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Scrittura

Il segreto della felicità


C’è un ghigno, c’è un sotterfugio. C’è qualcosa che ci schernisce, dietro le spalle.

(Virginia Woolf, Le onde)

Il Giovane Malinconico era tale di nome e di fatto. Dacché i sogni zuccherosi dell’infanzia gli si erano assopiti nel cuore, non gli erano rimasti, per le mani, in testa, nell’anima, che un’irriducibile mestizia, una tristezza collosa che gli si attaccava dappertutto, uno sconforto depressivo che gli pervadeva ogni tessuto. Tanto da rafforzarsi nella convinzione di non essere stato felice mai, neanche da bambino, quando vedeva tutto roseo; di essersi illuso, allora, con una tenacia di cui ora risultava incapace.

Chi l’ha visto in piazza per un tempo incalcolabile, ruotava il ciclo delle stagioni e lui era lì, a fermare e interpellare la gente, punto dalle asperità dell’inverno, stremato dalla canicola estiva, bagnato dalle piogge autunnali, deve sapere che per un tempo altrettanto incalcolabile il Giovane Malinconico era rimasto appartato dalle piazze e dalle folle, inscatolato nella sua triste casina, a osservare i passanti che sfilavano in strada, a rapinare, dall’alto, piccoli frammenti della loro serenità, a scrivere, sui fogli accartocciati di un’immaginazione coltivata senza slanci, i romanzi delle loro vite belle e appaganti. Tanto fiaccamente era stata coltivata l’immaginazione, tanto diafana era la fantasia, che quelle storie finivano per assomigliarsi tutte, e, al cruccio di non partecipare alla piacevolezza delle esistenze immaginate, s’aggiungeva la noia avvilente di storie monotone e ripetitive.

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Il risultato fu che il Giovane si spegneva sempre più vistosamente. Desiderava, ma non arrivava a stringere nulla. Le sue giornate divennero una consapevole anticipazione della fine, l’attesa che la natura facesse il suo corso, che la macchina biologica s’inceppasse e lo sollevasse dagli obblighi convenzionali di alzarsi dal letto al mattino, lavarsi, nutrirsi, abbigliarsi e via discorrendo. Quanto ad accelerare gli eventi, ad inceppare artificialmente la macchina, lui era troppo debole per riuscirci. E anche a quel proposito, se ne stava quieto ad aspettare le elemosine del destino.

Un giorno, mentre tornava dal forno con il sacco del pane sotto braccio, un’anziana signora, la Vecchia Smemorata, lo fermò sotto il portico. Appariva spaesata.

– Gentile signore, ho smarrito la strada di casa.

– Dove abita? Si ricorda l’indirizzo?

– Abito sotto il castello. Nella casa azzurra sotto il castello.

– Allora non è lontana. Si spinga fino alla fine del portico, giri a destra, e poi a sinistra.

– Destra, sinistra… Sì, ha ragione, forse ha proprio ragione. È vero. Sono uscita per… be’, adesso non me lo ricordo, comunque, ora che mi ci fa pensare, ho seguito proprio l’itinerario che diceva lei. Grazie, mi ha salvata.

– Non c’è di che.

Tutto parrebbe concludersi qui. Invece no. La Vecchia Smemorata, a scanso d’equivoci, il Giovane Malinconico non la incontrò più. Però lei seminò qualcosa, qualcosa che prese a germogliare in lui come un pensiero ricorrente. Lui le aveva indicato la strada, ma anche lei aveva compiuto qualcosa di simile. Se si era fermata a domandare, era perché aveva smarrito la via di casa. Quindi non sapeva che direzione imboccare, benché non si trovasse molto distante da casa. Non sapeva. Ignorava. Per averlo dimenticato, poco importa: fatto sta che in quel momento non sapeva, e a lui era andato il merito d’averle rischiarato la mente. Ebbene, forse anche lui, anche lui si era perduto. Nei dedali della vita. Nei vicoli e nelle viuzze dei suoi anni. In una delle stazioni del suo treno: quella sbagliata! E dato che ignorava la strada da prendere, poteva domandare a qualcuno, doveva domandare a qualcuno, a qualcuno che la città la conoscesse bene.

