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Percorsi

Fate, dune e amicizia nell’entroterra

Trascorro il giorno seguente senza pretesa alcuna, sospinto alla deriva dall’ozio di un quieto far nulla. In tarda mattinata, dopo colazione, mi affaccio sulla spiaggia poco oltre il mio bungalow e da lì, a piedi nudi – orme di sabbia umida e foglie filiformi dietro di me – mi avvio verso il piccolo villaggio di pescatori al limitare della zona più turistica. L’aria è frizzante; il cielo leggermente velato; in acqua striature e riflessi dai toni tiepido-tropicali si susseguono al ritmo della brezza. A largo, due imbarcazioni tozze, circolari, paiono immobili, inchiodate su un imperturbabile fondale di nuvole e correnti. Mi siedo sul bagnasciuga a osservare il microscopico lavorio dei pescatori, lasciando che e a poco a poco la silhouette delle imbarcazioni ormai al rientro si faccia più ingombrante e definita. Nell’attesa dell’incontro, mi chiudo in un silenzio pacifico. Poco distante, sulla sinistra, il porto del villaggio dipana la solita commedia quotidiana, restituendomi agli occhi un prisma di colori che, sotto i riflessi rifratti del sole, si fa abbagliante. Vivant. Oggi è come ogni altro giorno. It is a troubleless morning. Quando i pescatori si trovano infine a poche decine di metri da me, scendono in acqua e trascinano in secca, con la forza delle braccia, le imbarcazioni, che ora mi appaiono nella loro pura materialità: legno, canapa e manodopera. Fragili, però, certamente no, giacché riescono a ospitare fino a cinque uomini, se diligentemente seduti lungo tutto il perimetro. Una volta al sicuro, i pescatori – giovani uomini i cui corpi, spossessati rispetto all’età, sono modellati dalla fame, dalle veglie mattutine e dal vento – estraggono dal fondo delle imbarcazioni le reti da pesca per stenderle sulla battigia. Sorrisi storpiati dalla fatica mi vengono allora rivolti copiosamente: i frutti di giornata sono più che soddisfacenti. Ricambio a mia volta e mi congratulo con un caloroso suono onomatopeico. Poi mi lancio in un prosaico “Good job!”. Ma i loro sorrisi ad libitum mi fanno capire che le eco inglesi non richiamano alcuna nota intelligibile. Sicché, ad esclusione degli scheletri delle imbarcazioni che mi circondano, mi ritrovo ben presto solo, soggetto sagomato e rosolato al sole dei tropici intento ad asciugare i propri malanni di un inverno trascorso sotto l’equatore.

imbarcazioni

Nel pomeriggio mi reco al villaggio vero e proprio di Mui Ne e sono piuttosto ravi nel constatare come le valutazioni in cui mi ero lanciato il giorno precedente non erano del tutto corrette. Verranno corrotte, prima o poi, le tonalità iridescenti di questi scenari: diverranno grigie, vitree, metalliche, a seguito del rutilante avvento del “post”; e verrà corrotto, soon or later, il ciclico esistere marinaresco di queste genti, piegato alla inesorabile linearità del progresso. Succederà tutto questo. O forse no, pourquoi pas? Intanto, questo è certo, c’è un piccolo mondo, appena oltre i resort, i pub, e i ristoranti, che appartiene ancora agli uomini e alle donne dai sorrisi storpiati dalla fatica; un mondo dai ritmi regolari, circadiani prima e stagionali poi, dai colori non inquinati dalla techne dell’artificio, not yet at least; un mondo animato da persone la cui prodigalità immacolata non si fonda sullo scambio, non domanda nulla indietro, ma chiede, quello sì, di essere riconosciuta, rispettata, difesa. E de-voluta. In fondo, si tratta solo di una prospettiva differente sulla vita. Una prospettiva, può darsi, sempre più rara, ma ancora comune a quei luoghi del globo che si ostinano a vivere in parallelo. Juste à coté de l’autre monde. È possibile un altro rapporto con la sofferenza? What are sorrow and pleasure? Troubles and happiness?

