta non identificava un unico percorso, ma era piuttosto una rete di itinerari. Si potrebbe quindi dire che Oltre la Muraglia è un viaggio di scoperta – della Cina e dei cinesi – mentre Ombre sulla via della Seta è un viaggio di ri-scoperta?

CT: In un certo senso, sì. La prima volta che mi recai in Cina era un paese del tutto sconosciuto. Era una cultura che sentivo di non comprendere e questo mi infastidiva. Mi recai là appena dieci anni dopo la morte di Mao (1976) e l’addebitamento della Rivoluzione Culturale (1966-1969) alla Banda dei Quattro, e questa è la ragione per cui la Rivoluzione Culturale rappresenta il filo conduttore dell’intero libro. Volevo capire com’era stato possibile che i cinesi avessero compiuto quelle atrocità l’uno all’altro, com’era stata possibile tanta disumanità. Onestamente, non mi è piaciuto scrivere di queste cose, perché l’avvertivo come un’ intrusione occidentale, come se li stessi giudicando. Allo stesso tempo, però, i discorsi sulla Rivoluzione Culturale riecheggiavano ovunque mi recassi, sicché non ho potuto rifiutarmi di scriverne. Posso affermare che il viaggio in Cina è stato fisicamente e mentalmente molto duro, difficile anche da negoziare, da organizzare. Al contrario quando sono tornato in Cina in occasione della partenza del viaggio lungo la Via della Seta, ho avuto l’impressione di conoscere meglio la Cina, anche se, ad onore del vero, mi trovavo in una regione della Cina – quella della città di Xian, nel nord-ovest del paese – che non è tipicamente cinese, bensì in larga parte abitata dagli Uiguri, che sono musulmani e con i quali, lo devo ammettere, sentivo più assonanze. Successivamente, come ti ho detto, più mi avvicinavo al Mediterraneo più avevo la percezione di conoscere meglio le persone, sapevo di condividere con loro affinità culturali e queste stesse persone avevano una percezione più chiara dell’Occidente che non i cinesi.

SC: Ora mi piacerebbe sapere un po’ di più su come scrivi. Mi hai già detto che, dopo la conclusione del viaggio, hai bisogno di circa un anno per scrivere il libro, ma cosa mi puoi dire del tuo processo di scrittura mentre sei in cammino?

CT: Prendo appunti tutto il tempo. In un certo senso non amo farlo perché rende il viaggio troppo auto-consapevole, mentre mi piacerebbe viaggiare con spensieratezza e senza pensare troppo al viaggio stesso. Allo stesso tempo, però, siccome la mia memoria non è eccezionale, ho bisogno di prendere molti appunti per ricordare le persone che ho incontrato, i loro dettagli, e i posti che ho visitato. Di solito scrivo sei o sette volte al giorno, di sicuro la sera, prima di coricarmi. Ho l’impressione che ci siano due tipi di diario: quello che stimola la memoria e quello che quasi prende il posto della memoria poiché è estremamente dettagliato. Ebbene, io sono più incline a scrivere un diario del secondo tipo, almeno quando viaggio.

SC: Hai già affermato in altre interviste che non porti mai una macchina fotografica con te perché temi che possa ridurre la tua libertà di movimento, soprattutto in paesi in cui vigono restrizioni politiche e civili. A parte questo, ci sono altre ragioni per le quali non ci sono immagini nei tuoi libri di viaggio?

CT: Questo ha a che vedere soprattutto col fatto che i miei editori pensano che se scrivi libri di viaggio come quelli che scrivo io – ovvero libri connotati da una forte soggettività – il lettore è portato a guardare attraverso i tuoi occhi, attraverso la tua stessa scrittura, mentre una fotografia gli restituirebbe indietro i propri occhi. In altre parole, costruisco un’immagine del paese attraverso il linguaggio; le parole creano una rappresentazione dei posti che visito. In tal senso, una fotografia rischierebbe di disturbare questa mia ricostruzione personale che propongo al lettore, poiché, come detto, gli restituirebbe la facoltà di vedere con i suoi occhi.

SC: Hai mai scritto un racconto di viaggio per il web? E come credi che il web influenzi il processo di scrittura?

