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Cinema

American Sniper

L'ultima guerra di Clint

“Non andatelo a vedere. Due ore e mezza di prosopopea patriottica con lui che spara e ammazza, spara e ammazza, alla fine delle quali il messaggio è che l’America difende l’occidente dal terrorismo e che è giusto abituare i bambini a usare le armi. Non andateci!”

 

pravato-01 Questo, a grandi linee, il giudizio su American Sniper di un’amica, spiattellato a tradimento il giorno precedente a quello in cui avevo deciso di recarmi a vedere il film, dopo che per quasi due settimane mi ero faticosamente tenuta alla larga da opinioni e commenti a riguardo.
Data la mia predilezione per i film di guerra (mi fanno sempre piangere tanto!) e il mio debole per Clint Eastwood, non sono stata minimamente scalfita nel mio proposito, ma confesso di aver abbassato le aspettative.

Uscita dalla sala, non ho gridato al capolavoro come dopo la visione di Jersey Boys o di Gran Torino (al termine della proiezione di Million Dollar Baby, come facilmente immaginabile, non ero in condizioni di fiatare), ma ero comunque nello stato d’animo di chi ha appena visto un ottimo film. E non ho visto gran che di ciò che ha visto la mia amica.

La trama, tratta dall’autobiografia del protagonista, racconta la breve vita di Chris Kyle, primogenito di una famiglia texana che cresce nella convinzione di dover proteggere il prossimo, dapprima il fratellino più debole, poi il suo paese e i suoi commilitoni.
Già trentenne, si arruola nell’esercito e, durante il periodo dell’addestramento nel corpo dei Navy SEAL (sorta di incursori dell’esercito statunitense, noti per essere soggetti a un addestramento molto duro e selettivo), conosce la futura moglie Taya, dalla quale avrà due figli.

Di ritorno dalle prime missioni in Iraq, “La Leggenda” (così viene presto soprannominato dagli altri militari) fatica a reintegrarsi nella vita quotidiana, che trova sciocca e vana, e manifesta il disturbo post-traumatico da stress. Dopo le ultime due missioni, durante le quali restano uccisi due suoi compagni ed egli stesso rischia la vita più di quanto non l’avesse già rischiata, si affida all’aiuto di uno psichiatra, al quale confessa di non essere tormentato da ciò che ha fatto in guerra, bensì da ciò che non ha potuto fare.

Chris trova, allora, la serenità nell’accompagnare alcuni veterani, gravemente mutilati o paralizzati, nel loro percorso di riabilitazione, ascoltando le loro storie e portandoli a esercitarsi a sparare, per permettere loro di ritrovare un certo qual senso di utilità.

Viene ucciso il 2 febbraio del 2013 proprio da uno di questi veterani, e la pellicola si chiude con le immagini reali del suo lungo corteo funebre (più di trecento chilometri bordati di spettatori, fra la sua cittadina di residenza, Midlothian, e la capitale del Texas, Austin) e della cerimonia di commemorazione al Cowboys Stadium di Arlington.

La figura del “più letale cecchino americano” è controversa, ma Clint Eastwood – non sappiamo se per convinzione personale (il regista ha sostenuto molte campagne repubblicane ed è favorevole al porto d’armi), per riverenza verso un defunto o, più probabilmente, per fedeltà al testo da cui la sceneggiatura è stata tratta – la dipinge in una luce complessivamente positiva, giustificando, già nelle sequenze iniziali, gli aspetti meno nobili del suo carattere con la particolare situazione sociale in cui è cresciuto, mostrandocelo tanto deciso e convinto delle proprie azioni quanto di fatto impossibilitato dal suo stesso retroterra culturale a compiere scelte diverse.