Si svegliò nel cuore della notte, perché il proposito, finalmente formulato a puntino, pronto per essere concretizzato, bussò alla porta della coscienza con tonfi così fragorosi ed insistenti che anche il più pesante dei sonni avrebbe vacillato. Il Giovane scattò in piedi, nella camera buia, e il proposito, sfondato l’uscio, gli si materializzò davanti in tutta la sua possanza. E gli ingiunse, con voce ferma, baritonale, che il segreto della felicità non è arcano, che c’è tanta gente felice là fuori e che a persone del genere bisogna rivolgersi. Senza temere, come la Vecchia non aveva temuto di rivolgersi a lui.

Un sondaggio. Un sondaggio sulla felicità. A dire guardi, io sono infelice, potrebbe aiutarmi a trovare la felicità, il Giovane Malinconico non pensava nemmeno: troppo incauto, pericoloso. Le risposte che ne sarebbero venute già se le immaginava, un impasto di compassione melensa e del credito che si concede ai folli. E lui non voleva pietà. Voleva risposte serie. Voleva essere felice. E allora, gli sconosciuti li avrebbe accostati con la scusa di un sondaggio, per conto terzi, come i tanti che si fanno all’aperto, nei centri cittadini, con i sondaggisti sguinzagliati dove la gente passa, si ferma o si accalca, gli stessi che lui evitava quando li scorgeva all’orizzonte. Un’indagine statistica. Un questionario.

Non era neanche l’alba che si mise alla machina da scrivere e abborracciò alla bell’e meglio qualcosa che assomigliava al testo di un questionario, una rosa di domande inutili e di nessun interesse ai suoi occhi, che conducevano verso la Domanda, il quesito topico, la chiave di volta. Era così eccitato, nella sua cupa tristezza, che credeva che in pochi giorni, al massimo qualche settimana, avrebbe collezionato secchi di risposte, una migliore dell’altra, nei quali immergere mani, polsi, braccia, per pescare la più semplice da attuare.

Iniziò così l’avventura del Giovane Malinconico. Ore, giorni, settimane, mesi trascorsi in piazza.

Cominciò a primavera. Temperatura clemente e aria profumata. Molta gente in giro. Pochi disposti a rispondere. Chi non si lasciava neanche avvicinare, chi gli fuggiva sotto il naso con la scusa del non ho tempo, chi (ragazzini, soprattutto) declinava con burla, celie o insulti, chi iniziava a rispondere ma arrivato alla domanda finale diceva che era troppo difficile e svaniva.

La prima a rispondere per bene, a dare un po’ di speranza al Giovane Malinconico, fu una donna.

– Sto conducendo un sondaggio sulla felicità dei cittadini. Può rispondere ad alcuni quesiti?

– Naturalmente.

Si trattava di una donna d’impeccabile eleganza, Madre di Famiglia, che conduceva a passeggio tre gemelli in età prescolare, vestiti e azzimati tutti e tre uguali, irriconoscibili fra loro, tre Pierrot merletti e trine, colletti e ricami, capelli impomatati e scriminatura spaventosamente perfetta, sorrisi stampigliati con affettazione sui visetti compiti. Sorrideva con affettazione anche lei. Era una donna garbata, cortese.

– Anni?
– Trentadue.
– Professione?
– Donna di casa.
– Si ritiene una persona felice?

La Madre di Famiglia parve quasi risentirsi della domanda.
– Certo che mi ritengo una persona felice – replicò, indispettita.

Ed ora la domanda topica. Il Giovane inspirò profondamente.
– Che cos’è per lei la felicità?

La signora si sciolse allora in un altro sorriso, più calligrafico e bizantino dei precedenti.
– Sono loro – e, nel dirlo, indicò i bambini – Loro, allevarli, nutrirli, assisterli. Giocare con loro, vestirli, curarli. E con loro, mio marito. Servirgli la colazione a letto, il pranzo in tavola, scegliergli la cravatta al mattino, preparargli il pigiama per la sera. Potrei continuare a lungo. Per me la felicità è la famiglia. La mia famiglia. E penso che dovrebbe essere così per tutti. È soddisfatto?

Il Giovane riemerse dai pensieri in cui era scivolato.

– Oh, sì… Può bastare direi, può bastare. Grazie.
– Grazie a lei, signore.

