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Omnia

La violenza del nome

Le forze mitiche e demoniche del mercato multinazionale

Coca cola GabrieleLa Coca Cola ha lanciato, ormai qualche tempo fa, una campagna di promozione e al contempo di restyling che ha riscosso un ottimo successo tra i consumatori; si tratta, come spesso capita, di un’ idea semplice e apparentemente banale, che ha fatto presa sulla sensibilità collettiva. Ecco l’idea: fare delle bottiglie personalizzate, con sull’etichetta non più la storica scritta Coca Cola, ma nello stesso stile il nome che si desidera: Carlo, Francesco, Giulia…
Proprio ieri, ho scoperto che la stessa idea è stata adottata (copiata? comprata?) da un altro marchio storico della produzione multinazionale contemporanea, ovvero dalla Nutella-Ferrero: anche lì, al posto della classica scritta Nutella, possiamo trovare Alessandro, Rossella, Lorenzo…

Cosa si nasconde nel successo di un’idea tanto semplice?

Su un primo piano interpretativo, dobbiamo ammettere che l’idea consiste nel recuperare un barlume di prossimità e calore umano in quello che classicamente viene ritenuto essere un consumo asettico. I brand multinazionali del mercato globale sono astratti per definizione: il livellamento parte dal propinamento di un prodotto uguale dappertutto in tutte le parti del mondo, imposto dall’alto in maniera standardizzata. L’idea dei nomi cerca di restituire una vicinanza, quasi a convincere il consumatore di non essere solo uno tra i tantissimi, un volto perso nella folla del consumo indifferenziato, ma di essere in qualche modo qualcuno che si distingue dagli altri. In questo modo, la Coca Cola, come la Ferrero, sta lì a dirti: “Guarda che io ti conosco più di quanto pensi! Non credere che per noi siate tutti uguali, per noi tu, Federico, conti!”

Ovviamente si tratta di una astuta strategia promozionale: si tratta di convincere di tale meccanismo il consumatore, quando l’unica finalità del brand è e resta il consumo massivo. Anche perché l’ingenuità del consumatore, che si sente finalmente chiamare per nome, interpellato in prima persona, sta nel ritenere il nome di battesimo l’elemento distintivo attraverso il quale poter emergere dal qualunquismo e dalla massa: niente di più sbagliato.

Innanzitutto, la “chiamata per nome”, ovvero l’interpellanza in prima persona, rappresenta una strategia menzognera, non è affatto reale confidenza, da un lato perché il leviatano del mercato globalizzato si limita a chiamarti per nome smerciando bottiglie quasi fossero ami e attendendo il momento della presa, dall’altro lato, dal lato del consumatore, perché chi ha lanciato l’amo resta in un altrove assoluto: non sappiamo chi ci stia chiamando per nome, in fondo è solo un nome scritto su una bottiglia, e perciò stesso la fascinazione della pseudo-confidenzialità non è che una veemente attestazione della nostra eterna e perpetua subordinazione all’immaginario del mercato.

Se il rapporto è di prodotto standard/totalità indistinta, allora nulla viene compromesso nel rapporto tra consumatore e merce nella logica tardo capitalista. Il ritorno alla località della filiera corta dovrebbe invece coincidere con prodotto specifico/individualità, ovvero la possibilità di acquistare un prodotto che sia essenzialmente e personalmente mio, che mi è stato consigliato in prima persona. Ora, invece, il rapporto ibrido è del tipo prodotto standard (la Coca Cola nella bottiglia sempre Coca Cola è, il prezzo resta lo stesso)/pseudo-individualità; “pseudo” proprio perché il nome non è sufficiente a raggiungere la mia particolarità particellare e perché l’individualità è ambita dal mercato non per tutelarla veramente, quanto per sfruttarla intensificando il suo processo di vendita.

