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Scrittura

Paolo Pelliccia

La Scuola di Atene a Viterbo

A Viterbo c’è un capolavoro e un’opera d’arte che invidiano in molte città d’Italia. No, stavolta non c’entrano le mura medioevali o il centro storico perfettamente intatto – protagonista di questa storia è la Biblioteca Consorziale, che in pochi anni è riuscita nell’impresa di rinnovarsi totalmente negli spazi e nelle funzioni, con l’intento dichiarato di portare un servizio sempre migliore e innovativo nei confronti dei molti estimatori e frequentatori assidui.

La poesia a voce altaIn una città che non ha mai brillato per investimenti sulla cultura, lo spazio bibliotecario è un baluardo in difesa della cultura, radicato nel territorio e focalizzato sul presente grazie agli insegnamenti del passato. Grazie a una sapiente gestione e guida illuminata, la Biblioteca Consorziale di Viterbo è diventata un faro nella cultura nazionale e un capolavoro di design. Ne parliamo con il Commissario Straordinario della Biblioteca Consorziale di Viterbo, Paolo Pelliccia.

Leonardo Vietri (LV): Commissario Pelliccia, quale reputa essere il futuro delle librerie e dei libri in un momento dove tutti i dati sulla lettura (e la comprensione, aggiungerei) sono a dir poco allarmanti?

Paolo Pelliccia (PP): Questo è un argomento che mi interessa molto, perché prima della biblioteca, la passione come luogo, è la libreria. Io ho lavorato in alcune librerie di amici, e appunto per averci lavorato, ho sempre pensato alla libreria come a una biblioteca, anche se si vendevano libri, e alla biblioteca come a una libreria. Ed è per questo che quando ho avuto questo onore di presiedere la biblioteca, l’ho pensata come a una libreria. Fondamentale è l’aggiornamento del catalogo, che va di pari passo con quello della libreria: i libri che escono in libreria, noi ce li abbiamo. Lo scaffale aperto è concepito come una vetrina, ma oltre alle novità si dà spazio a quelli che sono i classici.

LV: Classici che vengono spesso e volentieri misconosciuti, qual è il vero ostacolo alla lettura a suo avviso?

PP: La crisi della lettura non si risolve solamente con i nuovi autori, perché la lettura è cambiata da questo punto di vista, per tutta una serie di motivi di cui non so quale sia ora quello principale (se la tecnologia, o altro).

Secondo me il problema è molto semplice ma al tempo stesso complesso e risiede nella mancata congiunzione tra le librerie, le biblioteche e la scuola.

Ci sarebbe bisogno di una vera e propria “Grande Vaccinazione” da parte del Ministero in questo caso, ma anche da parte del Comitato per la diffusione della lettura del Mibact, o i vari organismi che poi di fatto non fanno nulla, perché è così. Sono organismi che stanno lì e si parlano addosso sui mali mentre nel frattempo i dati sono più che catastrofici.

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LV: Ci parli meglio di questa “Grande Vaccinazione”.

PP: Il virtuoso sistema per riconsiderare la lettura come motore di riflessione, ha bisogno del “Grande Attacco”, la “Grande Vaccinazione” portata nelle scuole, come si faceva l’antipolio, dopo la scoperta della penicillina. Bisogna attaccare e vaccinare i ragazzi, ogni anno con una campagna massiccia, ma non di comunicazione. Una campagna di libri acquistati con gli editori (pensi alla filiera delle librerie, editori, e autori coinvolti) attaccando la scuola con una serie di classici, portati, donati; proprio un canone letterario, un canone filosofico, un canone scientifico. E tu vedrai che alla fine, cresceranno lettori.

LV: In che modo è possibile rendere interessanti e appetibili i classici per le nuove generazioni? I nativi digitali hanno sensibilmente ridotto la loro soglia di attenzione verso tutto ciò che non proviene da uno schermo, e pressoché polverizzato l’abitudine di scrivere a mano.

