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Musica

Have Boss will travel (VIII)

Parigi, Wrecking Ball Tour 2013

BruceEn plein.
En plein costituisce più o meno il venti percento delle mie competenze di lingua francese (il resto è costituito da brie, croissant, Depardieu e Cognac… ah, no! Grazie a Martinolli ora conosco anche Feydeau, pur non avendo idea di come si pronunci), ma è anche tutto quello che mi occorre per descrivere il terzo, e per noi ultimo, concerto del leg 2013 del Wrecking Ball tour cui abbiamo assistito.

A Parigi, infatti, nella fresca sera del 29 giugno, Bruce Springsteen ha suonato, fra le altre cose, tutto l’album Born in the USA. Non certo il suo prodotto artisticamente più elevato, non un’esecuzione per estimatori e palati fini, e una vera e propria iattura per coloro che erano anche a Milano e Monaco di Baviera (per i quali è stata la terza replica), ma per noi – che pochi giorni prima, a Londra, avevamo avuto la fortuna di ascoltare tutto Darkness on the Edge of Town, e che ancora prima, a Padova, eravamo stati benedetti da tutto Born to Run – è stata la (altrimenti di per sé stucchevole) ciliegina indispensabile per rendere perfetta la più squisita delle torte.

Dati il non propriamente impeccabile svolgimento della coda di Wembley e il fatto non meno trascurabile che non ero mai stata a Parigi, in buona parte a causa del fatto che a mio marito non era piaciuta quando l’aveva visitata nel 2003 durante la tournée di The Rising, decidiamo, per questa trasferta, che è tempo di comportarci da persone mature e non trascorrere le giornate in coda davanti allo stadio, bensì visitando la città.
L’avere acquistato biglietti di pit, che ci garantiscono di accedere al mistico golfo delle prime file anche arrivando tardi, a dirla tutta, ci è di non poco aiuto in questa pur sofferta decisione. È l’ultimo concerto che vedremo di questo tour, e collocarsi nelle file posteriori significa non avere alcuna speranza di mostrare a Bruce la nostra richiesta. Del resto, gliela abbiamo già mostrata più di una volta e l’ha sempre scartata, talvolta platealmente; mica sarà in vena di suonarla proprio l’unica volta che vogliamo provare l’ebbrezza di avere una vita, no?

Sebbene non sia mai stata la meta più anelata, Parigi era da anni, per me, una destinazione desiderabile, per via dell’immagine (consapevolmente) deviata che avevo permesso ad una cinematografia faziosa di formare in me.
Per primi vennero gli Aristogatti e la Montmartre popolata da Scat-cat la sua ghenga; per ultimo l’irresistibile Adrien Brody nei megalomani panni del Dalì di Woody Allen in Midnight in Paris; nel mezzo, praticamente tutta Hollywood, in particolar modo Sabrina e la convinzione che non serva l’ombrello, Ultimo tango a Parigi e il sentimento di sospetto sulla provenienza del burro sciolto servito a colazione, e Casablanca, con la paranoia che mi ha instillato di essere abbandonata alla stazione.
Il più veritiero di tutti, però, è stato un altro lungometraggio animato, Ratatouille: visto quanto è sporca la città, è sicuramente infestata di ratti!

Pravato a Parigi

Nei giorni precedenti il concerto, non ci facciamo mancare alcuna delle attrazioni turistiche più classiche: l’Hôtel des Invalides con il Musée de l’Armée e la tomba di Napoleone; l’Arco di Trionfo e Champs Elysées; Montmartre e la sua cupola (altri trecento gradini, tanto mica siamo andati in ferie per riposarci); i musei del Louvre e d’Orsay, la cattedrale di Notre Dame e la sua sterminata fila per entrare; la Conciergerie del Palais de la Cité (squisitamente deserta, perché sono tutti in fila per entrare a Notre Dame); la segreta Saint Chapelle, mozzafiato sia sotto che sopra; il Pantheon e i vicini gradini sui quali Owen Wilson aspettava l’auto per gli anni Venti; la Galerie La Fayette e suoi sconvolgenti saldi — pardon! Volevo dire “la sua stupenda cupola”; la Tour Eiffel, naturalmente, che ci accontentiamo di vedere dall’esterno, sia perché non ha l’aria di avere molto da vedere al suo interno, sia perché c’è una fila tale che — pensiamo — se proprio dobbiamo perdere delle ore fermi nello stesso posto, tanto vale andare a mettersi in coda per Bruce.