Certo, si trattava della risposta più articolata che avesse ricevuto fino a quel momento. Di primo acchito rimase contento. Intravide anzi la speranza di aver trovato un modello da emulare. Ma tutto svanì in men che non si dica: la posizione della Madre di Famiglia era inattaccabile, ma lui poteva mai sperimentare un simile genere di felicità? No. No, no e ancora no. Una famiglia, lui? Lui che la famiglia non si ricordava neanche più che fosse, ne aveva perduta una e si era gettato fra le braccia della solitudine come un automa assolve il suo compito, senza nemmeno immaginare l’eventualità di un’alternativa. Essere solo era, per lui, come avere la pelle o i capelli, un fatto strutturale, fisiologico. Per costruire una famiglia bisogna essere in due e proprio il concetto di due a lui difettava, lo sentiva a una distanza siderale da sé, lo interpretava come un patrimonio altrui che, al pari della felicità d’altronde, non gli sarebbe mai venuto incontro. Era chiaro che la soluzione della Madre di Famiglia non rappresentava, almeno per lui, una soluzione. Il lavoro ricominciò daccapo.

gigante-08Ricominciò e proseguì fra alti e bassi, fra modeste altitudini ed abissali bassezze.

Fu in un giorno di raccordo fra l’estate e l’autunno che gli capitò a tiro un austero signore, fronte spaziosa, occhio intelligente e piglio da studioso: il Tipo Libresco. Recava in mano una valigetta, e sottobraccio alcuni volumi di diverso spessore. Accettò di rispondere di buon grado, era affabile, nella sua severità. Anni cinquantanove. Professione insegnante. Sì, si riteneva felice, o almeno abbastanza.

– Che cos’è per lei la felicità?

– Mi faccia pensare… La felicità è… La felicità è… Aspetti! Perché devo lambiccarmi la materia grigia e sfornare una definizione magari stentata, quando a portata di mano posso fornirgliene una migliore, anzi la migliore.

Sfilò da sotto il braccio, con la mano impegnata con il manico della valigetta, un dizionario tascabile.

– Lo porto sempre con me. Allora, felicità. Dunque, felibrismo, felibro, felice, eccola qua, fe-li-ci-tà. Condizione di chi è felice o pienamente appagato, beatitudine, contentezza…

– Sì, ma io le domandavo che cos’è per lei la felicità.

– Per me? Ma è questo. Se lo negassi porrei in discussione la portata universale e oggettiva delle definizioni del dizionario. E ciò sarebbe ridicolo. Se ne rende conto?

– Sì, me ne rendo conto.

La sera il Giovane rincasò mogio, insoddisfatto della risposta del Tipo Libresco ma comunque deciso a cercare la definizione di felicità sul suo di vocabolario. La speranza è sempre l’ultima a morire. Chissà che proprio fra i lemmi non stesse in agguato l’illuminazione capace di rivoltargli la vita. Ma non ce la fece nemmeno a cercare. Si era scordato, stolto!, di chiudere la finestra prima di uscire, e i gattacci della vicina, com’era loro abitudine, gli si erano introdotti in casa e avevano messo tutto a soqquadro. Compresa la biblioteca. Compresi gli scaffali della libreria. Il vocabolario era caduto, e loro si erano divertiti ad addentare e squarciare alcune pagine. E, neanche a farlo apposta, della lettera effe. Effe-e. Ragion per cui la definizione di felicità giaceva sul pavimento ridotta a un cumulo di brandelli e strisce strappate. E finì nel cestino insieme alle compagne e ai compagni di paletta.

Il Giovane Malinconico precipitò in una frustrazione degradante. Era sempre infelice, e per di più rigurgitava bile all’idea di essersi giocato mesi di vita nel perseguire uno scopo assurdo. Iniziava ormai a mulinargli nella testa il desiderio di smettere. Ma gli mancava il coraggio. Anche per fare ciò. E così proseguiva, con il suo sondaggio che non lo portava da nessuna parte, fra Madri di Famiglia e Tipi Libreschi che a insegnargli come comportarsi, per essere finalmente felice, non ci erano riusciti.

Il Giovane Edonista lo conobbe un tardo pomeriggio d’inverno, quando questi se ne stava in giro per la piazza in sella alla sua bicicletta gialla. Guance rubiconde e paffute, parlantina sciolta e intrepida.

– Sì, sì, hai voglia, puoi farmi tutte le domande che ti pare.

Di anni ne aveva ventiquattro, di professione fingeva di studiare, era appena passato dalla fisica quantistica all’egittologia, ma era transitato in passato anche per la parapsicologia, il canto lirico e l’economia dei paesi sottosviluppati, e certo, era felice, altroché.

