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Percorsi

Incontri/scontri lungo la strada

Dizionario vietnamita-ingleseTôi muổn ḋặt phòng cho hai ḋêm”, proprio così dico all’ometto grassoccio, dai lineamenti quasi caraibici ma dal sorriso inconfondibilmente buddhista, che si trova alla reception della pensione. Peccato solo non possiate sentire il suono delle parole. Lo sguardo dell’ometto è compiaciuto e impassibile insieme. Difficile decifrare le ragioni che ne sottendono il riverbero sbarazzino fino nel fondo delle pupille. “Tôi-muổn ḋặt-phòng cho-hai-ḋêm”, ripeto dopo aver consultato furtivamente la sezione della guida con i consigli linguistici. Mi sforzo di smezzare le parole qua e là per dare un tono qualsiasi alla mia richiesta, ma ciò che ne esce non si discosta molto da un magmatico ribollio dialettale nostrano. Voglio cercare di prenotare il soggiorno in vietnamita; sento di dover concedere questo claudicante tentativo alla sconfinata ospitalità che finora mi ha circondato. Oppure, con una perifrasi più prosaica, al mio tentativo di apparire, tra queste genti, un po’ meno ospite e un po’ più compagno. Fino a che punto sia possibile, lo ignoro. L’ometto grassoccio mi osserva ora divertito: senza dare seguito ai miei svolazzi, lascia che quei suoni appuntiti, metallici, trascritti sulla pagina con simboli aerografati e pronunciati dal sottoscritto con singhiozzante tonalità, si disperdano nervosi nella quiete della sera, come serpi lasciate libere dopo notti in cattività. Corpo rigido e mani arroccate in presa mordace sul mogano del bancone, sono tentato di rinculare in ritirata verso ambasciate più familiari. Poi l’ometto sentenzia qualcosa. “…” E qui, l’abisso linguistico che ci separa si materializza in tutta la sua incommensurabile distanza: il metro o poco più che ci separa viene fagocitato in poche sillabe e si trascina appresso la mia figura rigida, il sorriso buddhista dell’ometto e l’inintelligibilità di tutto ciò che ci circonda. Ad alcuni miei segnali di contratta perplessità sopraciliare, fanno seguito altre sue parole, forse le stesse, forse delle nuove, forse un mix di entrambe. Finché a chiosare il suo breve, fluido monologo non giungono alcuni energici movimenti longitudinali del capo. È assenso, mi dico. Il suo sorriso buddhista diventa allora il mio sorriso d’orgoglio, e la sua convinzione, la mia convinzione, in quella che diviene una sorta di trasfusione transculturale e inter-corporea del sapere. Faccio segno “due” con le dita; lui mi sorride e mi ripete una breve formula che dipana l’armonia tipica dell’accordo raggiunto. Tutto sembra deciso, dunque. Ma a quel punto, proprio sul confine che demarca il successo dall’ordinarie défaite, non riesco a sbarazzarmi dell’ossessione del fraintendimento, un’ossessione che si installa, monolitica, nella mia testa e viene presto rovesciata sul bancone che ci separa – Ma è davvero questo? O è piuttosto l’egocentrica fragilità di chi, insicuro, si avventura lungo sentieri inesplorati? Sicché mi affretto a concludere: “two more nights, please”. E lì, tutto il fascino lurido di quei suoni vietnamiti sconosciuti, dei loro dittonghi impronunciabili, del magma insignificante a colare tra le loro pause, viene evacuato, sterilizzato e nettato dal desolante agreement in stile British. Starò a Mui Ne altre due notti. Amen.  

Per carità, non è stato, il mio, un definitivo insuccesso, Eppure, la codarda ritirata finale di cui mi sono reso colpevole mi lascia addosso, fin da subito, uno strascico di rimpianto. Disertore linguistico alla prima difficoltà. Irritante e perdurante è la sensazione di avere semplicemente rimarcato – con parole incomprensibili, questa è l’ironia! – la mia diversità. I am the other, always and necessarily, the other. Provo a non pensarci, a lasciare che Mui Ne mi accolga per quel che sono e magari, stordita dall’ebbrezza color pece di una moonless night, che si dimentichi di me, che mi dis-perda, lasciandomi acquattare in qualche bar sulla sua spiaggia, o semplicemente ignorandomi. Metto in tasca la guida e, almeno ci provo, la mia persona tutta, io peripatetico e narrante insieme. Sono pronto per diventare nessuno, ma quando sto per lasciare la pensione, ecco che vengo richiamato imperativamente a presenziare di fronte a me stesso, trascinato al fronte da suoni questa volta assai familiari: “Sei Italiano? Ci credo che lo sei!”, sento chiedere da una voce roca. Nessun’altro intorno. Mi blocco per un istante. Non c’è tempo, né giustizia in fondo, per elaborare fuggiasche alternative. Con il sorriso amaro del condannato mi volto e stringo la mano ad un corpulento connazionale sulla sessantina.