Sabato ci rechiamo allo stadio intorno alle tre del pomeriggio, quando la fila al cancello N, costituita da fan “numerati”, è già in piedi e in attesa di entrare in anticipo.
Al contrario di quanto previsto, l’organizzazione parigina sembra essere collaborativa con i fan, così la fila dei primi arrivati non verrà spezzettata su più entrate, ma i primi seicento entreranno tutti dallo stesso cancello, che è meno avveniristico di quello di Wembley, ma più lungimirante, e all’occorrenza può essere sbloccato manualmente. 
Noi ci accomodiamo nei pressi della nostra entrata insieme agli altri arresi.
Dopo poco passa un celebre, quanto trafelato scrittore, che ci saluta frettolosamente: “Scusate, devo fare una cosa importantissima”. Dopo qualche minuto, torna sorridente e sollevato, lieto di fare qualche parola con noi. Non è l’unico, ai concerti, a vivere momenti simili, ma la causa non è — come si potrebbe pensare — l’emozione che spinge con urgenza alla toilette, bensì l’ansia per il biglietto. Il nostro Morozzi, infatti, fino a pochi minuti prima aveva un biglietto per il prato “semplice”, mentre ora custodisce accuratamente in tasca un prezioso biglietto di accesso al pit.

Morozzi a ParigiQuando è il momento di entrare, gli altri arresi non sono poi così arresi e tentano comunque di sgattaiolare avanti di qualche posizione.
L’ingresso avviene, comunque, in modo tutto sommato ordinato anche a causa del rallentamento dovuto alle perquisizioni. Ci metto un po’ a capire che dobbiamo essere palpati tutti ad uno ad uno e che, pertanto, devo spostarmi nella fila delle femmine, ma non è questo che ci fa perdere tempo: prima di me tocca a uno scricciolo di dodicenne con la richiesta scritta su un cartoncino bristol, che l’addetta, dopo avere verificato con un collega distante, le intima di buttare via. La piccola non capisce, o finge di non capire. Mi sta facendo perdere secondi preziosi, ma non riesco a biasimarla: è la richiesta, chissà quanto l’ha desiderata e progettata, non può buttarla via prima di entrare; oltretutto, è un cartoncino bristol: anche qualora lo scaraventasse con violenza addosso a qualcuno — cosa che non ha l’aria di voler fare — non sarebbe una grossa violenza. Il collega distante, però, che probabilmente vede solo un tubo biancastro e pensa che sia una barra di marmo, maneggiata con sorprendente disinvoltura dalla preadolescente più forzuta del mondo, è inflessibile, e la richiesta finisce nell’immondizia senza che neppure io sappia cosa sia. Con la fortuna che ho, come minimo era Zero e Blind Terry.

Ci collochiamo dove c’è posto, il più possibile al centro: se proprio dobbiamo stare lontano dal palco, che almeno possiamo vedere tutta la band. 
La prima preoccupazione è contare i microfoni. Non c’è. Sollievo.
Patti Scialfa, infatti, nei giorni immediatamente precedenti il concerto di Parigi, era a Nizza con la suocera per assistere ad un concorso ippico della figlia (pare, infatti, che tutto il Wrecking Ball tour giri intorno al calendario delle gare di Jessica Rae), e tutte e tre le donne Springsteen erano state raggiunte da Bruce.
Il rischio che la funesta fulva apparisse sul palco in una nube di zolfo era tutt’altro che basso, ma per fortuna non vediamo aste supplementari sul palco, segno che anche questa volta l’abbiamo scampata. Se, poi, ci fa uno scherzone e, dopo averci illusi si essere rimasta al suo posto, arriva portandosi il microfono in mano, è la volta che la prendo a sberle. Tanto, se spiego alle trenta file davanti a me che voglio solo andare a dare due leggeri schiaffi di scherno a Patti Scialfa, mi fanno passare tutti.