– Che cos’è per lei la felicità?
– Oh, che domanda profonda! La felicità è quello che faccio. La felicità è gozzovigliare fino a notte fonda, è far baldoria in compagnia, è una donna diversa a sera, e diversa da quella del giorno… Ma scusa, ce ne stiamo qui impalati a cianciare quando la sera ci aspetta? Seguimi e te lo faccio vedere che cos’è la felicità, ché a spiegarlo a parole penso di non dirti tutto. Dai, vieni con me!
– La ringrazio, ma sono molto stanco, stanchissimo. È da stamane che faccio sondaggi.
– Appunto, così ti distrai.

Il Giovane Malinconico venne afferrato per un braccio e trascinato neanche lui sapeva dove. Non aveva voglia di seguire l’Edonista, che lo tirava e pedalava, lo tirava e pedalava verso un posto dei suoi. Però, perché rinunciare a quest’ultima possibilità? Dopotutto, peggiorare non si poteva. Forse l’edonismo era la via per la felicità? Il Giovane Malinconico ne dubitava, ma decise di non arrendersi al pregiudizio e si lasciò trainare.

Finirono alla Crapula. In un posto simile, il Giovane Malinconico non aveva mai messo piede. E, appena entrato, fu investito dall’onda soverchiante delle grida di uomini ubriachi, dalle risa sguaiate di donne alticce e scosciate, dalle stonature di canti conviviali che inneggiavano al piacere spiccio, dal fortore di tutto l’alcol versato e rovesciato, dall’asfittica atmosfera di una concentrazione umana soffocante.

– Siediti – gli fece il Giovane Edonista, che si muoveva come a casa propria, salutava tutti, scherzava con tutti – Ti porto qualcosa da bere.
– Solo un goccio d’acqua, per me.
– Acqua?
– Acqua.
– E va bene!

Mentre l’altro scompariva inghiottito dalla folla, il Giovane Malinconico sedette; si accaparrò un posto ristretto su di una panca di legno, fra un uomo e una donna volgari avvinghiati alla sua destra, e un tale già completamente sbronzo e reclinato sul tavolo a sinistra. Stretto là in mezzo, intendeva osservare. Zitto zitto. Se quella gente balorda custodiva il segreto della felicità, lui glielo avrebbe sottratto. Poco gli importava della balordaggine. Meglio essere felici per aver appreso come lo si diventa da ceffi equivoci, che essere infelici per non aver imparato niente da nessuno.gigante-10

La gola gli deflagrava, e l’Edonista non arrivava. Forse si era scordato di lui, e dell’acqua. Aveva pescato una donnina lasciva e s’era fermato con lei. Ma anche con il deserto in gola, il Giovane Malinconico osservava. Il fatto è che nulla sembrava essere mutato da quand’era entrato. I due individui volgari alla sua destra erano ancora alle prese con l’attorcigliamento, l’ubriaco alla sua sinistra permaneva nello stato d’incoscienza (era ancora vivo?), la cortina di maschiacci lubrici e maleodoranti non gli si levava da davanti, le imprecazioni erano le stesse, i canti conviviali sempre stonati, il fetore non accennava a diminuire e aumentare non poteva. Non trascorse molto che il Giovane Malinconico si trovò a constatare quanto tutto ciò fosse dannatamente noioso, monocorde, seriale, demenziale. Una noia angosciosa. Da addormentarsi. Infatti, annoiato e assetato, si addormentò.

Cedette al sonno convinto che là dentro dormire profondamente fosse impossibile, e che sarebbe stato svegliato subito da uno schiamazzo, uno spintone o un vetro infranto. Invece dormì di gusto. E per molte ore, perché lo svegliò, che si era fatto mattino, un individuo grasso e lercio che doveva essere l’oste.

– Senti, eri tu con lui?

E, nel rivolgersi al Giovane Malinconico, l’individuo lercio additò una barella sorretta da due pie infermiere. Allungando il collo, il Giovane vide l’Edonista riverso sopra con la testa fra le mani.

– Sì, che è successo?
– Gli hanno rotto una bottiglia in testa. È già la terza volta che gli capita. Un’altra e rimane scemo, se non lo è già.