CT: No, non ho mai scritto per il web. Penso che a uno scrittore del web sia richiesto di scrivere pezzi più brevi e più frequentemente, ma poiché nessuno mi ha mai proposto di provarci, non so come questa esperienza possa influenzare il mio modo di raccontare il viaggio.

Pechino

SC: L’ultima domanda è tripartita: considerando il periodo di diciotto anni, dalla pubblicazione di Oltre la Muraglia a quella di Ombre sulla Via della Seta, come è cambiata la Cina? Come sei cambiato tu, nel frattempo? E come siamo cambiati noi, come occidentali?

CT: Questa è senza dubbio una domanda complessa! Ebbene, come è cambiata la Cina ora lo sappiamo tutti: Oltre la Muraglia è, oggi, puramente storia. Il libro ha venticinque anni e l’ultima volta che sono tornato in Cina è stato appena tre anni fa: ebbene, ti posso dire che il paese è completamente cambiato, soprattutto la costa est, che ha registrato un boom economico strepitoso. Allo stesso tempo, però, in una sorta di contrappasso, se vai nelle campagne potrai notare che alcuni villaggi sono del tutto disabitati, tutti sono andati in città per fare soldi e alcuni centri sono abbandonati. Ciò che credo non sia cambiato, invece, è la mentalità delle persone. Non puoi cambiare un’intera cultura cambiando semplicemente la sua economia. In realtà, penso che la Cina si sia meno occidentalizzata di quanto non abbia “cinesizzato” l’Occidente.

Molto più arduo è dire come sono cambiato io. Mi piace pensare che io sia diventato più tollerante e sensibile alla diversità, ma non sono sicuro che sia vero. In effetti, nonostante i mie viaggi, mi sento ancora molto inglese nel modo di pensare; riconosco che le mie reazioni, i miei giudizi sull’Altro, sono sempre molto occidentali e, aggiungerei, inglesi. Di certo ti posso dire che quando sei giovane viaggi con molta più energia e sei molto più incline ai cambiamenti, mentre invecchiando si diventa meno emotivamente influenzabili. Infine, il cambiamento dell’Occidente, soprattutto in relazione alla Cina, credo consista soprattutto nel fatto che fino a qualche decina di anni fa non pensavamo neppure alla Cina, non sapevamo nulla su questo paese e non ce ne importava granché. Quando scrissi Oltre la Muraglia, la Cina aveva appena aperto le sue frontiere e tutti noi eravamo completamente ignoranti su cosa aspettarci, ignoravamo tutto, ad eccezione di qualche notizia su Mao Zedong e la Rivoluzione Culturale. Al contrario, oggi non solo siamo desiderosi, ma, in un certo qual modo, addirittura obbligati a conoscere qualcosa in più sulla Cina, per riuscire a rapportarci con il suo ruolo sempre più dominante nel panorama politico mondiale.

Biografia

Colin Thubron, (1939- ), è uno dei più apprezzati e noti scrittori di viaggio britannici. Nel 2008 The Times lo ha inserito al 45esimo posto tra i 50 migliori scrittori inglesi del dopoguerra. Oltre ai suoi libri di viaggio sulla Cina, di cui si parla nell’intervista, ha viaggiato in e scritto di varie città – Damasco, Istanbul – e paesi – Russia, Siberia, Tibet. 

Commenti

Un commento a ““La mia Cina”: intervista allo scrittore di viaggio Colin Thubron”

  1. In linea di massima condivido il Thubron pensiero.
    Thubron è uno dei pochi scrittori
    viaggiatori inglesi che ha visitato luoghi remoti, spesso inospitali, presentandosi semplicemente come uomo, privo di credenziali da mostrare ai potenti che controllavano quelle aree. Solo in questo modo è riuscito a capire e interpretare quello che ha visto e vissuto. A differenza di Chatwin, borioso e pieno di se,
    si è calato umilmente nelle realtà attraversate.
    Grande umanità e coraggio, moderno esploratore e fine
    intellettuale; francamente però, l’ultimo suo libro “Verso la montagna sacra ” non mi è piaciuto molto, forse per la vena intimista-religiosa che avvolge la narrazione.

    Di rino de luca | 9 Gennaio 2016, 00:19

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