Mui Ne di notte

Postura statuaria, capello corto color neve, carnagione rosolata, maglietta anonima e camicia monocolore aperta sul davanti, Giorgio mi si presenta come “bresciano d’origine e d’allevamento”. Scambiamo due parole davanti alla pensione, la banalità del cliché linguistico a simmetrizzare la leggerezza della nostra conversazione. Da subito, la loquacità di Giorgio si impone tra noi. Non si tratta, a dire la verità, di monologhi demiurgici: Giorgio non masterizza le parole per narcisismo, né per disperazione, ciò che lo spinge a parlare senza interruzioni è piuttosto una istintuale urgenza a esistere, a essere ed esserci, a farsi presente. And after all, it is not so bad to have a proper chat in Italian. Quando le zanzare si fanno minacciose oltre la soglia della sopportabilità, Giorgio mi invita a cena. “Vieni”, mi fa “sono a Mui Ne da una settimana ormai, conosco un posto che cucina il pesce niente male”. Bresciano, mi dico. Eppure tanto vale fidarsi. Mentre ci avviamo per l’unica strada possibile, la stessa che in giornata ho percorso frustato nel mio incedere da un sole demoniaco, Giorgio mi racconta della sua “doppia vita con un solo passaporto” – ama molto le frasi ad effetto, realizzo – “otto mesi in Padana e quattro mesi sotto l’equatore”. Un altro viaggiatore stagionale, dunque. “Niente male”, dico, scimmiottando uno stupore malriuscito, “la cosa difficile è poterselo permettere, però!”; “Macche!” replica lui. “Io ero un medico di base…niente di che, il mio stipendio… i denari li ho risparmiati col tempo… E poi viaggiando da gennaio ad aprile non faccio altro che risparmiare i mesi del riscaldamento…ecco tutto! Ecco la mia ricchezza!”… Lo scruto un istante: pare soddisfatto della sua argomentazione; del suo trend; dei suoi risparmi. “Ah no!” riattacca subito con un sorriso gattopardesco, “poi certo sono iscritto ad un istituto che voi giovani ve lo sognate!” Non connetto immediatamente. “E quale?”; “Come quale?” mi fa lui irrisorio, arrestando l’andatura di colpo: “L’INPS, mio caro! Che altro sennò!”…”Ah!”, esclamo. Ma in questo sgraziato squarcio monosillabico non riesco a celare l’invidia di chi ha sentito ripetersi, encore une fois, una vecchia storia di dovuti privilegi e mancate compensazioni generazionali. Il passato non si ripeterà. Giorgio pare aver colto la mia ortodossia stantia: “Certo, non danno molto, eh…” , aggiunge quasi a voler frenare l’orda dei suoi pensieri. Ma che fa, ora, si giustifica? Giorgio non giustificarti! Viaggia e goditi l’INPS, goditelo sulle membra mie e della generazione flaccida cui appartengo. Non ti voltare, non rimuginare, ché la vita è già passata. “Ma io mi adatto sai? Sono uno che si adatta!”, sbraita ancora. “Se c’è da mangiare riso per una settimana non mi tiro indietro…tutto sta nel capire che cosa si vuole…e io lo so cosa voglio, eccome!” Si ferma un attimo, aspettandosi forse la mia domanda, ma l’inerzia del suo discorso è troppo forte e ne veniamo risucchiati subito entrambi: “addolcire i miei reumatismi, ecco cosa voglio! Abbandonare la Padana quando diventa una latrina di nebbia e fanghiglia, nebbia e fanghiglia”; ”Già…” replico, pensando ora a casa mia, duecento chilometri più a sud di Brescia. “E tu lo sai, cosa vuoi?” Ecco la domanda cruciale. La domanda che lacera la sera e chiude il primo atto della comédie péripatéticienne di cui siamo attori. What do I want? Siamo giunti al ristorante, thanks God. “Per il momento una buona cena”, gli faccio, sbracandogli in faccia un sorriso furbesco.