Il Giovane Malinconico, stiracchiandosi per stornare i detriti del sonno interrotto, si accostò alla barella. Uno spettacolo miserando: un buco in testa delle dimensioni di un cratere, una benda a tamponare, fiotti di sangue che spingevano per uscire. E lui, l’Edonista, a frignare come un bambino.

– Ma tu sei davvero felice, o mi hai mentito?

Per tutta risposta, il Giovane Edonista si coprì il volto con le mani, mentre le infermiere lo portavano via.
Lasciandosi la Crapula alle spalle, e addentrandosi nel mattino cittadino, il Giovane Malinconico rimuginava sulla triste verità di cui gli era appena giunta conferma, verità che sospettava ormai da parecchio: che felici fossero davvero in pochi, forse un’esigua minoranza delle persone incrociate in piazza, forse nemmeno quella. I titoli del giornale locale che un ragazzo, lungo la strada, gli mise in mano, toglievano ogni dubbio a riguardo. C’era stata una carneficina, la sera prima. Una madre di famiglia aveva sgozzato marito e figli; non una, la Madre di Famiglia, la cui foto campeggiava ora in prima pagina. E costituendosi alla polizia, avrebbe dichiarato: “La mia vita era una prigione, e loro i secondini”.

E lui proprio da persone del genere si era messo in testo di imparare a essere sereno! Con il peso di uno scoramento lancinante si avviò verso casa.

A questo punto, la vicenda del Giovane Malinconico potrebbe dirsi conclusa: una parabola sull’impossibile conquista della felicità. Ma accadde qualcosa, che sposta la prospettiva.

Mentre attraversava la piazza, una giovane lo investì con la sua foga. Non poteva parlare, era la Ragazza Muta che di tanto in tanto lui aveva visto passare, ma con un convulso agitare di braccia, un volto atterrito e disperato, un rantolo straziante stava cercando di spiegargli qualcosa. Lui non capiva, l’avrebbe anche aiutata, ma non capiva. Allora lei si mise a quattro zampe, per terra, e iniziò a mimare qualcosa. Un animale. Muoveva la bocca forse per alludere al suo verso.

– Un cane?

Lei annuì. Vero, aveva un cane. Quando passava in piazza, lo teneva sempre a guinzaglio.

– Hai perso il cane?

Lei annuì di nuovo, mentre il viso le si aggrottava ed impallidiva a vista d’occhio. Il Giovane Malinconico la guardava contorcersi e struggersi e si sentiva impotente.

Durò poco, grazie a Dio. L’incubo si concluse immediatamente. Il cane era andato a mettersi dietro un cassonetto, dove un netturbino lo trovò subito. Ma è a questo punto che qualcosa di interessante, per il Giovane, si verificò.

– È forse vostro il cagnolino? – domandò ad alta voce il netturbino, con l’animale in braccio.

La Ragazza Muta si voltò di scatto. Riconobbe il suo cane e corse verso di lui, lo sfilò brusca dalle mani del netturbino e lo abbracciò forte. E sul suo viso s’impresse un sorriso tanto radioso da cacciare tutte le preoccupazioni di un istante prima. Era meraviglioso quel sorriso. Il Giovane Malinconico s’incantò a fissarlo. Un sorriso sul quale sarebbero potuti crescere i fiori, fiori dai petali colorati, dalle fragranze pungenti. Dove la città intera avrebbe potuto riflettersi, come nelle acque cristalline di un mare tropicale. Dove sarebbe stato bello rifugiarsi, e scoprire un paese che non conosce la notte, né i grigiori della caligine. Meraviglioso. Un sorriso che esprimeva felicità. La Ragazza Muta era felice di aver trovato il suo cane. Strofinava la guancia sul muso della bestiola, ed era felice. Dopo aver temuto il peggio, e aver scoperto che nulla di truce era accaduto, era felice.

Il Giovane Malinconico si avviò verso casa. Incredibile. Era infelice come prima, certo. Ma, dopo intere stagioni passate a domandare che cosa fosse la felicità a persone che potevano rispondergli e che gli avevano propinato solo frottole e quisquilie tali da indurlo a credere che la felicità non esistesse per nessuno, ora, ironia della sorte, una ragazza muta gli indicava il contrario. Paradossale. Probabilmente, anzi, sicuramente, il metodo della sua ricerca era sbagliato. Bisognava ricominciare da capo, e in un altro modo. 

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