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Percorsi

Sotto la pioggia di Nha Trang

La risalita prosegue. Abbandonato il sole di Mui Ne nel tardo pomeriggio, con il solito bus di linea proveniente da Saigon e diretto a Hanoi, arriviamo a Nha Trang quando ormai la città è plongée in un’oscurità onirica, irreale. E torrenziale, anche, giacché la pioggia che ci accoglie pare provenire da nulle part e manifestarsi al suolo come un flagello divino senza tempo, il cui unico scopo è quello di punire, di ira irabonda, chiunque si trovi in città. Di quali peccati siamo stati tutti accusati, non saprei.

sleeping bus

Nonostante la distanza tra Mui Ne e Nha Trang sia di 250 chilometri circa, impieghiamo oltre sei ore per coprirla. Il vantaggio, se è lecito definirlo tale, ri-siede nell’ingegnosa distribuzione dei posti: non in due file, con due sedili per lato e un corridoio centrale, ma in tre file, con due navate che distanziano tra loro delle specie di micro-sarcofaghi soppalcati, dentro i quali gli esili vietnamiti (e il sottoscritto) riescono agilmente a distendersi, mentre stranieri dalla corporatura ben più possente sono obbligati a contorcersi in posizioni innaturali, come unti dalla malasorte di qualche contrappasso dantesco. Potrei anche sospettare che così incastonati saremmo in grado di giungere fino in Russia, ma questo sarebbe un pensiero fin troppo disonesto per chiunque sia più alto di un metro e settanta. Eppure, a gettarci tutti dentro le stesso girone di sofferenze e indotti patimenti, giovani e anziani, uomini e donne senza distinzione, è un semplice fattore: l’inoperabilità della toilette. Sei ore senza break e senza minzione alcuna, putain.

Al finestrino si susseguono paesaggi prima aridi e vagamente desertici, poi rigogliosi e tropicalmente verdeggianti, infine rocciosi e montagnosi, le cui linee puntute sono spietatamente squartate dalle nubi sempre più corpose che si affastellano sull’anima errabonda dei veicoli; nubi la cui unica funzione pare quella di essere un minaccioso ammonimento meteorologico ai viandanti diretti al nord. Mezzi di trasporto d’ogni natura popolano una strada inesistente; una strada, meglio, che si organizza nell’atto stesso della guida. Poi, oltre questo ammasso di ferraglie, bestie e uomini in perenne movimento, non si scorgono che i segni di una povertà bucolica. E non so, o forse non voglio sapere, se questi scenari, questa irta strada il cui tragitto pare mozzato ad ogni curva, ad ogni metro, dall’imperscrutabilità del dopo, del post-tornante, per poi riapparire qualche metro più innanzi e infine scomparire, desolatamente, tra i saliscendi dell’orizzonte; non so se tutto questo sia da considerarsi idillio, o chissà cos’altro. Agli occhi di chi, in fondo, bisognerebbe chiedersi; for whom is this idilliac? Di certo l’idea e la dimensione del viaggio assumono tonalità visive, uditive, e olfattive del tutto nuove. E questo, per ora, mi basta. Sicché, continuo a tenere gli occhi fissi sul vetro, mentre intorno molti compagni leggono – libri di ogni sorta: consunti, usurati, vissuti, tascabili, voluminosi, di narrativa, storia, fantascienza – altri ascoltano musica, e altri ancora dormono. Ma nessuno scrive, giacché l’andatura a singhiozzo non farebbe – come ho appurato – che riprodurre sulla pagina una mimetica, ma inintelligibile, sismografia del percorso. Scambio poche parole in francese e in inglese con le persone a me più prossime, sopra, sotto e accanto al mio micro-sarcofago. Finché l’insostenibile spossatezza del viaggio non affossa il bus in un mutismo catacombale.