Il locale è niente male davvero. Qualche tavolo, clientela discreta, servizio docile e accorto. Pochi piatti tra cui scegliere. Come dev’essere un ristorante che cucina pesce fresco. Ordiniamo una grigliata. Intorno a noi, una coppia di giovani turisti, di cui non riesco a decifrare la provenienza, e un anziano ricurvo su una zuppa fumante. L’aria è afosa quanto quella di Saigon, ma meno inquinata. L’ambiente solfeggia in una penombra orange, alimentata da un paio di abusate lanterne chinese-style. Dopo una decina di minuti siamo curvi anche noi sulle nostre rispettive portate. “Che ti dicevo?! niente male eh… cucina tutto Sun Hue”, mi aggiorna Giorgo, dopo alcuni bocconi di silenzio, quando ho ancora tra i reflussi della lingua e del palato il retrogusto del primo baccalà. Poi mi indica una donna sulla quarantina oltre il bancone della cucina e lei, avvertendo il richiamo deittico di Giorgio, si volta istintivamente a guardaci, accennando un saluto trafelato di sudori.

ristorante a Mui Ne

La cena prosegue innaffiata di vino e discorsi dagli aromi svariati. Poi Giorgio si fa serio: “Chiedevo sul serio prima…”, mi fa, l’esoscheletro di un gambero ancora tra le dita umidicce a impregnare il tovagliolo di una profana sindone. “Davvero…tu cosa cerchi nella vita? Voglio capire cosa cercate, voi giovani…siete…” Una sardina mi scivola nelle braci sottostanti la griglia. “Putain!”; “Lascia perdere…”, si oppone lui, scrollando la mano destra come a voler liquidare la faccenda. Atto gestuale e verbale travalicante. “Tu cosa vuoi?”, insiste. “Non so…”, replico allora sulla difensiva, cercando di riassettare i pensieri e dare una dimensione all’ordine della sua domanda: pragmatico, esistenziale, o forse, più semplicemente, ludico? Difficile decifrarne il tono. Ma soprattutto, ciò che voglio può essere espresso? Può essere effettivamente cercato? “Vedi…” mi dice dopo essersi pulito le mani nella sindone che tiene sulle ginocchia, “questo è il vostro problema…non sapete cosa volete!” Ah! Allora eccoci al dunque! Finalmente!, mi dico. Sarà la retorica generazionale a scandire, d’ora in avanti, il ritmo dei nostri diaframmi. Però, Giorgio, non generalizzare, s’il te plait, giacché così soffocheresti la tua stessa vita, le tue stesse scelte. “Quello che volevo”, replico con ritrovata compostezza, “me lo sono andato a cercare laggiù, in Australia, volevo altro dall’Europa…”; “E lo hai trovato, questo qualcos’altro?”, intercede lui, tra l’interessato e il sardonico. “Per un anno, sì…l’Australia è un mondo a parte, ritmi diversi, un passato unicamente recente, una cultura ancora in fasce…talvolta troppo acerba, almeno per me…ora sto viaggiando verso casa – di nuovo – tentando di sfruttare questa decompressione geografica, umana e itinerante che ci circonda per fissare nuovi obiettivi…”; “Ma non puoi ricostruire i tuoi obiettivi ogni volta da capo!” mi grida di rimpetto, senza alcuna riflessione, quasi avesse intercettato la conclusione della palingenesi discorsiva che stavo tracciando. Di conseguenza la frivolezza delle mie parole mi ritorna amplificata dal vuoto che ora mi circonda. Je suis seul. E glielo dico. “Sono solo, vedi…. Anzi, siamo soli, a voler parlare di ‘noi’ e ‘voi’, come dici tu…io e la mia generazione, intendo… parliamoci chiaro: il patto generazione è stato tradito, dimsesso, cestinato… progetti a lungo termine…” gli faccio, squadrandone il sorriso pensoso in cerca di un appiglio di incertezza, “prima ci avete chiesto di farli, ci avete pure insegnato, perché così era giusto… il lavoro, la famiglia…poi ci avete detto che non era più possibile…’bella la vostra chimera, ma i tempi sono cambiati!’