PP: Ti dirò, ci potrebbe essere una soluzione – grazie alla quale viene valorizzato anche il lavoro di tanti bravi attori con esperienze passate e una dizione straordinaria – quella di proporre il binomio autore-attore insieme alla lettura. Gli attori diventano narratori che vanno nelle scuole come in una tournée e portano i classici.

Per tagliarla corta, lasciamo perdere le chiacchiere, lasciamo perdere la burocrazia – che è quello il male – e diamoci da fare. Noi nel nostro lo facciamo, insomma. Io posso dire che di lettori nuovi qui ne vedo nascere, anche per il rapporto che c’è tra l’utente e chi è il responsabile.

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LV:
Un’ipotesi affascinante, e le biblioteche come aiuterebbero questo percorso di crescita e formazione delle nuove generazioni di lettori?

PP: Il dirigente e il personale delle biblioteche devono avere un rapporto diretto con l’utente e consigliarlo, dirigerlo appunto. Mostrando e discutendo, non solo valorizzano il patrimonio contenuto nella loro biblioteca ma allo stesso tempo stimolano la persona. Al punto tale che poi l’utente ti viene sempre a cercare, perché magari i consigli (ci vuole una certa conoscenza, s’intende) che tu gli hai dato, sono risultati ottimi, per cui il lettore lo hai salvato, e in più lo puoi far crescere, e lui a sua volta ne consiglierà altri, e così via, è questo il lavoro da fare.

LV: Secondo lei quali titoli e competenze dovrebbe avere chi si occupa di cultura a vario titolo, si tratti di un assessore o di un operatore culturale?

PP: Qui si tratta di un problema semplice, ma in questo paese diventa tutto complicato. È ovvio che l’assessore alla cultura dovrebbe essere una persona competente, ma io sottolineo anche un altro aspetto, perché la competenza burocratica, cioè la certificazione che «se tu sei un laureato in lettere, allora sei un uomo colto e si dà per scontato che puoi avere a che fare con i libri», non sempre è vera. Bisogna aggiungerci quel talento, e quella passione, che è con te, nasce con te. In alcuni casi bisogna essere fortunati, come con il nostro Goethe, che forse pochi sanno essere stato assessore in Germania.

foto (1)LV: Cosa altro ci vuole quindi oltre alla competenza tecnica?

PP: Ci vuole la competenza di campo linguistico, senz’altro, e se è pur vero che i ragazzi non leggono più, vogliamo parlare degli insegnanti? Una volta gli insegnanti si adoperavano in solitudine ad aggiornarsi, acquistando libri, con curiosità, portando da casa degli strumenti loro in classe. Oggi questo mi risulta di meno, sono tutti super impegnati con i vari registri a seguire la burocrazia. Molto psicologi sono diventati, anche se poi di fatto non lo sono, perché da quello che vedo di rimando dalla biblioteca mi sembra una gioventù sfuggita, molto intelligente, con la quale intrattengo spesso dei dialoghi. Bisognerebbe stimolarli, aiutarli a capire la contemporaneità, che non è solo quello che avviene oggi, ma anche sapere tradurre nell’oggi quanto avvenuto in passato.

LV: Spezzando una lancia in favore degli insegnanti, è difficile muoversi tra il precariato e la morsa di una burocrazia imperante. La società è spesso loro ostile e i genitori li criticano, prendendo a priori la parte dei figli. Ritiene che mantenere i loro stipendi tra i più bassi in Europa sia una mossa oculata da parte delle istituzioni?

Siamo un paese, in cui la questione culturale non è al centro degli interessi del paese, bisogna dirlo senza girarci intorno.

PP: Dal punto di vista degli investimenti in questo senso, l’Italia è un Paese finito. Se poi vogliamo parlare dell’occupazione, dico che se un artigiano assume siamo tutti contenti, ma di tutta questa massa di giovani che hanno studiato beni culturali e archivistica che ne facciamo?

Ci sono più biblioteche che uffici postali in Italia – oramai sono in ogni paese, per cui immaginiamo quante ce ne siano negli oltre 8000 comuni. Immaginate quante persone si potrebbe occupare? E a noi oggi delle risorse ci servirebbero come il pane.