Infine arriviamo a Nha Trang. La Miami del Vietnam – così ribattezzata dai marines americani che solevano spenderci i loro congedi – rifrange le sue luci decomposte un po’ dovunque: sul selciato fradicio, sui neon delle insegne, sulle lenti degli occhiali. Il bus accosta ai lati di una larga arteria del centro, su cui scorre un traffico modesto, forse a causa del maltempo. Per molti di noi, Nha Trang è la destinazione di giornata. Quando scendiamo dal bus, la pioggia è così intensa che non possiamo fare altro che tenere il capo chino, cercare nel vano bagagli la rispettiva dose di supplizi – inconsapevoli o volutamente refrattari a qualsiasi discussione, a qualsiasi contatto, saluto, o cenno di esistenza solidale – per poi disperdersi anonimi, solerti e affamati – certamente più di un shelter che non di nourriture – come topi che abbandonano il loro rifugio ad un decadente destino. Maledetta pioggia; pioggia invereconda.

Defilatomi dalla ressa, senza troppi tentennamenti, né sopralluoghi, mi accordo per una stanza al quarto piano di un building non distante dal punto in cui il bus ci ha vomitato dalle sue viscere, lasciandoci ad annaspare nell’affanno umido della sera. Il costo è quattro dollari a notte. Tuong, il gestore della pensione, che abita ai piani inferiori, è un tipetto simpatico e affabile, dalla risata certo facile – come ho modo di constatare durante il breve tragitto che percorriamo insieme – e altrettanto facilmente incline ad abbracciare e accogliere con nervosi colpetti sulla spalla chiunque gli capiti dinnanzi. In effetti, appena dopo aver recuperato lo zaino dal bus, lo scorgo aprirsi un pertugio tra la concorrenza monolitica degli altri affittuari, prendermi sotto il suo ombrello arancione – indossando lui un’enorme palandrana di plastica – e irretirmi con una parlantina accelerata. Distolto da ogni razionale valutazione, con la pioggia che ci martella sul capo, accetto indistintamente il suo “invito”.

Nah Trang by night

La stanza è piuttosto piccola e decisamente spoglia: letto singolo, lavandino ad angolo, finestra sbarrata overlooking a brick wall e alle pareti null’altro che una carta giallognola il cui pretesto dovrebbe essere quello, presumo, di occultare intonaci ancor più sgraziati. Il ventilatore agita svogliatamente le proprie pale sicché l’afrore stantio che gravita nell’afa serale non ne viene lontanamente intaccato. Mi si impregna, anzi, zelante negli abiti, confondendosi infine nei marasmi non più appetibili che mi porto appresso dal viaggio. I need a shower.

Dopo essermi rinfrescato, anche la stanza non appare più così sconfortevole. Mi abbandono sul letto ad una blanda scrittura fatta di libere associazioni riguardo al viaggio appena compiuto: il bus a due navate, gli scenari outside, l’avvento quasi istantaneo della pioggia una volta giunti a Nah Trang. E la realizzazione, non senza disappunto, che l’aver concluso The Quiet American mi ha lasciato senza alcuna lettura. Avvertendo il cessare della pioggia, giacché la grondaia del muro di fronte non esonda più acqua, decido di uscire per una cena veloce e per cercare un degno seguito alla lucida disillusione amorosa tra Fowler e Phuong.

Nonostante Nha Trang abbia tutta l’aria di un centro urbano sulla via della gentrificazione, avvilito, più di altri, da una crescita edilizia sconsiderata e disorganica, non mi restituisce certo la stessa impressione di anomia che avevo avvertito a Saigon. Moderni hotels hanno soppiantato, è vero, palme e sterrato, soprattutto in prossimità del mare, e la ricchezza a buon mercato ha saccheggiato il vuoto naturale della costa tutta, eppure è ancora possibile percorrere le strade dell’interno della città circondati da una dimenticata rilassatezza, quasi un certo agio mentale oserei dire, che consente, per un istante, di non curarsi dei destini della propria vita, senza che per questo si debba rischiare la sottomissione a qualche motociclo. Semmai si rischia lo scontro con qualche vacca o qualche asino che vengono menati verso l’entroterra da consunti volti contadini; o l’incontro con la corsa mozzafiato di alcuni ragazzini non ancora pietrificati dall’ipnosi televisiva. Di nuovo, è un indecifrabile tensione a percorrere la vita di cui sono testimone e in cui mi immergo, indecifrabile proprio perché frammentariamente composta di scorci e tasselli non solo antitetici – parossistici – ma che provengono e a appartengono a realtà che sono, ancora, distinte e che in città vengono, tout simplement, giustapposte. È questo il Vietnam d’aujourdhui.

