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Brand content e web / 1: la brand utility

Questo articolo indaga le nuove e ormai consolidate forme di visibilità e costruzione d’identità che i brand attivano in epoca digitale. Le specificità del mezzo digitale offrono infatti al brand content nuove possibilità di sviluppo, finalizzate alla condivisione e alla propagazione dei contenuti stessi. Se la brand utility da un lato concretizza e rinnova l’immagine di marca impostando con il consumatore una relazione basata sul concetto di utilità,  lo storytelling promuove un’adesione di tipo emozionale, producendo contenuti che esprimono la dimensione mitica e il savoir faire della marca.

Invitations au voyage - Venise, Luis Vuitton, frame

La visibilità è il concetto chiave attorno al quale si sviluppa l’immagine di marca, e le sue potenzialità sono state sensibilimente modificate dal digitale: i social network e i nuovi media richiedono un’attività costante, sono visibili 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. L’affermazione dell’effimero che dilaga nelle performance off media dimostra in realtà il carattere sempre più dominante della durata, della presenza, dell’invasività. L’obiettivo è infatti quello di riverberare gli eventi on-line il più a lungo possibile, ma soprattutto in maniera disseminata e contaminante. Henry Jenkins parla nel suo libro Convergence culture: where old and new media collide di un nuovo tipo di cultura in cui diviene fondamentale la trasversalità dei contenuti mediatici. Tale cultura è costituita da un nuovo flusso di informazioni, che si propagano su una moltitudine di piattaforme mediatiche, e caratterizzata dal comportamento nomade dei suoi utilizzatori, alla ricerca di ogni tipo di distrazione. L’immagine di marca, assecondando le logiche digital, deve dunque essere coordinata su una molteplicità di supporti, ma non solo. Gli utilizzatori del web sono attivi partecipanti della realizzazione di questo nuovo tipo di comunicazione, le cui regole non sono a tutt’oggi particolarmente chiare. Questo tipo di convergenza, prima di essere determinata dalle tecnologie mediatiche, risiede quindi in un nuovo approccio alla comunicazione, che si situa nella mente dei consumatori e nelle loro interazioni con gli altri attori sociali. Il pubblico, al quale è stato donato un potere importante grazie alle nuove tecnologie, esige di partecipare a questa cultura.

Cercare di soddisfare l’esigenza partecipativa del proprio target è quindi l’obiettivo delle nuove strategie di comunicazione dei brand. Ma cosa si intende per partecipazione? Le marche restano infatti assai gelose della propria identità. Hanno quindi bisogno di un modello partecipativo che non intacchi la loro dimensione valoriale, ma che viva in una zona interstiziale ai confini tra universo di marca e raggio di azione del consumatore/spettatore, dove la partecipazione sia attivata dall’interesse  del consumatore stesso.

Invitations au voyage - Venise, Luis Vuitton, frame

Si potrebbe osservare che i brand hanno da sempre cercato di fidelizzare i propri clienti attraverso strategie di valorizzazione ed interattività: è proprio così. Oggi possiamo affermare che le nuove tecnologie costituiscono per le marche al contempo una sfida e un nuovo potenziale di visibilità: in questa dinamica di cui interazione, trasparenza e condivisione sono gli elementi chiave, ciò che i brand cercano di proporre al consumatore/spettatore è una sorta di “riappropriazione” dell’universo di marca.

In realtà la riappropriazione è solo ipotetica, poiché il margine di manovra, gli obiettivi e i termini dell’interazione sono sempre definiti dal brand stesso.

Brand utility: verso una riappropriazione (fittizia) dell’universo di marca

Sempre più spesso si sente parlare oggi della brand utility come dell’orizzonte che le marche si fissano per costruire una relazione partecipativa con il potenziale consumatore/spettatore. Questo significa che la marca assetta la propria competenza sulla modalità del poter fare. Oggi la marca, attraverso la sua immagine coordinata, pone ai consumatori una domanda: cosa possiamo fare per voi? Il brand si identifica quindi come il mezzo attraverso il quale il consumatore può raggiungere degli obiettivi personali, che possono riguardare la marca anche solo in modo marginale. Anche se il protagonista del discorso è il consumatore, gli obiettivi restano implicitamente fissati dalla marca stessa: questo le permette di non disorganizzare il proprio piano valoriale, pur sviluppando nuove strategie di interazione.

Facciamo un esempio semplice, quello degli Special K di Kellogs, la cui promessa è quella  di far perdere peso mangiando. Special K ha sviluppato My Special K, un supporto di coaching attraverso contenuti web ed applicazioni mobile che permettono di calcolare giornalmente peso e calorie assorbite, di tenere un diario alimentare e dell’attività fisica svolta, nonché di seguire una dieta personale suggerita dagli esperti Kellogg’s.

Start-Stop, applicazione Audi

Se le applicazioni Kellogg’s sono di pertinenza evidente, spesso le strategie possono essere più sottili e permettere di sganciarsi dal contesto marketing, arrivando là dove non ce lo si aspetterebbe e dove le “difese” contro il discorso commerciale sono quindi più basse. Questo è ad esempio il caso di Audi Spagna, che ha creato un’applicazione per mettere in stand-by il telefono quando non viene utilizzato, proprio come le macchine che si spengono al semaforo. L’isotopia semantica è attivata dalla forma dello start, che riprende quella del pulsante sulla Audi.

Lo spazio della brand utility costituisce quindi un interstizio tra marca e consumatore in cui la marca mette il consumatore al centro del proprio discorso, dandogli l’illusione (poiché in realtà è sempre la marca che dispone dei termini per costruire tale zona di interazione, e perché è lei a definirne gli obiettivi) di essere al suo servizio.

Per Brand Utility si intende un’attività, sponsorizzata dalla marca, che dia un servizio concreto all’utente. Online o offline, b2b o b2c.

Henry Jenkins, Convergence culture: where old and new media collide, New York, New York University Press, 2006

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