Il mattino seguente scendo di buon ora alla reception e chiedo all’ometto grassoccio – questa volta, ahimè, recitando sin dal primo atto in inglese – come posso raggiungere la sorgente delle fate e le dune, due sightseeing dell’entroterra che non voglio assolutamente perdermi e che, anzi, rappresentano le ragioni principali per le quali ho deciso di fare tappa a Mui Ne sulla via per Nah Trang. Non volendo affidarmi a qualche tour organizzato, provo a chiedere a lui: “Ask to the guy on the other side of the road”, mi dice puntando il dito verso una tienda in lamiera cinquanta metri più avanti. Il suo tono è sintonizzato su una cadenza monocorde, conciliante, probabilmente memore del mio tentativo linguistico pregresso e della mia attuale retraite. “Cảm ơn bạn”, mi limito a dire. Grazie. À plus tard.

Il giovane robusto che mi trovo di fronte è intento a caricare alcuni barili sulla sua jeep. Mi scruta un paio di volte mentre va e viene dall’interno della sua tienda lamierata, senza tuttavia mostrare alcun interesse per la mia presenza – effimero egocentrismo turistico – o per le ragioni della mia visita. E non sono neppure sicuro che si tratti della persona giusta. “Excuse-me, would you be willing to drive me to the Fairy Steam and to the Dunes?” provo allora a chiedere. Nessuna risposta from the inside. “Not now”, mi dice una volta tornato all’aperto, mentre deposita l’ennesimo barile sulla jeep. Ha il fiato corto. Ma forse è meglio così, giacché l’odore che proviene dai barili è immondo, marcescente, di putrefazione ed essicazione cadaverica insieme. Impossibile chiedere agli alveoli di schiudersi oltre un affannato sospiro. “I have to deliver these jars around the village…” … “…then I’ll bring you there, if you want”, conclude. Non so cosa replicare. Rimango un istante in silenzio a valutare le opzioni. Ma subito ci pensa lui a fornirmi un’alternativa: “If you help me, we will be done soon…and I don’t ask you money!” Ah! Interessante contrappasso! Le mie braccia per un tour for free. Certo, la filosofia alla base della sua proposta mi affascina, quel suo mischiare arbitrariamente responsabilità e favori, “I”, “you” and “we” come si trattassero di un unico soggetto. Il tutto, trascendendo qualsiasi metro economico; non un prezzo è stato fatto, non una timetable è stata concordata. Viviseziono la proposta, insieme agli occhi del giovane: non penso stia bleffando, mi pare anzi sincero, giacché in lui scorgo soprattutto la brama di liberarsi al più presto del lavoro, piuttosto che quella di raggirare un ignaro forestiero sulla via verso l’entroterra. Il fetore di quei barili, tuttavia, è insostenibile. Sicché, prima di accettare, mi lego un fazzoletto a protezione del naso. “We can go”, gli faccio allungandogli la mano. “I’m Stefano, by the way”; “I’m Sun”