…Reagan e la Thatcher hanno spazzato il globo con i loro capricci…” Mentre termino la frase, mi domando già se queste idee grossolanamente politicizzate plasmano davvero il mio sentire attuale, se riescono a cristallizzare la posizione che occupo nel mondo, oggi, o se invece non avrei dovuto, forse tautologicamente, rivendicare il mio diritto a non sapere ciò che voglio. Ma c’è differenza, in fondo? Epistemologia esponenziale dell’incertezza. Je me sens vaincu. “Quello che voglio dire”, riprende Giorgio inaugurando un tono più paterno, da riconciliazione mitologica “è che non sapete lottare…non ne avete gli strumenti… certo, questa è la nostra colpa più grande, non ve li abbiamo forniti…ma voi non li avete neppure cercati questi strumenti…A Brescia diciamo che i cadenàs perché nò i scaine bösogna òntai…ovvero bisogna darsi da fare, per Dio!, per far funzionare le cose…ma voi ve ne siete semplicemente fregati, siete dei Michelàs, voialtri… avete pensato che poteva tranquillamente andare avanti così, che prima o poi sarebbe arrivato, per indolenza o per natura, il vostro turno…ma non avete capito, cazzo, che vi abbiamo fregato?! Vi dovete muovere!” A questo punto, Giorgio abbassa il capo in cerca del tovagliolo. O di chissà cos’altro. Ed è in questo gesto di dissimulato diniego che avverto aprirsi un’incrinatura esistenziale: la retorica di questo omone solitario che mi sta di fronte si manifesta in tutta la sua disperazione e quando è obbligato, lui, per l’inerzia della necessità, a guardarmi nuovamente negli occhi, i suoi mi appaiono gravati di una solipsistica tristezza. Patinati, insicuri, tremebondi, la cornea impastata di un umore che non è solo quello della vecchiaia… Sono occhi che parlano d’altrove – forse i luoghi visitati, forse quelli ancora da visitare – predati dall’assenza di qualcosa a cui non so dare forma, né nome. E non oso domandarne la provenienza. Who is Giorgo, for me? E chissà chi rappresento, io, per lui; chissà chi è che “si deve muovere”; se e quali donne ha amato, se e quali figli/e ha avuto. Domande che galleggiano appena sopra la soglia dell’esistenza. Domande che si abbandonano al largo della prassi del pensiero e che non troveranno mai risposta, ne sono convinto, giacché richiederebbero ben più di questa cena e quest’aria permeata di salsedine per palesarsi. Per quanto mi riguarda, ho già le mie insicurezze ad accompagnarmi along the journey, e queste mi bastano. E allora viaggia, Giorgio, viaggia, ché la Padana e l’Italia tutta sono troppo irriconoscenti oggigiorno, sia per me che per te; continuiamo a viaggiare, almeno per un po’, ognuno con i propri demoni da combattere. E se la mia generazione verrà spazzata via, sarà colpa di entrambi. “Hai ragione”, mi limito a concludere, mentre cerco di recuperare l’ultima sardina “non sappiamo combattere… anzi, non ce ne frega nulla, dal momento che, ahimè, sappiamo che a lottare, quotidianamente, siamo in tanti.” E per la prima volta, tra noi, piomba un metallico silenzio. Sipario su una débacle personale e collettiva. Combien de personnes pour une vraie révolution? N’importe combien, mais qui.

