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Percorsi

Ricovero tra le braccia di Hoi An

A Hoi An scendiamo in tre: io e la coppia irlandese, ovvero gli unici occidentali che erano sul bus. Veniamo depositati ancora una volta lungo la strada, là dove la N1 si adagia in uno slargo che dovrebbe rappresentare un parcheggio – alcune linee a dimostrarlo – e invece è solo un’area rettangolare asfaltata.

Phuoc hotel

La silhouette villaggesca della città ci appare piuttosto distante, sicché, senza tante alternative, decidiamo di metterci subito in cammino. Ben più organizzati del sottoscritto, Simon e Fiona hanno riservato fin dalla partenza da Nha Trang una stanza in un hotel nella old town, quasi dirimpetto al fiume Thu Bon. Quanto al sottoscritto, nulla di nulla lo attende: non una prenotazione, non un letto, non una squallida reception. Dopo quasi un chilometro, le luci parallele di un auto ci vengono incontro: impossibile, nel contrasto abbagliante della notte, capire di chi si tratti. Poi, sopra i fari, a galleggiare nell’oscurità come una segnaletica di salvataggio, leggiamo la scritta TAXI e il sollievo di tutti e tre è tale e immediato – acerbi maratoneti i cui sguardi intravedono infine il traguardo dopo una curva cieca – che le nostre gambe intorpidite dal freddo e da una giornata intera in bus cedono d’un tratto sotto il peso degli zaini. Di procedere oltre non se ne parla. “Where do you want to go?”, chiede l’ometto esile alla guida, la cui barbetta aghiforme mi ricorda vagamente quella di Ho Chi Minh. “Vinh Hung Hotel, please”, dice Simon una volta saliti a bordo. “Reservation?” “Yes, we two have a reservation”, “Ah, good!” dice il sosia di Ho Chi Minh, “because Vinh Hung Hotel is all full, all full!” Ed ecco che soggiornare nella stessa dimora dei comari irlandesi diviene improvvisamente impossibile. “And you? Where do you want to go?” mi sprona allora il grande capo, rivolgendomi un’occhiata paziente attraverso lo specchietto retrovisore. “Well… where you want…” gli dico, “Do you know a cheap place?” Il sosia di Ho Chi Minh si fa pensoso, richiamando per un istante lo sguardo sulla strada, poi esplode ilare: “Sure, sure! My cousin, she has one room… Very good hotel! Very good hotel!” Ah! Ancora e sempre le beneamate relazione famigliari a smuovere destini temporaneamente arenati. O meglio, destini in attesa del destino. Temo un po’ per il prezzo, ma il giorno seguente, controllando sulla guida, scopro che non mi è andata poi così male e certamente sono stato fortunato a non seguire la coppia irlandese, giacché il loro hotel è tra i più costosi della zona. Saluto Simon e Fiona di fronte alla loro destinazione, mentre per me si prospettano ancora alcuni minuti di auto. “It’s not in the old city, but it’s very close”, mi rassicura il tassista, “five minutes…” Annuisco col capo e mi abbandono sul sedile posteriore. Non ho davvero le energie per tessere neppure la più circostanziale delle conversazione, né di domandare alcunché. I’m sorry, dear Ho Chi Minh’s twin, ma ho solo bisogno di dormire ora. Il tragitto in effetti è breve: arrivati davanti a un edificio relativamente moderno e introdotto da una entrata a baldacchino su cui sovrasta la scritta Phuoc An Hotel, il tassista rilascia alcuni colpi di clacson nell’aria. Dopo pochi attimi una gentile ragazzina – avrà sì è no 16 anni – si affaccia all’ingresso: “She is my nephew, Kim-Ly”, dice allora il gran capo lisciandosi la barbetta. “She takes care of you”. E in effetti così è. Entrati nella reception, tutto si dipana affabilmente: prenoto una stanza per due notti, lascio il passaporto e dopo neanche cinque minuti mi ritrovo disteso, infine, sopra un vero materasso. 