il rosso della sorgenteQuindici minuti dopo, terminato di caricare i barili, mi ritrovo a bordo della jeep – un modello cabrio, 4×4 a due posti, con un ampio portabagagli sul retro – lungo la strada principale di Mui Ne. Thanks god, il vento che filtra attraverso i finestrini-inesistenti ripulisce parzialmente l’abitacolo dal lezzo che ci portiamo appresso e che disperdiamo capillarmente nel villaggio come moderni appestatori. Mi meraviglio che al nostro passaggio – incantatori di fauna domestica quali dovremmo essere – non si accodino sorci, cani selvatici o animali d’altra sorta. “it’s dried fish”, mi dice Sun indicando il retro della jeep “I hate it, but everybody uses it for nước mắm, fish sauce. Everybody eats it”. In effetti, la zona di Mui Ne è famosa in tutto il paese per la produzione di salsa di pesce, un composto ottenuto lasciando essiccare al sole (o sotto sale) acciughe e seppie, alle quali vengono poi aggiunte alcune erbe. I barili che trasportiamo hanno terminato essiccazione e devono ora essere consegnate around the village a coloro che si occupano della pressatura, prima che il composto venga infine confezionato. “What’s the taste?” chiedo a Sun, cercando di travalicare i decibel del motore. “It’s like…spicy…spicy fish…maybe spicy cheese…yes…” Il suo inglese è elementare, ma scevro da errori. “Where did you learn English?” “Oh, no lessons…here everybody speaks English…you know, Americans…and tourists”; “Do you like living here?” “I like here, yes…”, mi dice, “…but Ho Chi Minh City is better”. Ho Chi Minh City is always better, penso. Ma per chi? “Do you have a job?” “Yes, but not regular…I work sometimes…I help my father fishing…and when I have enough money I go to Ho Chi Minh City, where I have friends”. Pare sereno e quando pronuncia le parole “Ho Chi Minh City” e “friends” la sua voce accelera, si fa più energica, trascinando in avanti i suoi pensieri, la nostra conversazione e le consegne tutte. Poi aggiunge: “When I have enough money I go to Ho Chi Minh City and find a job there”; “What kind of job?” chiedo; “I don’t care…it’s not a problem…” Eccola qui, vigliacca e codarda, compressa in poche parole, la differenza tra me e lui; eccola qui, palesarsi in tutta la sua sbaragliante semplicità, la diversa prospettiva esistenziale che ci distanzia: il mio non sapere, il mio vagare errabondo attraverso l’Asia disseminando la strada di domande, alcune futili, altre profonde, altre ancora ridicole, ma tutte che continuano – e come potrebbero? – a non trovare risposta, si riflettono, specularmente e negativamente, nella lineare noncuranza con la quale Sun approccia la vita. Eppure, troppo facile sarebbe bollare la sua prospettiva come triviale disinteresse: ciò che più mi destabilizza è intravedervi, al contrario, un vano di serenità immacolata, cristallina, tout simplement parce que “It doesn’t matter”, un vano che è tanto interstiziale, quanto tremendamente ammonitore per il sottoscritto, giacché ora, a me, questo spazio manca. E continua a mancare anche mentre scarichiamo uno a uno i barili, sosta dopo sosta, lasciando che i bicipiti affossino nella dolenza dello sforzo e il turpe odore di seppie si impregni nei nostri vestiti. Questo è ciò che percepisco; Sun, invece, sorride. La differenza è tutta qui, ma sebbene io ne sia parte, sebbene io rappresenti la diversità, qui e ora, non riesco a decifrarne del tutto i contorni, i quali rimangono, in effetti, vaghi, sfumati, mutevoli, come se, ostinandomi a indagarli troppo da vicino, non facessi altro che reiterarne il cambiamento e con essi una forma perversa di esistenziale miopia. Ho paura di credere nelle chimere che qualcun altro, un mondo intero per la verità, mi ha appiccicato addosso. “But is there any job you would like to do?” chiedo una volta tornati a bordo dopo aver consegnato l’ultimo barile. Sun si chiude, allora, in un silenzio estemporaneo, il rombo della jeep e l’eco olfattiva delle seppie a colmare la nostra distanza. “I don’t know… I like to paint…but no money”, mi dice ridendo. Poi dal vano porta-oggetti estrae un block-notes con alcuni suoi disegni: sono a matita, in bianco e nero, i tratti decisi, le forme puntute, le sfumature talvolta ridondanti. Alcuni ritraggono persone del villaggio, altri paesaggi: “And this is fairy stream”, mi dice quando arrivo a metà del blocchetto. “Do you go often there?”, “Yes, often, this is why I drive you there”; “they are good” gli dico; “where did you learn?” “I don’t remember…when I was a child, maybe…I don’t know”. He never knows why, but he knows how to do things. “Would you like to travel and paint other places?” “Yes sure!” mi dice. “…Around the world!”. E il suo sguardo si accende di vividissime immaginazioni impossibili. Come non potrebbe?