I maligni penseranno che tutta questa acredine sia dettata da grette invidia e gelosia, poiché quella donna ha sposato l’uomo della mia vita. Pur non essendo del tutto falso, il mio rancore scaturisce da motivi di carattere prettamente artistico. La partecipazione di Patti Scialfa, infatti, condiziona sensibilmente le scalette, poiché vengono inseriti brani che ne giustificano la presenza, a scapito, in genere, di chicche pazzesche. Come ripeto spesso — sono diventata come il mio prozio, che raccontava ogni giorno il funzionamento del cannone spara-granate! — nel 2008 a Barcellona Drive all night fu fatta fuori per dar modo alla Scialfa di gorgheggiare su Brillant Disguise
La violenza non è mai la soluzione e non è giustificabile, ma, dopo un simile oltraggio, ci vuole il maestro Yoda in persona per non cedere al lato oscuro.

In ogni caso, l’incursione di Patti sembra scongiurata ed è già tempo di alzarsi per il pre-show.
Quello che ad Helsinki, il 31 luglio 2012, era stato un regalo inaspettato e sincero, in questo secondo leg europeo del tour è diventato un rito consolidato, ripetuto in quasi tutte le città, e ha perso parecchio in spontaneità e partecipazione da parte di Bruce, pur restando un momento prezioso. A Parigi Springsteen se la cava con tre pezzi, di cui due belli e uno impareggiabile: tra This hard land e Growin’ up, infatti, Bruce pesca un cartello e piazza lì nientepopodimeno che Burning love, il brano reso famoso da Elvis.
A questo punto il lettore sappia che io sono una feticista delle cover-di-Elvis-suonate-da-Springsteen, e immagini il mio entusiasmo. Più felice di così, solo a Vienna nel 2009, quando suonò Jersey Girl (sono anche una feticista delle cover-di-Tom-Waits-suonate-da-Springsteen).

Fan di Springsteen

La scaletta della serata non brilla per originalità; fra i brani spicca solo Lucille, ma non sono una feticista delle cover-di-Little-Richard-suonate-da-Springsteen e non mi strapperò i capelli per così poco. Tutto l’essere speciale della serata consiste nell’esecuzione di tutto Born in the U.S.A. e, ad essere obiettivi, non fosse che siamo andati a Parigi praticamente apposta — per questo e per mangiare cous-cous a Belleville, senza sapere che è diventato un quartiere cinese e non c’è più verso di trovare un Amar Ben Tayeb che mi metta un piatto davanti —, non è poi molto. Inoltre, non ci viene risparmiata Waitin’ on a sunny day neanche questa volta (non so perché ogni volta mi illudo che possa farlo), e per giunta va sul palco una leziosa femminuccia bionda che sembra capitata lì per caso.
… Eppure la magia è intatta e la serata ugualmente splendida. Sarà che Born in the U.S.A. è un disco che istintivamente sottovaluto, salvo poi ricordarmi che pezzi come Downbound train, I’m on fire e I’m goin’ down sono usciti su di esso, sarà che Bruce e Stevie che si sistemano per minuti e minuti usando il megaschermo come specchio prima di fare lo scrollaculi sarebbero da baciare in bocca (anche Little Steven, sì), e che non c’è niente che non farei per strappare a Springsteen uno dei suoi sorrisetti compiaciuti, ma l’esperienza è stata comunque appagante.

Per quest’anno, per noi il tour finisce qua. 
A meno che non troviamo biglietti per l’ultima data a Leeds — i lettori prendano questa frase come un appello! —, questo allo Stade de France rischia di essere l’ultimo concerto per un bel po’.

È recente la notizia che, durante il leg australiano, Springsteen ha chiuso la band in sala di incisione per preparare un disco che dovrebbe uscire il prossimo anno, ma si tratta pur sempre di semplici rumors, e il fan di Springsteen è troppo scaramantico per pensare ad un nuovo tour nel 2014 (pur avendo già iniziato a risparmiare: è scaramantico, mica improvvido).
Bruce, dunque, prosegue senza di noi: va avanti con la sua vita e ci lascia qua a macerarci nel dolore per l’abbandono e nella gelosia.
Ma avremo sempre Parigi.

Avremo sempre Parigi

Le foto del concerto e del pubblico sono di Massimo Brosolo.
Anche la bambina immortalata è di Massimo Brosolo.
Le foto di Parigi venute bene sono mie.
Le foto di Parigi venute così così sono di Alessio Rozzi.

Commenti

Trackbacks/Pingbacks

  1. […] canzoni, sia perché avevo clamorosamente sbagliato il pronostico. Sebbene sia felicissima di essere stata a Parigi e mi piaccia molto l’idea di avere ascoltato i tre più popolari album dal vivo per intero, […]

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