Sartoria di Hoi An

Voilà le Vietnam, monsieurs et dames! Beautiful, spectacular Hoi An! Materno borgo dalla materna indulgenza; città mitica, indolente, amabile, per sempre; vicoli in cui vagare e perdersi, ma perdersi solo per finta, in fondo, giacché a casa non ci si perde mai; genti che non demandano nulla e alle quali nulla voglio chiedere, poiché la famigliarità ci è nota e non ha bisogno di alcuna retorica. Hoi An protegge il mio ricovero: ne nutre la dimensione esteriore offrendomi i suoi spazi di paese, i suoi angoli virtuosi, la sua cordialità incondizionata, che io sia straniero o figlio adottivo poco importa; e ne sazia pure lo spazio interiore, più sublime e soggettivo, rigenerando vista, udito, olfatto, gusto, quasi da sensitivo, ma soprattutto la memoria – beata memoria! – ovvero il tempo del ricordo e, per sottrazione, ciò che avevo dimenticato: la necessità del presente. Un lungo, lento presente… ma quanto carnale, finalmente! Eventually, I breathe again. Se solo il respiro avesse un sapore, potrei capire chi sono. C’è un che di placido, in effetti, nello scorrere delle mie giornate a Hoi An. Le visite – alla pagoda di Phac Hat, al ponte coperto giapponese, alla casa di Tan Ky – modellano l’organizzazione temporale del mio soggiorno solo in modo approssimativo; la maggior parte del tempo mi ritrovo – volutamente – libero da qualsiasi costrizione. Assecondo il mio incerto volere ed è sul ritmo del respiro, non sugli orari di apertura e chiusura delle umane faccende, che esso si sintonizza.

Hoi An rappresenta – geograficamente e temporalmente – la mediana del mio viaggio. E non è un caso che sia qui che io ritrovi l’equilibrio smarrito migliaia di chilometri più a sud. Se non fosse per l’impedenza universale che mi sprona innanzi, mi fermerei chissà per quanto. E quanto è duro, alla fine, il distacco: è la lacerazione di chi lascia il calore del domicilio sicuro ben sapendo – serbando malinconicamente questa consapevolezza in valigia – che non troverà posto eguale e che, anzi, ogni chilometro in più non farà che rinforzare la certezza nella quale la saudade si cementa; la saudade per ciò che è rimasto indietro.

Il confine meridionale della città vecchia è marcato dal fiume Thu Bon, il cui tracciato divide la old town dalla new town. Il Thu Bon è cheto in questo periodo dell’anno, quasi inerme per la verità, e le sue torbide acque stagnanti non lasciano presagire la violenza delle inondazione che periodicamente, tra ottobre e novembre, flagellano la città. Il fitto intrecciarsi dei vicoli del centro è a sua volta sincopato, qual e là, da canali minori connessi tra loro da ponti in legno che risalgono al XVI secolo quando cinesi, giapponesi e autoctoni si incontravano qui per contrattare spezie, tessuti, materie prime. È per questo che ribattezzo Hoi An la “little Venice” del sud-est asiatico. Nonostante la presenza di alcuni motorini, il traffico e la modernità non hanno ancora davvero scalfito l’oziosità pedonale del barrio antiguo, la cui aura dalle reminiscenze medievali rimane pressoché immutata da oltre sei secoli a questa parte. Ebbene sì, talvolta il protettorato dell’Unesco si dimostra efficace oltre gli inevitabili svantaggi turistici. Solo una passeggiata nella ciudad nova può riportare in contatto con una chiassosità più moderna e disadorna, fors’anche più gretta, ma non per questo senza fascino. Le due isole che costituiscono la parte nuova di Hoi An, e che sono collegate alla old town da due ponti pedonali, risentono molto meno dell’influenza coloniale francese e quasi per nulla degli incontri sino-giapponesi. Eppure, gli abitanti di questa zona condividono con i loro dirimpettai la medesima inclinazione alle celebrazioni e all’ospitalità transculturale non appena scorgano avventurarsi qualche volto sconosciuto.