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La regia di Eastwood riesce, però, in un’impresa eccezionale, una cosa che non accade quasi mai al cinema e che – se accade – altrove è percepito come una sorta di errore, una lacuna in qualche aspetto della realizzazione: Chris Kyle non è un personaggio al quale ci si affeziona.
Per decenni i filmologi si sono interrogati sulle cause che fanno scattare i meccanismi di immedesimazione e proiezione nello spettatore, quei processi di percezione e attribuzione di sentimenti ai personaggi dello schermo che fanno sentire lo spettatore partecipe della vicenda e lo fanno identificare di volta in volta con i vari personaggi e spesso parteggiare per l’eroe. Eastwood descrive psicologicamente Kyle in modo così efficace da permettere allo spettatore di sentirlo costantemente “altro da sé”.

Si può provare molta pena per un giovane uomo il cui cervello è stato lavato dalla società della provincia texana molto prima che dai reparti speciali dell’esercito, educato non senza violenza e fatto sentire, sin dall’età più tenera, responsabile del bene e del male che lo circondavano, ma non immedesimazione. È più facile riconoscersi in un qualsiasi eroe dei fumetti, o perfino in un “super-cattivo”, che nel protagonista di American Sniper.
Chris Kyle conosce il proprio dovere e sa che la cosa giusta è compierlo, e il suo travaglio nasce dal non poterlo compiere mai del tutto.

Non per questo Kyle non comprende l’orrore della sua missione. La sua prima vittima è un ragazzino nemmeno adolescente, la cui uccisione lo turba molto. A tratti sembra addolorato per il fatto che sia il solo modo di difendere il proprio paese dai terroristi ed è sollevato quando non deve uccidere il bambino che si era faticosamente messo in spalla un lanciarazzi, ma non mette in discussione il proprio ruolo o la necessità della sua figura. Non ha dubbi su ciò che deve fare e sul fatto che sia inevitabile ed è fiero di essere utile.

Altre pecche di carattere cinematografico della pellicola possono essere viste attraverso la lente della veridicità.
Il personaggio della moglie Taya, ad esempio, non è particolarmente approfondito. Appare subito come una ragazza sveglia, che non si lascia abbindolare facilmente dai militari che cercano di rimorchiarla al bar, e vagamente critica verso l’esercito, eppure è pur sempre una ragazza che si reca da sola in un locale frequentato da militari e che cede facilmente alle lusinghe di Kyle, così da ritrovarsi presto l’esistenza scandita dalla preoccupazione per i turbamenti del marito o dalla disperazione per la di lui sorte, che le telefonate interrotte dalle sparatorie suggeriscono terribile.

pravato-04È difficile non percepire contraddizione nelle prime sequenze in cui Taya appare e manca quasi del tutto quel genere di sviluppo del personaggio cui le sceneggiature più standardizzate ci hanno abituato. Qui Eastwood lascia degli interrogativi aperti e affida allo spettatore il compito di ricostruire con l’immaginazione l’evoluzione di questa ragazza, forse intrisa quanto il marito della morale borghese americana più di quanto i momenti di sfiducia nell’utilità delle missioni in Iraq lascino supporre.

Le relative monotonia e ripetitività delle sequenze ambientate in Iraq e di quelle in America è probabilmente tesa a suggerire il senso di alienazione provato dai veterani, uomini che non sono più a proprio agio né a casa né in guerra e che non riescono a trovare uno scopo nella loro esistenza, ora perché la vita in patria è troppo vacua e spensierata, ora perché il nemico è subdolo e non si vede la fine del conflitto.

Se American Sniper ha un difetto, dunque, è quello di non essere una sceneggiatura originale.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Eastwood non ha portato sullo schermo “la vera storia di Chris Kyle”, bensì la sua autobiografia, redatta con cieca fiducia nell’ideologia che ha determinato le scelte di vita del protagonista e – deduciamo dalla struttura del film – scarsa considerazione o esplicito rifiuto degli stilemi della narrativa.

Dobbiamo supporre, allora, di dover attribuire a Kyle, non a Eastwood, l’immagine idealistica dell’esercito, con la sua presunta attenzione nel cercare di risparmiare gli innocenti e i ritratti troppo buonisti dei militari.
Al regista va il merito di aver restituito schiettamente la visione dell’autore originale, per quanto, in effetti, la scelta di portare sullo schermo proprio la sua storia può far sentire autorizzati a trarre delle conclusioni sulla sua posizione.