uno dei bar di Mui Ne

Sulla strada del ritorno mi accorgo che Mui Ne è rianimata da guizzi di vita insospettabili. Alcuni locali diffondono musica, altri si ibridizzano in forme creole: pensioni-ristoranti-bancarelle tutto insieme, in appena venti metri quadri. C’è addirittura un piccolo concerto live improvvisato: in un bar due turisti hanno preso posto di rimpetto ai clienti e hanno iniziato a pizzicare le loro chitarre acustiche. Intorno a noi un vociare che non comprendo, ma soprattutto profili che non riconosco: donne e uomini oltre il metro e ottanta, massicci nella muscolatura e finanche nelle ossa. Biondi, capello corto, paonazzi in volto per il troppo sole del dì appena morto, o per qualche bicchiere ancora in fase di decantazione nello stomaco. Con l’indolenza tipica del post-dinner, cerco di aprirmi un varco di intelligibilità tra quei suoni e quei volti. Nuovi, sconosciuti. Diversi. Ma ogni sforzo è vano. “Russi!”, sbotta Giorgio che pare intrigato quanto me dalla cadenza caucasica. “Sono i padroni di Mui Ne… comprano terreni, costruiscono…sono venuti a riprendersi gli aiuti economici degli anni passati…” Vietnam alleato satellite; eppure non sempre. “A onore del vero”, preciso “gli aiuti sono venuti a fase alterne…sospinti da calcoli opportunistici più che da una solidale fratellanza ideologica o politica. In mezzo c’è pur sempre la Cina…”; “Come no! Ma ora i nipoti di Kruscev sono tornati additando ipotetici crediti di riconoscenza…ma tant’è…tutto può essere riscritto…e oggi i russi, dopo aver svuotato le tasche dei vietnamiti ed espropriato il loro spazio, sono diventati i padroni di Mui Ne….Te lo dico io, son peggio degli americani, almeno loro hanno portato beni materiali per addolcire la pillola…I russi si prendono tutto, senza discutere, senza mediare…Guardali lì, con i loro computer e i loro cocktails da 10 dollari l’uno a occupare uno spazio non loro…Sono dei barbari, dei barbari moderni!” A questo punto Giorgio, per suffragare il suo dichiarato livore, mi narra un episodio avvenuto il mattino: “Ti racconto una aneddoto”, mi dice. “Verso le dieci, stamattina, poco distante da qui… laggiù oltre quelle palme…” mi indica puntando verso il nulla del buio, là dove le luci di Mui Ne paiono risucchiate dall’anti-materia della notte; “stavo passeggiando…quando vedo questo gruppo di persone, di russi, radunato intorno a un piccolo tavolino da campeggio, proprio ai margini della carreggiata…allora mi avvicino incuriosito…tengo sempre con me la mia videocamera”, puntualizza, “così se mi imbatto in qualcosa di interessante sono pronto a immortalarlo… essendo i russi un popolo strano, come minimo, mi avvicino con la videocamera già accesa…ed ecco che puntando l’obiettivo tra alcune teste riesco a testimoniare il misfatto…” Da teatrante consumato Giorgio arresta l’eloquio per far lievitare la suspense, al che non posso che impostare un’espressione di manieristico interesse… “ebbene…”, continua, “sul tavolo ci sono tre anguille lunghe almeno così!” L’apertura delle braccia è iperbolica e marinaresca al tempo stesso. “Un uomo le tiene ferme tutte e tre con una presa d’acciaio…inamovibile…queste si dimenano, sbattono la coda, poverette…il corpo tutto…presagiscono il loro destino…ma l’uomo sa il fatto suo…non lascia scampo…” Giorgio arpiona l’aria intorno a sé a imitare una presa uncinata; “…finché questo non tira fuori da un secchio un’ascia già insanguinata…un’ascia che dovrebbe essere illegale, a mio modo di vedere…e chissà quante altre ne ha già uccise, penso lì per lì…e insomma, con un colpo secco, tra i commenti entusiastici degli amici, mozza le tre teste in un istante…Zac!” E qui Giorgio si blocca, le parole appena sfiatate appese tra di noi e quelle ancora da pronunciare traballanti sul bordo delle sue labbra, pronte a uscire non appena il ricordo di quell’istante si sia gonfiato di sufficiente enfasi. Come oratore ci sa fare, sans doute. “Gli occhi delle anguille si spengono quasi subito, ma i loro corpi continuano a dimenarsi e a vomitare sangue ovunque, ancora per un bel po’, come se avessero vita propria. Ed è a questo punto che succede il peggio, mio caro…” silenzio interrogativo; divertito, non so più che aspettarmi. “Il russo prende le anguille, una per una, tenendo a turno le altre due ferme con l’altra mano, e ne strizza il sangue in alcuni bicchieri…poi, ridendo di gusto, offre il risultato agli astanti, compreso il sottoscritto! Ah, questa poi! Ho ripreso tutto con la videocamera, se non ci credi!”; “Ma tu che hai fatto? Hai bevuto?”, chiedo incuriosito; “Sei matto?! Certo che no! Queste sono cose loro! A me il sangue non fa impressione, per carità, sono medico, ma berlo crudo, proprio no! Son cose da sovietici!” E chissà perché, mi domando tra me, a volte sono solo russi e a volte sono ancora sovietici.