Io dico che nel momento in cui una biblioteca assume, un Paese sta rinascendo.

 

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LV:
Ma concretamente come si potrebbe fare per assumere i giovani?

PP: Ebbene, questo è un Piano Marshall della cultura. Il nostro caro premier Renzi, dovrebbe stilare un buon comunicato dove si dice che ogni biblioteca italiana può assumere una persona: ce ne sono ottomila? E allora ottomila assunzioni. Adesso la dico così per dire, ma ecco, quello sì che sarebbe un buon segnale.

LV: Molti criticano l’immobilismo di certe biblioteche, lei concorda?

PP: Ma non c’è dubbio. La biblioteca è un’istituzione che bisogna riformare, però diciamo, è compito pure di chi la dirige. Bisogna prendere questa navicella e dargli una sua lettura, prendere questo vagone e metterlo su rotaie giuste, su direzioni nuove, non si tratta solo del catalogo, ovvero della conservazione e il prestito. Altrimenti mettiamo una macchinetta e arrivederci e grazie.

LV: Qual è il senso di una Biblioteca oggi, e a quali bisogni dovrebbe rispondere?

La biblioteca è un luogo dove si sviluppano diversi linguaggi, diversi talenti, si progetta, si pensa, si fanno le attività.

PP: Noi qui abbiamo, oltre alle solite presentazioni, anche attività per portatori di handicap, con progetti specifici di integrazione. Una rivista che sviluppa intorno pensiero e studio del territorio, per evitare un provincialismo sempre dietro l’angolo. E poi ancora si organizzano mostre, si promuove interventi, si va nelle scuole, al cinema, ci si occupa di tante cose. Come amo definirla, «la nostra è anche una biblioteca sociale».

LV: Per certi aspetti, quindi funge anche da ammortizzatore sociale?

PP: Assolutamente sì, molta gente viene qui, parla, presenta delle idee, anche per il gusto di parlarne e avere qualcuno che ti ascolta e che magari ti fa capire se la tua idea è realizzabile o meno. Già questo rapporto umano, è importante. Questo è anche una biblioteca, un luogo che scandisce la contemporaneità. La mattina bisognerebbe farsi un caffè e andare in biblioteca, questa è “La Scuola di Atene”. Questo è il luogo, la Biblioteca.

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Mentre parliamo è appena passata una ragazza madre con due bambini che avranno avuto cinque e sei anni, ed era indecisa se prendere 3 libri per bambini o 2 film di animazione e chiedeva consiglio alla ragazza della reception; alcune persone stanno sfogliando il quotidiano di oggi, una mamma legge con la figlia nella coloratissima sala dei bambini, con dei tavoli talmente belli e colorati che ti viene voglia di tornare piccolo.

LV: Qual è il criterio adoperato per presentare gli eventi al pubblico della biblioteca?

PP: Quando vedi che tutti chiamano chiedendo: «quando iniziano le attività?», questo significa che sei diventato un centro di cultura, anche se minoritaria. Che significa minoritaria? Quella che non fa audience, non quella dei contenitori. A quelli che la fanno l’estate fanno bene, noi il testimone glielo passiamo volentieri ma noi facciamo un altro mestiere: noi facciamo biblioteca, non festival. Se c’è un autore poco conosciuto e vengono a sentirlo in dieci, è importante ugualmente, perché magari merita per quel segno, quella parola, quel libro in particolare. «Quanta gente c’è?», è la domanda che sento fare spesso, ma questo non è importante, anche se ci fosse una persona sola, io sono lì per quella persona.

IMG_2866LV: Grafica e design si intrecciano superbamente nella vostra struttura, qual è stata la mossa vincente?

PP: Le biblioteche vanno rifondate anche sul piano del luogo, va dato loro un certo appeal, ma non l’appeal del trucco, e sotto il trucco niente. Ci vuole la sostanza. È anche questo il senso di una biblioteca, non la freddezza austera che si respira in certe biblioteche. Bisogna ripartire da questo connubio per ridare la vita: qui non c’era una persona, adesso c’è gente.