Old town

Gli stranieri, tuttavia, non sono molti (e molti meno di quanto la guida mi avesse fatto temere). Mentre passeggio per le vie del centro, affiancato nel mio incedere da schiere di dimore in legno dall’architettura claudicante d’ispirazione francese, claudicante come la loro stessa storia e come il fantasmatico messaggio che mi restituiscono, qui e ora, a ricordami che il peso degli anni ha vinto, infine, (eppure provvisoriamente) sul lavorio del tempo; mentre cammino senza meta, dicevo, mi accorgo di rado della presenza di altri turisti, il cui passo smozzato, come può esserlo solo l’andatura di chi è continuamente sopraffatto dal fascino, si confonde assai bene ora tra la folla del mercato, ora tra i vapori che profondono dall’interno delle osterie. Siamo come ombre dell’aldilà convenute a popolare, con la loro immateriale presenza, un set sonnacchioso al limitare dell’onirico. La nebbia che trasuda dal Thu Bon, il cielo d’un grigio monodimensionale da film in black and white, i rumori smorzati che solfeggiano nell’aria, a mezz’altezza, senza sfociare mai in un cacofonico acuto; tutto questo crea una dimensione senza dimensioni, uno spazio che pare rarefarsi, evaporare, dileguarsi tutt’intorno. Anche la pioggia, pur tenue al mattino, ha cessato prima di mezzodì, lasciando la città in un limbo sospeso, senza sopra né sotto, destra e sinistra, primo piano e sfondo. Lontano dal farmi sentire spesato, tuttavia, tale dimensione instilla in me una certa sicurezza, mi protegge anche, e salvaguarda il mio incedere, nutrendo i miei pensieri di nuove percezioni.

In un bar poco fuori la città vecchia, là dove l’affaccendarsi dei negozianti si fa più discreto, mi concedo una pausa. Si tratta per la precisione di una bistrot-house francese che ho scelto specificamente perché nel suo listino sfoggia la “Larue”, la birra locale anch’essa di derivazione – almeno nominalmente – francofona. All’interno, una decina di tavolini occupano i due lati lunghi del locale, mentre in fondo si trova la cassa con il bancone, e sul retro, a testimoniarlo sono gli aromi di zenzero e coriandolo che ne celano l’entrata, si apre la cucina. Da dietro il bancone si snoda poi una scala che arriva al piano di sopra soppalcato, dove con ogni probabilità sono sistemate le stanze da letto del gestore e di sua moglie e della loro figlia adolescente. La donna, sulla cinquantina, è la vera maitresse di casa: nonostante un portamento disadorno e umile, la sua presenza riempie il locale in maniera inequivocabile, irradiandosi in ogni corner. Le donne vietnamite hanno questo di eccezionale: emanano un’attrazione intrigante che non necessita di trucchi di sorta per essere avvertita. 

Nonostante la porta d’ingresso del bar sia sempre aperta, l’aria all’interno è calda e fumosa; piuttosto nicotinica, direi, giacché diversi habitué, tutti vietnamiti, riempiono il locale, chi giocando a dama, chi sorseggiando il tè, chi semplicemente leggendo il giornale ormai in via di deperimento; ma tutti, s’intende, fumando una sigaretta dietro l’altra. Sembrano qui da sempre, o forse, potrei pensare con smaccato egocentrismo, sono qui per me: mi attendevano per inscenare i loro rituali circadiani. Sarà anche per questo, allora, che tutti paiono circondati da una serenità ineluttabile, come quella che avvertiamo prorompere dalle pagine della grande epica, i cui attori sono protagonisti loro malgrado, ma sempre pronti, necessariamente pronti, a incontrare la vita. Qualunque essa sia.