Russi a Mui Ne

La pensione è ormai vicina, ma la serata – anguilla agonizzante eppure non ancora morta – ha in serbo un ultimo drammatico colpo di coda; un epilogo che trascinerà entrambi dentro un mesto silenzio. In una sorta di mimesis con quanto Giorgio mi ha appena raccontato, veniamo interrotti nel nostro ultimo incedere da una barriera umana che occupa la carreggiata in tutta la sua larghezza. Ma questi non sono russi, bensì vietnamiti. Fermi, ci danno le spalle, rivolgendo lo sguardo oltre loro stessi. Il volume dimesso delle voci trasmette una forma di pungente tensione. Quando li raggiungiamo, non ci è difficile svettare oltre i loro piccoli corpi e comprendere le ragioni di una tale mesta mise en scene: pochi metri oltre, un minivan sistemato di traverso tra le due corsie lampeggia con le quattro frecce accese; il suo richiamo ipnotico e’ inascoltato. A terra alcuni rottami. Poi, appena oltre l’alone tracciato da un lampione, il corpo disteso di un uomo – anzi, di un ragazzo, i polsi e le caviglie ancora glabri – non pare avere più forze. Una macchia meticcia e farraginosa di sangue e olio ne inzuppa i capelli. Nessuno è in grado di fare nulla. Just watching, and waiting. And possibily praying, come fa un ragazzo seduto sul marciapiede, gambe giunte nella posizione del loto e occhi chiusi rivolti verso una dimensione tout à fait interieure. Provo mentalmente a ricostruire la dinamica dell’impatto, ma quando realizzo che si tratta di null’altro che onanismo proto-televisivo, cerco Giorgio con lo sguardo, intenzionato ad agire. “Dobbiamo fare qualcosa”, dico ad alta voce, aggrappando quel “noi” alla competenza di Giorgio. Ma Giorgio non mi sente; non può sentirmi: voltandomi a destra e a sinistra mi accorgo che si è già allontanato; solitario, cammina già oltre la folla. Lo rincorro e mi paro davanti al suo passo. “Non possiamo fare qualcosa, cazzo?” gli dico nervoso puntando il braccio verso la scena. “C’è ben poco che si possa fare”, ribatte, “se ha qualche frattura si riprenderà, se ha un’emorragia bisogna sperare per lui che ci sia nei paraggi un buon ospedale…” In quel momento l’ambulanza – un furgoncino anni ’70 – ci sfila accanto in senso opposto, le sirene a mulinare in silenzio la tensione di cui la notte è intrisa. “Potevamo almeno rimanere… potevamo essere utili, in qualche modo”; “Chi öl fa töt, nò ‘l fa niènt”, glissa Giorgio con una delle sue solite inflessioni, queste sì piene di vita, e certamente più vive della sua mortuaria sicurezza sul destino di quelle ossa distese. Lo osservo varcare la soglia della reception con quei suoi lunghi passi che sembrano solcare la rotta del disinteresse nei confronti del mondo. Il suo mosaico, il mosaico della sua ambivalente figura, presente e assente allo stesso tempo, non trova soluzione alcuna nel mio cervello, frammento dopo frammento continua a decomporsi. Niente combacia. Perché viaggiare? Perché portarsi appresso la videocamera, sempre e dovunque, se poi non si è disposti a entrare in scena, mai? Siamo diventati così auto-referenziali? Perchè io non ho fatto nulla?

Ci salutiamo in maniera sbrigativa e piuttosto contrita, quasi la situazione di cui siamo stati testimoni abbia raggelato la nostra voglia di parlare e, soprattutto, di capirsi. In camera non riesco ad addormentarmi. Prendo l’agenda e inizio a scrivere di questa serata multi-episodica: il suo dispiegarsi attraverso un villaggio prima silente, poi gaudente, infine dolente; i discorsi coloriti e finanche provocatori; i russi, i sovietici e le crisi generazionali; l’impossibilità a definirci reciprocamente, io e Giorgio, quasi fossimo abitanti di due pianeti differenti. Poi penso al mio viaggio in bus verso Mui Ne, a quante fottute volte abbiamo rischiato un frontale, ai centimetri che, ogni volta, ci hanno separato dal collassare sull’asfalto in una pozza meticcia e farraginosa di olio e sangue. Tutto assolutamente normale. E invece no, perdio! Talvolta il sincronismo s’inceppa! Eccone la prova, se ne avessi avuto bisogno; è là fuori, on the road; talvolta i centimetri e la destrezza non bastano…l’ironia (o forse la salvezza) è che non si può sapere né dove, né quando. Haunting thoughts. Apro infine The Quiet American, sono le ultime pagine: proprio questa sera Pilar, inconsapevole del suo destino, viene consegnato ai sergenti e lasciato morire da Fowler. È l’attualissima realtà dei libri che ritorna nella vita. 

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