LV: Ci dia un esempio di relazione intelligente tra contenuto e forma.

PP: Abbiamo fasciato la sala della lettura – dedicata alla legalità – con i protagonisti che sono morti per la loro lotta alla mafia. Tu che entri e vedi solo i loro volti, con le date di nascita e di morte, sei soggetto ad andare ad approfondire chi siano e cosa abbiano fatto, se vuoi. Gli stimoli sono molteplici, c’è anche il corridoio della memoria letteraria dove a qualcuno può interessare leggere i ritagli di giornale che rimandano a dei frammenti della nostra storia, ad altri no.

LV: Come parlare di un tema caldo come quello della legalità?

PP: Si fa con degli esempi, senza fare tanta propaganda e demagogia. La cosa vitale, è evitare le “fanfarate”. Non è che io l‘ho inaugurata quella sala, l’ho fatta e basta. Questo vuol dire esercitare, vuol dire fare, non inaugurare. Perché è la sostanza che conta, tu devi fare, non tagliare il nastro. «Che si taglia il nastro alla legalità? O alla memoria?»

LV: Chi è stato l’artefice di un ammodernamento che ha del miracoloso?

PP: Quando sono venuto qui io avevo una Visione: non è che sono arrivato e poi mi sono chiesto cosa fare. L’idea progettuale è stata mia, e poi si è arricchita della professionalità dello Studio Majakovskij, in particolare di Simone Iocco, che affianca il lavoro della biblioteca in tutte le sue declinazioni, articolazioni, eventi, oltre al design ovviamente; oltretutto in maniera totalmente gratuita, per loro è un ritorno di immagine aver (ri)creato un luogo come questo.

corridoio della memoria

LV: Può approfondire il concetto della “visione”? In che misura interviene in questo processo?

PP: È stato un lavoro continuo tra me e lo studio, nel quale ci si confronta. Il discorso chiave però, è quello della visione: quando si prende in carico qualcosa senza una visione è inutile – e questo vale per tutto. Ad esempio, se tu prendi una città ma non hai una visione, è inutile amministrare, non sei mica un vigile urbano, il quale ha delle regole e gestisce il traffico. La visione è un’altra cosa.

LV: Mazzini sosteneva che non si possono avanzare diritti senza assumersi pari doveri. Qual è il dovere dei cittadini verso la biblioteca secondo lei?

PP: Se un cittadino viene qui e ritiene di dover aiutare la biblioteca, dopo averla vista, noi siamo felici, significa che oltre alla fiducia abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. È vero che molte volte i tagli indiscriminati della politica sono indecorosi, ma dico anche che spesso questo è un alibi, per cui

se una città si fa chiudere la biblioteca, la responsabilità è anche del cittadino, non c’è dubbio.

Da una parte te la devi difendere, dall’altra parte, aiutare: trova tu il modo.

LV: Diversi progetti sono stati finanziati da imprenditori o aziende, come impiegate i finanziamenti che ricevete?

PP: Quando veniamo aiutati finanziariamente, io non prendo mai i soldi: penso a dei progetti, quasi sempre sono libri nuovi. E all’imprenditore, all’amico, al professionista, all’azienda, chiedo se mi paga questo o quel progetto. Per cui loro fanno una fattura e non li danno alla biblioteca, ma finanziano direttamente gli acquisti o i progetti, per cui nessuno può pensare di mettersi in tasca niente.

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LV: 
Funziona questo metodo?

PP: Assolutamente sì. Proprio a causa di questa visione, chi ci ha già aiutato ci aiuta nuovamente, perché sa qual è il meccanismo, non glielo devo nemmeno dire. Anzi, qualcuno ti chiama e dice, «ma quest’anno non mi chiedi niente?». Noi poi chiediamo semplici cifre, perché la nostra forza è la qualità del progetto e del costo, per cui c’è un guadagno per tutte le parti coinvolte. Non servono molti soldi, io lo posso dimostrare. Quando leggo le cifre di alcuni, io mi chiedo, che ci faranno?

