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Musica

Per un ritratto di Maurice Ravel: tempo e memoria

Maurice RavelIn alcuni articoli per la rivista musicale Nomos Alpha, abbiamo analizzato due opere di Maurice Ravel che segnano due momenti particolari della sua biografia: il Concerto in sol per la mano sinistra e il Tombeau de Couperin. In questo saggio cercheremo di approfondire un commento del musicologo Enzo Restagno a proposito di quest’ultima composizione. Restagno scrive: “Il Tombeau di Ravel è dominato dall’idea molto barocca del labirinto, un labirinto di memorie nel quale si vorrebbe entrare e non più uscire. Da queste intenzioni nasce l’opera di Ravel in cui più intensamente agisce la volontà di sublimazione, ovvero l’intenzione di trascendere il dolore e la solitudine collocando le proprie memorie in una dimensione calma e lontana ove regna incontrastata la perfezione”[1]. Si tratta, dice ancora Restagno, di un “tempo bloccato” che non passa anche se trascorre, di un’altra esperienza del tempo rispetto al tempo ordinario. Ma chiediamoci, a questo punto, se si tratta davvero di qualcosa di così diverso da quanto ci suggerisce, in generale, la musica. Al di là dei mezzi utilizzati da Ravel – vale a dire prescindendo dalla tecnica sopraffina con cui è riuscito a integrare il passato e il presente nella forma del Tombeau -, non si realizza proprio in quest’idea una caratteristica essenziale della musica? L’esperienza dell’ascolto non trova qui una delle sue maggiori aspettative? Che cos’è il tempo musicale? Questo genere di interrogativi sono stati affrontati da alcuni filosofi come, per esempio, Jeanne Hersch che nel saggio Musica e tempo vissuto scrive: “La durata del concerto è stranamente ambigua. In un certo senso il concerto dura soltanto due ore. Posso fissare un appuntamento con qualcuno all’uscita, qualcuno verrà a prendermi alle dieci, e da quel momento ritroverò il tempo pratico, ordinario, quello che ho vissuto per tutta la giornata, prima del concerto. Esiste dunque un «prima del concerto» e un «dopo il concerto». Ma il concerto stesso non implica un presente vero e proprio, in cui si possa prendere una decisione o compiere un’azione. Ed è per questo che, rispetto a esso, il «prima» non è un passato e il «dopo» non è un futuro”[2]. Seguendo da vicino il suo maestro Bergson, Jeanne Hersch osserva che il tempo vissuto del concerto appartiene alla coscienza soggettiva del tempo. Ma per quanto concerne la composizione musicale è così differente? Può essere interessante notare che se la musica è tempo organizzato, la temporalità di un brano come il Tombeau de Couperin si apre ad un rapporto con la storia e la memoria che differisce sia da un’opera d’avanguardia che da un brano “neo classico”. E’ differente da un’opera d’avanguardia perché non fa del progresso la sua meta assoluta, cancellando i legami con il sistema tonale, dunque non si avvale del concetto di superamento – di matrice hegeliana, ma non è questo il luogo per approfondire- così importante per l’affermazione delle avanguardie. Ma l’atteggiamento del compositore francese rimane lontano anche dal neoclassicismo poiché non si trattava più, per lui, di eludere l’enfasi romantica né di combattere l’influenza di Wagner nell’ambito della cultura europea: sono state queste, in buona sostanza, le motivazioni della musica del Gruppo dei Sei (ne abbiamo parlato in un altro articolo) e, almeno in parte, di Stravinskij. Si potrebbe ipotizzare che quando Ravel mette mano al Tombeau la guerra aveva già creato le condizioni per un orientamento diverso rispetto al materiale sonoro, in un certo senso aveva sospeso la Storia rendendo problematica l’idea stessa di avanguardia. Ciò che ascoltiamo nel Tombeau non è un elogio della classicità, dunque, ma il risultato di una mente musicale al lavoro su forme sottratte alla loro epoca storica per essere immerse in un discorso a metà strada tra la reminiscenza e l’invenzione.

Maurice RavelA proposito della tecnica di Ravel, Restagno osserva che “l’uso di armonie modaleggianti diviene uno stratagemma per sottrarsi alla dialettica emotivamente troppo esplicita contenuta nei passaggi da una tonalità all’altra. E per contenere le emozioni troppo vive l’autore del Tombeau si concentra sulle tecniche contrappuntistiche e sull’osservanza minuziosa dei disegni ritmici delle danze antiche”[3]. Per lavorare intorno a idee così remote Ravel ha dovuto impegnare tutte le risorse del suo stile, ma non c’è stile senza una certa conoscenza della storia musicale. Infatti, come ha scritto Susan Sontag, “nella nostra percezione dello stile di una determinata opera d’arte confluisce sempre la consapevolezza della storicità dell’opera, del suo posto in una cronologia. Non solo, ma la stessa visibilità degli stili è una conseguenza della coscienza storica. Se nessuno facesse esperimenti sulle norme artistiche precedenti, o se nessuno cercasse di staccarsene, non potremmo mai riconoscere le linee di un nuovo stile. Per spingerci ancora più in là: l’idea stessa di stile deve essere affrontata storicamente”[4]. Sontag si avvicina ancora di più alla questione quando aggiunge che “se l’opera è riuscita ed è in grado di stabilire una comunicazione con noi, facciamo esperienza soltanto dell’individualità e della contingenza dello stile”[5]. Eppure queste considerazioni non riescono a rendere conto dell’aspetto psicologico- altrettanto importante, credo, di certo più immediato- che circonda le scelte stilistiche di un autore. Per cogliere davvero la peculiare posizione storica e culturale di Maurice Ravel si può essere tentati di ricorrere non tanto ai compositori quanto agli scrittori francesi, per esempio a Marcel Proust. Soltanto quando si è già perso tutto si può, forse, risalire la corrente del tempo e dare al tempo la sua giusta misura, come fece Proust nel celebre “tempo ritrovato” che chiude l’architettura mobile della Recherche.

Note:

[1] Cfr. E. Restagno: Ravel e l’anima delle cose, ed. Il Saggiatore 2009, p. 332.

[2] Cfr. J. Hersch: Musica e tempo vissuto in Tempo e musica, ed. Baldini Castoldi, 2009, pp. 65-66.

[3] Cfr. E. Restagno: op. cit., p. 333.

[4] Cfr. S. Sontag: Sullo stile in Contro l’interpretazione, ed. Mondadori, 1998, p. 41.

[5] Cfr. S. Sontag: op. cit., p. 57.

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