Birra LarueMi siedo nell’unico tavolino libero. Ad accogliermi nell’attesa dell’ordinazione è da subito un senso di indifferente famigliarità; una sensazione che non richiede alcuna forma di zelante attenzione. Spalle al muro, mi abbandono a una scrittura fluida, facile, sinuosa, come fosse stata covata per giornate intere prima di vedere la luce. Eppure, non è che una scrittura del presente e sul presente. Quando si entra in contatto con luoghi dal romanticismo così discreto, le corde dell’anima vibrano senza resistenza al ritmo alfabetizzante della mano, mentre questa verga i fogli, uno dopo l’altro, murandoli di parole, frasi, interminabili gorgheggi della mente. Osservo questi uomini (mancano le donne, a parte la padrona e la figlia, quasi il bar sia considerato universalmente un luogo di genere), uomini che si accendono per una partita a dama e poi si abbracciano per una mossa decisiva; sorrido loro quando brindano alla paga della giornata, prosciugandola in una birra dopo l’altra, giacché è nel superfluo che si cela l’essenziale. Loro ricambiano sorridendo ed è solo quando non colgono nel miei occhi la loro medesima serenità che una lieve frizione, a contrarne i vertici della bocca, sopraggiunge; una smorfia, una ruga, o forse solo il rispetto per ciò che non comprendono. Quanto è buona la Larue bevuta in compagnia.

Hoi An, la “little Venice” del sud-est asiatico, con il sopraggiungere della notte diviene una “petite Paris”, trasfigurata nelle sue forme dalle centinaia di lanterne che si affacciano dalle sue verande, dai suoi bar, dai suoi ristoranti sul lungofiume, laddove secoli addietro mercanti e pescatori d’ogni provenienza si incontravano per negoziare le rispettive quotidiane esigenze. Le sartorie della città, famose nel Vietnam e in tutto il mondo, sono ancora aperte e all’interno di alcune di esse è possibile scorgere l’abile labor di un artigiano: prende le misure, viviseziona il corpo, ne valuta le proporzioni, contratta il giro di un polsino e la doppia cucitura delle spalle con il cliente. Il corpo si abbandona alla conoscenza del sarto, si mortifica, diviene misure, centimetri, volumi. Impassibile. Finché a lavoro terminato il cliente ritorna n possesso della materia – son corps – che più gli è propria. Quello inscenato dall’artigiano è un rituale talmente oliato che la sua meccanica è scandita da una precisione del tutto subliminale, inconsapevole. Fuori, intanto, l’aria gioviale aiuta ad abbandonare i passi, i pensieri, le emozioni, così da gioire, semplicemente gioire, della calda ospitalità autoctona. Potrei ascoltare per ore il vociare delle persone, nonostante sia un brusio che non comprendo; vorrei tessere canovacci di discorsi creoli, multi-linguistici, con queste genti, e infine incanalare tutti verso il linguaggio universale del cibo. Hoi An è una città che ama, incondizionatamente ama, e per questo si fa amare fin dal primo istante. Goda il viandante di tutto ciò; si sazi del nutrimento insperato e sazi la sua eterna insoddisfazione errante; almeno per qualche ora, per qualche giorno, se non per tutta la vita, sia questo il suo porto sepolto. Poeta moderno in eterno divenire.

Thu Bon by night

È vero, lo ricordo bene, due notti avevo prenotato, inizialmente, a Hoi An. Poi però ho deciso di trattenermi in città un dì in più. E dopo il terzo, ancora un quarto, e poi un quinto. E infine un sesto. Nell’orizzonte quotidiano che scandiva le mie peregrinazioni per il barrio antiguo ogni giorno era sempre l’ultimo. Avrebbe dovuto esserlo, almeno; ogni mattina ne ero convinto: eccomi salutare Kim-Ly – la nipote del tassista – e uscire dal portone del Phuoc An Hotel; nessun itinerario in testa, nessuna escursione programmata. Solo il bisogno di camminare senza briglie. Tanto sapevo che il giorno seguente avrei ripreso il viaggio verso nord. This was my plan. Eppure, eppure… Ecco che ogni sera a ripetersi è una speculare situazione di fronte al bancone della reception: “Kim-Ly, please, I would like to book another night, if possible”. E un sorriso solare mi sussurra che è ancora possibile. Hoi An, la sua storia, e la mia storia, sta tutta in questo ciclico procrastinare. Questo è l’incantesimo che mi ha rapito.

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