LV: Quindi chi investe nella biblioteca lo fa per un ritorno di immagine?

PP: Certo, le iniziative vengono segnalate, non sono cose che mi tengo nascosto. Al di là di dirlo pubblicamente, sono tutti progetti targati e che hanno un ritorno preciso, addirittura in alcuni casi, ci hanno anche guadagnato.

LV: Qual è il segreto per essere così attivi?

PP: L’elemento chiave è quello dei dipendenti, bisogna avere una ciurma capace di diventare una comunità di lavoratori, super motivata e sempre disponibile. Tu puoi avere tutte le idee del mondo, ma se non hai l’aiuto dei dipendenti, non vai da nessuna parte. Quando fai le presentazioni, finisci alle otto e mezza di sera, e poi bisogna anche venire prima e preparare tutta la sala. Insomma, loro vanno oltre, senza straordinari. Questo è molto importante, è un contributo dato con il lavoro.

Senza questo contributo non fai nulla. E infatti altre grandiosi istituzioni di questo paese sono bloccate da quel sindacalismo che non ha più niente del suo carattere originario, se vuoi. Molte istituzioni gloriose sono crollate per queste motivazioni, e poi sotto sotto scopri anche che ci sono dei privilegi. Questo passaggio è fondamentale:

non governi nessuna istituzione se non hai i dipendenti motivati e che ti aiutano.

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LV:
A quale progetto state lavorando attualmente?

PP: Nel giro pochi mesi abbiamo in mente di aprire la biblioteca di Scienze dello Spettacolo, gli spazi sono già pronti. Creeremo una emeroteca dello spettacolo con supporti multimediali, dove i giovani che studiano spettacolo e comunicazione, potranno andare a vedere film. In futuro metteremo anche la moviola e altre cose che abbiamo in serbo per questa struttura.

LV: Da dove nasce l’idea per aprire la biblioteca sulle Scienze dello Spettacolo?

PP: Il fondo nasce da un prezioso lascito del mio amico e maestro Maurizio Scaparro che ha donato parte della sua immensa biblioteca sul teatro. A questo lascito si aggiungono alcuni editori dello spettacolo che hanno già donato e manderanno una dotazione importante, oltre a un’altra mia conoscenza, il regista Renzo Rossellini che ci aveva già donato delle pellicole in passato e sta continuando a farlo.

LV: Due anni fa, ha avuto l’idea di dedicare un sentito omaggio per il bicentenario di Giuseppe Verdi (1813-2013). La mostra aveva il sottotitolo: “un italiano dell’Ottocento che ha ancora molto da raccontare”. Esattamente cosa, secondo lei?

PP: Oltre alla storia di Verdi, ovvero la storia di un italiano estremamente particolare in quell’epoca, c’è la storia di un paese, di un’entità in costruzione, ma soprattutto la storia della musica che non è solo quella verdiana. La lirica, e l’opera sono state il primo esempio di globalizzazione della musica: in tempi in cui la tecnologia non esisteva, Verdi era dappertutto.

Questo era il concetto, e anche qui – come si è potuto vedere nella mostra – abbiamo lavorato sulla struttura narrativa per far avvicinare i giovani, i ragazzi e le scuole. Un altro tassello del mosaico virtuoso, è quello di far rivivere nel presente questi pezzi da novanta della memoria: non è nostalgia.

Paolo Pelliccia e Raffaele La Capria

LV: Come avvicinarsi a certi mostri sacri del nostro panorama culturale?

PP: Occorre fare questo lavoro con intelligenza e contemporaneità; io non sono mai del parere che una cosa sia legata a quel tempo, dipende l’uso che ne fai. È come l’uso di un testo declinato all’interno di uno scenario. A volte senti dire «ah che belle, ma chi le ha scritte quelle parole?» E poi scoprono che le hanno scritte trecento anni fa.