sorgente delle fate

Quando siamo al limitare del villaggio, svoltiamo a sinistra e dopo un breve tratto sterrato ci fermiamo. “Now we go on foot”, dice Sun. “It takes an hour to walk the stream and back. I wait there, under the tree…I paint something”.  Lasciato Sun alla sua arte, mi avvio da solo. La sorgente delle fate è un placido corso d’acqua profondo appena una decina di centimetri che dal mare si insinua delicato tra le rocce rosso-pastoso dell’entroterra di Mui Ne. Il mio intento è quello di raggiungere le delicate cascate che si trovano a circa mezz’ora di cammino e poi tornare indietro per recarmi alle dune by car sulla scia delle sfumature del tramonto. Solcando a piedi nudi il fondale del corso – un pasticcio tiepido di sabbia e simil-creta – ci si addentra in una vegetazione che dimentica ben presto i colori arsi della costa e si fa verdeggiante e rossa allo stesso tempo. Verde tropicale e rosso marziano. I toni si accostano, si alternano, ma rimangono pur sempre distinti lungo il percorso, sicché paiono macchiare il fondale turchese del cielo in maniera disomogenea, a chiazze, in una sorta di trasfigurazione fauvista di un canyon a reminiscenza americana. Ragazzini di appena 7-8 anni mi tarantolano intorno a sciame d’ape, tutti insieme, sguazzando nelle acque tiepide del corso e offrendosi, a turno, di farmi da guida. In cambio, ovviamente, di qualche dollaro. Ma la semplicità del cammino non richiede, in effetti, altro che il silenzio della contemplazione. E nemmeno la presenza di alcuni visitatori – pochi, per la verità, forse a causa dell’orario improbo – sembra capace di deflettere l’equilibrata atmosfera del luogo, come se un sacro rispetto si imponesse sulle impronte fangose di ognuno di noi. Just quietness.

Al ritorno Sun mi mostra un paio di disegni del medesimo soggetto: l’ingresso della sorgente, incorniciato sulla destra dalle fronde aghiformi di una palma e sulla sinistra dal declivio grezzo, spigoloso, decisamente irto, dell’argine. Gli dico che mi piacciono molto e che dovrebbe provare a venderne qualcuno, ai turisti magari, ma tutto quello che si limita a fare è metterne uno tra le mie mani e infilare il secondo nel suo blocchetto. “That’s for you”, mi fa. Io ringrazio devotamente, ma nel farlo mi congelo in un imbarazzo contrito, siberiano direi, giacché la Siberia sola potrebbe forse dare il senso della distanza che avverto. Non elemosino comprensione, per carità, ma mi domando se sia sempre inevitabile definirsi per sottrazione. “Don’t worry, my friend” insiste Sun percependo la mia incomprensione. “You help me with fish and this is for you. A present. If I become famous, you become rich, ah! Ah!” Fame and richness. Qui come ovunque, in fondo. Perchè stupirsi? Eppure non chiede nulla, Sun, in cambio. Pare bastargli il pensiero, della ricchezza. E chissà quant’è, per lui, la ricchezza? My friend, mi dice. But what about the fact that the excursion is already for free? Non posso evadere ogni spesa di giornata solo per aver scaricato qualche barile di pesce lungo il percorso. “Now, it’s time to go to the dunes”, conclude lui con un sorriso. Troverò il modo per sdebitarmi.