restaurant

Per cenare propendo per il dehors di un ristorante senza pretese, da cui prorompe il canto burlesco di una donna d’esperienza dalle forme piuttosto matronesche. Certamente occidentali. Con il mare dinnanzi (ancora scosso dal maltempo), insieme all’eco di quella silhouette abbondante che interviene sullo sfondo di ogni portata, mi pare di comparire sulla scena di un set felliniano, là dove la riviera romagnola, al calar dell’estate, si satura di un’agrodolce saudade. E per contrastare l’aria fredda della sera, una sigaretta post-cena si dimostra ancor più piacevole. And I breathe, just breathe.

Sulla via del ritorno sosto senza impegno tra alcune bancarelle, finché la mia attenzione non è catturata da un piccolo chiosco di libri. Le opere, in varie lingue, se ne stanno silenti una accanto all’altra, tutte impilate secondo il rigore della più lucida casualità. Mi osservano, mi strizzano l’occhio, credo io, e mostrano le loro virtù attraverso la costina, come a domandare di essere portate via, di essere salvate e pressate dentro qualche borsa dagli imperscrutabili orizzonti. Nella loro diversità mi paiono tutte uguali. La scelta è ardua, sebbene una buona parte dei libri venga scartata a priori a causa del peso o delle dimensioni. Poi mi accorgo di un romanzo i cui colori di copertina sono sfumati e incerti come quelli del fumo di pipa. Incerti, ma a loro modo suadenti proprio perché sembrano celare i segreti di cui le pagine custodiscono la chiave. Un corpo di donna che suggerisce un imminente “da farsi” mi corteggia l’intelletto. Ma è il titolo – così prossimo al mio percorso – che sbriglia definitivamente la premura della scelta. Tanto mi basta, insomma, per portarmi in stanza Tropic of Cancer, di Henry Miller.

Complice o giudice imparziale che sia, la pioggia che ricomincia a cadere appena dopo il mio rientro – una pioggia violenta, disperata, non certo catartica, ma piuttosto annichilente, una pioggia che affossa l’uomo della strada ad ogni passo, che lo insudicia e lo costringe a piegarsi, contorcersi, correre – continua per tutto il giorno seguente, ragion per cui, la mattina, osservando ipnotizzato il rigetto singhiozzante che schiuma dalla grondaia di fronte, decido di rimanere in stanza a leggere e scrivere. Écrire et lire. In attesa di future schiarite del cielo. Meritato rendez-vous con l’ozio del viaggio. La stanza, pur modesta, mi accoglie al suo meglio, dimostrandosi calda e tranquilla (un muro come vicino può talvolta rivelarsi illuminante). Sistemo gli appunti di viaggio, riscrivo, annoto, correggo, mi sforzo di ricordare nomi e circostanze, ma in fondo non si tratta di una tensione troppo dolorosa giacche’ i souvenirs sono ancora piuttosto vividi, corposi; le parole, i suoni, i gusti e gli odori riecheggiano vibranti nei miei organi interni – cuore, fegato, polmoni e che altro – e questi congiurano all’unisono, come metronomi, nel restituirmi le immagini che cerco. Riguardo le foto, ne cancello alcune, mi soffermo su molte di esse, senza impazienza. Non devono rispondermi, non ho domande per loro, non ora, lascio che mi parlino spontaneamente, trascinandosi appresso le fila di un racconto che pare essersi interrotto appena appena per il caffè. Poi leggo. Leggo tanto. And now, please, read along with me:

copertina Tropic of Cancer

“If there were a man who dared to say all that he thought of this world there would not be left him a square foot of ground to stand on [. . .]If now and then we encounter pages that explode, pages that wound and sear, that wring groans and tears and curses, know that they come from a man with his back up, a man whose only defenses left are his words and his words are always stronger than the lying, crushing weight of the world, stronger than all the racks and wheels which the cowardly invent to crush out the miracle of personality. If any man ever dared to translate all that is in his heart, to put down what is really his experience, what is truly his truth, I think then the world would go to smash, that it would be blown to smithereens and no god, no accident, no will could ever again assemble the pieces, the atoms the indestructible elements that have gone to make up the world.”