Per rimanere in tema, stiamo preparando un’altra mostra, su Pier Paolo Pasolini, una mostra didattica per far conoscere questo signore in maniera tutta particolare, sempre rivolta ai giovani e alle scuole, e poi una serie di iniziative collaterali, da novembre fino a gennaio e anche oltre. Come sottotitolo, ho scritto “un interprete della cultura del Novecento”. Attraverso mille sfaccettature, dal cinema, al teatro, la poesia, la prosa, il polemista, l’analista, l’antropologo, ricostruiremo l’immagine di Pasolini in un modo del tutto particolare.

LV: Quali altri nomi di letterati ritiene utili per leggere il nostro presente?

PP: Per leggere il nostro presente consiglio assolutamente i classici, proprio quest’estate ho visto un’intervista stupenda di Mattarella sulla lettura dei libri che ci aiutano ad attraversare la vita e a leggerla, lui sul Corriere della Sera cita Dostoevskij, Calvino, Kafka, a cui aggiungo i nostri Vittorini, Morante, Ginzburg, insomma i classici.

Non dimentichiamoci «La Scuola di Atene» (indicando il celebre dipinto che giganteggia sopra la scrivania), che è il dono che la biblioteca ha fatto a trenta scuole superiori della nostra Provincia. Non a caso Il Caffè Filosofico (la collana de La Repubblica a cura di Maurizio Ferraris, ndr) inizia proprio con Socrate, Aristotele e la Scuola di Atene.

La Scuola di Atene

LV: Se dovesse sceglierne uno in particolare?

PP: Ecco, io regalerei a ogni studente italiano I Viceré di Federico De Roberto. Quando qualcuno capirà che moltiplicare i pesci significa moltiplicare i libri per i ragazzi, saremo a cavallo. Immagina una scuola dove con un processo virtuoso e intelligente, lo Stato dona dieci libri cadauno, due classici al mese ai ragazzi, promuovendo delle iniziative; i ragazzi dopo cinque anni hanno una piccola biblioteca personale.

Operare un canone umanistico, letterario, filosofico, di classici significa che tu ti trovi a casa questa ricchezza e se la ritrovano anche i tuoi figli e i familiari e così i figli dei tuoi figli. È molto più semplice di quello che si pensa: tutto il resto sono stupidaggini, i progetti che leggo di tizio e di caio, sono veramente nulli.

Primo Levi ad esempio, se lo vuoi onorare e lo vuoi fare entrare nelle scuole, lo devi donare. Se questo è un uomo, no? Che facciamo, un manifesto, ricordiamo la memoria, lo facciamo imparare a memoria? Non è così che si onora un autore.

LV: C’è un messaggio che vuole lanciare a cittadini, imprese, classe dirigente, politica e lavoratori?

PP: Il manifesto Vuoto da Leggere – Manifesto per un paese che ha disimparato a leggere, i libri come il suo presente, che ho portato anche al Salone del Libro di Torino non si riferiva solo a Viterbo, ma era un piano nazionale. Vacciniamo tutti.

manifesto

Questo è uno dei lavori più belli del mondo perché ti fa capire veramente tante cose, oltre il contatto con i libri (di cui sono un drogato per certi aspetti). Quando ti capita di consigliare qualcuno, tu ti scateni e puoi costruire molto, srotolando un canone che non è personale, ma universale per costruire un’idea dell’uomo e del linguaggio. Se lavori bene, lo vedi dalla risposta, dalle persone che ritornano perché hanno letto e vogliono continuare. Questo è il mio lavoro, cosa volere di più? Suonare il pianoforte, forse (ride, ndr).

LV: La ringrazio a nome dei cittadini per il prezioso lavoro svolto dalla biblioteca quotidianamente.

PP: Grazie a voi per l’intervista. Oltre ai dipendenti di cui ho parlato anche prima, il mio ringraziamento va anche a coloro, e sono tanti, che ci aiutano ogni anno: chi ci ha costruito una cosa, chi ha donato libri. Al Don Gnocchi al Don Orione, dove anche culturalmente mi sono formato, mi hanno fatto capire l’organizzazione del lavoro, la pianificazione, la progettazione oltre la cultura. E anche i principi che mi hanno dato tantissimo nella vita. Il più importante? Che donare – e donarsi – è ricevere.

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