Sulla carta, il tragitto verso le dune è percorribile in quindici minuti di auto. Tuttavia, il nostro spostamento, inizialmente reso piacevole per lo svaporare della calura in una tiepida brezza motorizzata, ci richiede oltre un’ora, poiché quando ci troviamo poco oltre il villaggio l’andatura della jeep si fa d’un tratto anchilosata, singhiozzante, e infine arrendevole. Abbiamo bucato. A motore spento, solitari e frustrati sul ciglio della strada, senza uno squarcio d’ombra in vista, il sole delle quattro e trenta non pare più così gradevole. E ancor meno lo è il contatto con l’asfalto rovente durante tutto l’iter cambio-gomma. “You can go, if you want”, mi dice Sun. Ma non ho alcuna intenzione di lasciarlo nei suoi modesti guai di giornata. Sicché mi do da fare per aiutarlo. Extra work today; o forse è solo il conto di giornata che si materializza in modo imprevedibile. A quanto pare, a farci bucare sono stati alcuni chiodi. Sun però non sembra capacitarsi: “This never happen to me, never!” mi informa una volta che siamo di nuovo on the road: “Maybe a joke, maybe not… maybe just bad luck…” e dopo questa riflessione si chiude in un’espressione contratta, dispiaciuta, e forse anche preoccupata; un’espressione di cui, tuttavia, non saprei indicare la ragione o la provenienza: se il caldo, la fatica, il suo (nostro) apparente bad karma , o chissà cos’altro. Poi, d’un tratto si rasserena: “But don’t worry, we are in time for sunset!” ci tiene a rassicurarmi. Dear gentle Sun.

le dune e il nulla

A una decina di chilometri da Mui Ne si apre, unexpected, un deserto rosso. Le dune si susseguono sinuose e morbidamente irregolari per circa mezzo chilometro quadrato, ovvero un’area sufficiente per nascondere agli occhi della ragione, ingannata dagli estemporanei profili tracciati dal vento, la vista dell’orizzonte e di qualsivoglia artificio umano, sicché la mancanza di punti di riferimento precipita lo scenario, all of a sudden, in una dimensione mitica, hors du temps. Dopo solo qualche passo verso il cuore delle dune, là dove lo schiamazzo dei ragazzini si dissolve in una serena afonia, lo spazio perde già la sua linearità geometrica e diviene spazio curvo, multiplo, eternamente cangiante; uno spazio dalla materialità eterea, fatto di dossi viventi – plus que vivants – che si ripetono in un ciclico rincorrersi e sfuggirsi di forme e tonalità. Each dune hides always a surprise.

Il piede nudo avanza lento e regolare sulla sabbia fresca. The pace has to be steady and regular, come il ritmo cadenzato del ciclisti lungo la salita, giacché ogni brusca accelerazione non farebbe che aprire un abisso nel quale il corpo tutto sprofonderebbe senza resistenza alcuna. Intanto, durante ogni nuova sabbiosa scalata, le ombre si strecciano sempre più lunghe verso l’orizzonte, in sincronia con l’abbassarsi del sole, e offrono l’occasione per fotografie in stop motion tout à fait divers. È proprio il sole, qui, a rappresentare l’unico metronomo della vita, a segnalare il cambiamento che sarebbe altrimenti lasciato alla sola bizzosa volontà del vento. Il sole energizza, scalda, dà vita, e soffoca, anche, questa terra, fino a trapassare rapido e apocalittico come sempre nella sua inscenata discesa purpurea, spegnendo la visione e l’esistenza diurna insieme. E allora rimango ben presto al buio della sera con le mani conficcate nella sabbia e i pensieri arricciati dalla brezza. Quanti granelli possono entrare in una scarpa numero 40? Infiniti. Quanto dura una scritta sulla sabbia? Un soupir. E il tramonto appena sub-equatoriale? Il tempo arbitrario di una folata. Silly questions of a light evening. Ma ci sono domande intelligenti?

Al rientro in jeep verso Mui Ne cerco di convincere Sun, simpatico vate dalle fortune alterne, ad accettare una decina di dollari per l’escursione. Ma lui non ne vuole sapere. Sicché, quando siamo ormai poco lontani dalla sua tienda lamierata, gli chiedo di accostare accanto a un piccolo chiosco. In un attimo entro ed esco insieme a due tiger in bottiglia, così da permetterci di terminare la giornata con un po’ di meritato amaro in bocca. A spese mie, finalment.   

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