Rialzando gli occhi dalle pagine del libro, i miei pensieri rimangono immobili, per un istante. La stanza è rischiarata ormai solo dalla luce artificiale dell’abat-jour. Fuori è di nuovo notte. Un altro giorno è stato risucchiato nell’eternità. E in questa spelonca platonica dalle ombre giallognole e stantie che mi costano appena quattro dollari a notte, non posso che domandare al testo – e con lui al muro oltre la finestra e alla pioggia che ne ha lava incessantemente i mattoni purpurei quasi a volerne cancellare un misterioso peccato originale; peccato di verità materiale o forse solo di storpiata vanità – mi chiedo dunque come e perché le opere di Miller siano sovente dismesse e bollate come “erotic stories”, e con “erotic” intendo “erotique” nel senso più zozzo e francese del termine. In fondo, c’è tanto sesso nelle opere di Miller quanto intenso è il suo richiamo carnale alla vita, ai sensi, all’esistenza vissuta, prima ancora che raccontata, e non certo vissuta per essere raccontata, ma vissuta e basta. Traversée. Le parole, per Miller, risultano spesso insufficienti allo scopo che si prefiggono, ovvero quello di provocare, scuotere, mépriser la banalité du quotidien, ed è per questo, innanzitutto, che ridondano rozzezza da ogni margine della pagina. He attempts to rescue the words, their meaning e sterilizzarne l’urgenza e la necessità di cui sono portatrici, generalizzandole alla stregua di una giostra pornografica, sarebbe un delitto, poiché significherebbe annichilirne il grido, il lascito, in nome di un miope puritanesimo letterario. Dopodiché, l’estetica della rappresentazione bohémienne del mondo che ne deriva è tutt’altra cosa. Ma talvolta è cruciale, come un appagamento onanistico, lasciare che le parole rotolino libere nella mente, limitando al minimo la resistenza della ragione su di esse e contro di esse. Lasciare, dunque, che le parole lavino via i pre-giudizi serbati e difesi con licenziosa fobia dentro ognuno di noi. Lasciare, ovvero, che le parole si infiltrino là dove siamo più vulnerabili. Come la pioggia, oltre i vestiti, fin sotto la pelle. Non dico nulla di nuovo, in fondo. Ora la grondaia non geme più, realizzo. Ha smesso di piovere, finalmente. Time to get out again per sfamare il corpo oltre che lo spirito.

Prima di uscire incontro Tuong sulle scale e gli chiedo se sia possibile organizzare un giro della città per il giorno seguente. “Sure, Sure, my friend!”, mi dice picchiettandomi la spalla quasi a voler attestare della mia esistenza terrena. “What about scooter?”, “No, no, I’d prefer not, in case it’s raining again tomorrow”. “Ok, car, then…I will drive you around”, m dice soddisfatto e con un sorriso da consumato uomo marketing. “How much?”, mi premuro di domandare. Si fa pensoso un istante; ma è un istante teatrale, totalmente artificioso. “Only 8 dollars all day, ok? ok?”. È quasi il costo che ho pagato a Saigon per la prima escursione. Tuong sembra impaziente di avere una risposta. Valuto le alternative inesistenti che ho, se si esclude il cercare un’agenzia turistica in città a quest’ora della sera. Sicché, dissimulando a mia volta una riflessione tout à fait théâtrale, rispondo: “That’s fine, see you tomorrow”. “Ok, ok, tomorrow, at 8. I’ll be your guide!”. Mi fa lui compiaciuto. E lo vedo sparire nella sua micro-cucina.

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