Ma che cos’è il nome? Si tratta apparentemente di un mezzo per distinguersi e per tenersi stretta un’individualità, anche con orgoglio. Questo è vero solo però se comprendiamo che è innanzitutto vero l’esatto contrario: il nome è destino, è abbandono alle forze a noi esterne, è ciò che già c’era prima ancora di abitare il mondo. Nomen omen sostenevano i latini, il nome è un presagio, una strada scritta, però come anche oggi quando utilizziamo questa formula latina qui ci si riferisce a chi ha nome e cognome tali da sembrare cuciti addosso alla persona. Invece il destino del nome è qualcosa che coinvolge tutti: perimetro all’interno del quale ci è stato imposto di vivere, cosa che è stata scelta per noi ma a prescindere da noi (e perciò stesso così strettamente legato al rito del battesimo), il nome è paradossalmente anche ciò che più ci è proprio, la nostra presentazione nel consorzio umano. “Tu sei X”: è un imperativo, ma anche una sentenza, o una dimostrazione di stima. Una cosa è certa: il nome intende normalizzare e stabilizzare l’essere di un esistente, bloccare il divenire, sintetizzare la complessità. Questo riguarda il nome, ma riguarda anche il capitalismo contemporaneo; ed entrambe riguardano le forze mitiche del destino e della violenza.

vasetti di Nutella

In un saggio dedicato alle Affinità elettive di Goethe, Walter Benjamin, attraverso un’indagine filosofica sofisticata e profonda, metteva in luce una polarità che attraversa l’intero romanzo: da un lato le forze mitiche, incarnate dalle vicende e dai personaggi del romanzo, dall’altra invece l’orizzonte della libertà, dell’amore autentico, della scelta che invece appartengono ai personaggi di una novella, contenuta nel romanzo stesso e che viene letta dai protagonisti. Nell’ambito delle forze mitiche, e perciò della violenza, vige il principio di identità, l’eterno ritorno dell’identico, e perciò le affinità elettive intese come espressione della scienza naturale, ma anche del diritto, e soprattutto del destino e del carattere. Se i personaggi di questa novella, oltretutto, dialogano spesso, facendo del linguaggio espressione forte della vita autentica, perché non può esservi etica senza linguaggio, i personaggi del romanzo in realtà non parlano molto: Edoardo, Ottilia, Carlotta e Otto, trasportati dalle forze chimiche di attrazione, hanno un destino segnato, e il destino segnato nega qualsiasi possibilità di scelta libera o morale. E mentre i ragazzi protagonisti della novella non hanno nome, loro ce l’hanno eccome: i nomi si fanno ulteriore manifestazione delle forze mitiche e schiaccianti, perché sono simboli di morte, ma soprattutto perché il nome arresta l’essere e impone la direzione al tempo, all’esperienza, alla vita. Avere un nome sembra impedire una scelta etica autentica, il nome è destino; noi, sosteneva Heidegger, nasciamo “già-parlati” o sarebbe meglio dire “già-nominati”, ed è attraverso il nostro nome che, per tutto il corso della nostra esistenza, siamo obbligati ad ammettere di essere sempre e comunque predeterminati da qualcosa di superiore.

Cos’è questo qualcosa di superiore? Questa forza demonica che veicola l’esistenza fin da prima della nostra venuta sulla terra? Sono i genitori, certo, ma può essere anche la tradizione, la cultura, in senso più generale il mondo nel quale ci troviamo gettati; e qual è il mondo nel quale ci si trova gettati oggi? Ce lo dicono i vasetti della Nutella e le bottiglie di Coca Cola: è il mondo del mercato globale, il mondo del consumo e della produzione multinazionale. La forza demonica che predetermina ad ogni nostro passo il nostro orizzonte esperienziale, il nostro immaginario e le modalità di relazione interpersonale, il nostro assetto cognitivo e la nostra personalità, il nostro carattere e perciò stesso il nostro destino, questa forza demonica è il mercato. È il mercato a conoscerci bene da sempre, fin da prima che nascessimo; è il mercato ad averci allevato e cresciuto, ad averci trasmesso determinati valori e idee. Siamo cresciuti nell’alveo del mercato, così come nell’alveo del nome: per questo le due forze sono così vicine, quasi sovrapponibili, perché espressione di una medesima violenza. La violenza dell’odierno mercato globalizzato è la stessa violenza della natura, la stessa del destino, la stessa del nome come sigillo sull’esistenza. Il nome attesta che c’era già un mondo prima di noi, o meglio ancora che ovunque saremo, qualsiasi cosa faremo, qualcosa ci anticiperà, segnando il nostro passo: possiamo avere un nomignolo, o persino odiarlo, il nostro nome, ma lui resterà sempre lì come esperienza determinante, e la stessa cosa è per il mercato.

bottiglie di Coca Cola con i nomi

Possiamo infatti non comprare la Nutella, ma che palese ingenuità! L’acquisto ed il consumo effettivo sono solo l’ultimo e il meno significativo dei gesti: quando si diffonde il consumo, l’immaginario ha già digerito e assimilato molto più di quanto farà poi lo stomaco! E il nostro stesso eventuale spirito di repulsione o opposizione ai brand, cos’è se non un ulteriore risultato dialettico del medesimo orizzonte già da sempre segnato attorno a noi? La forza demonica del mercato perciò è la stessa di quella del nome, e a questo punto non appare più anomalo che due dei maggiori marchi multinazionali abbiano avuto tale brillante intuizione.

Ma allora – a questo punto – come sottrarsi alle forze demoniche, come recuperare un’autenticità etica, ammesso che sia possibile? Nel Doctor Faustus, Thomas Mann coglie in maniera sagace il legame tra demonismo e nome: Adrian Leverkühn, come sappiamo, stabilisce un patto col diavolo per diventare un genio e lasciare un segno profondo nella storia della musica. Per fare questo, gli viene chiesta l’anima, l’amore, o meglio gli sarà impedito di amare chiunque; ogni persona per la quale dimostrerà un qualche affetto è condannata a morire. Il destino drammatico di Leverkühn  è segnato: attorno a lui amici, parenti, anche il piccolo Echo, a cui era tanto affezionato, sono tutti condannati a morire di morte spesso violenta e dolorosa. Questi eventi sono narrati in prima persona tale Serenus Zeitblom, amico di Adrian fin dall’adolescenza; Serenus, che possiede una stima incondizionata per l’amico musicista, ha sempre avuto un cruccio per tutta la vita, ovvero quello di non essere mai stato chiamato da lui per nome. Adrian ha sempre dato a Serenus del “voi”, per quanto l’affetto tra i due fosse chiaro e i due si potessero ritenere ottimi amici. Ebbene, è quel distacco rappresentato dal rifiuto della chiamata per nome a diventare la salvezza di Serenus, lui potrà sopravvivere e raccontare la storia di Adrian proprio perché non verrà schiacciato dalle forze mitico-demoniche del nome.

Il mercato stringe ulteriormente la cinghia attorno all’esistente, compie un ulteriore passo, perché ora ci chiama per nome e ci condanna per via quasi definitiva. Perché “quasi”? Il quasi è lo spazio infinito della speranza, ancor più infinito quanto quello stesso spazio sembra dissolversi. Torniamo a Benjamin ed al suo saggio sulle Affinità elettive; segnata quella polarità tra destino e libertà, tra forze mitiche e forze etiche, l’interrogativo che potremmo porci è: a quale dei due corni della dialettica apparterebbe la speranza? Si potrebbe essere tentati di rispondere al secondo corno, ovvero a quello della libertà e della scelta autentica, ma in quel caso sbaglieremmo: la speranza è il risvolto negativo della dimensione mitica.

In fondo al destino si cela la speranza, perché ci è concesso sperare solo per chi non ha più speranza. Così si chiude il saggio di Benjamin, infatti: è dove la speranza sembra essersi dissolta che dimora la speranza stessa, ovvero nel fondo della disperazione e della disfatta. Perciò anche noi, nati, cresciuti e allevati all’interno del recinto del mercato consumista globalizzato, proprio noi che siamo stati nominati da quella forza demonica che ci ha anticipato passo dopo passo, che ha guidato il nostro agire anche quando eravamo convinti del contrario; proprio noi che dobbiamo più all’immaginario tardo capitalista la nostra esperienza e il nostro pensiero che ai nostri cari e ai nostri affetti; noi, anticipati dal pensiero e dal desiderio che arrivano prima ancora di noi stessi, e a nostra volta anticipati dal nome e costretti ad esso, dove pensiero, desiderio e nome non sono che forze demoniche integrate nel grande leviatano del capitalismo contemporaneo… ebbene tuttavia a noi proprio a questo punto ci è concesso sperare, sperare di una speranza disperata, perché si tratterebbe di sperare di uscire fuori da noi stessi, di non essere più noi, in fondo di non essere più Alessandro, Lucia, Giovanni, Federica…

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