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Scrittura

Wang Xiaobo e l’arte della rivolta

Wang Xiaobo e l’arte della rivolta

Guggenheim Museum New YorkIl Guggenheim Museum di New York ha deciso di dedicare una mostra imponente all’arte cinese, Art and China after 1989: theatre of the world. La data scelta è emblematica: il 1989 è l’anno del crollo del muro di Berlino, l’anno che segna la fine della Guerra Fredda e che vede l’emergere sulla scena mondiale del World Wide Web. Gli artisti cinesi si trovano, all’epoca, di fronte a un bivio: il proprio Paese che sta diventando un regime autoritario, da un lato, il mondo occidentale che sembra promettere libertà mai viste né vissute ma altrettanto inquietanti, dall’altro. Per molti di loro, espatriare vuol dire vivere senza il tormento della censura e della minaccia fisica e psicologica. Uno degli artisti presenti al Guggenheim quest’anno, Chen Zen, firma una grandiosa scultura (Precipitous Parturition) che alcuni critici ritengono emblematica del passaggio dalla cultura delle “biciclette” a un panorama dominato dalle materie plastiche dell’industria mondiale. Questa scultura è stata anche scelta come una delle icone del percorso espositivo (la si può intravedere sul sito del museo).

Della letteratura cinese, invece, il pubblico italiano conosce probabilmente il premio Nobel Mo Yan, autore di romanzi che sono dei condensati estetici quanto politici e, secondo alcuni, sarebbero dotati di una sorta di “realismo allucinatorio”. Non essendo un esperto di letteratura cinese e tanto meno orientale, posso soltanto annotare le mie impressioni di lettore a proposito di un altro scrittore cinese, Wang Xiaobo (1952-1997). L’occasione mi è data dalla pubblicazione in lingua italiana, con testo a fronte, de Il significato dell’arte (pubblicato da Oèdipus, traduzione di Sha Jiayi e di Hugo Bertello). Una prima lettura sembra confermare una certa somiglianza di famiglia con Mo Yan, se non fosse che il particolare ritmo della scrittura e una netta propensione per l’invenzione aneddotica mi spinge a collocare il romanzo in una frontiera diversa, direi persino più “europea”. Ma partiamo, per cominciare, dalla trama e dai personaggi.
La voce narrante appartiene ad un giovane, aspirante artista che comprende la sua vocazione frequentando un pittore di difficile carattere e dai facili amori. Il pittore è anche suo zio, un parente al quale il ragazzo è molto affezionato e che, in un certo modo, tutela dalle attenzioni della polizia. Conviene subito dire che- in termini vagamente kafkiani, almeno questa è la mia impressione- lo stato di polizia in cui si trova a vivere il protagonista è ben più esteso di quanto noi occidentali saremmo disposti a tollerare. Diciamo che è uno stato della mente, come dimostra anche il fatto che il ragazzo vive un rapporto difficile persino con la madre, la quale minaccia di ucciderlo se proverà a diventare come suo zio:

“Per dimostrare che faceva sul serio, chiese a un tizio che per lavoro passava ogni settimana per la provincia di Hebei di comprare sei coltelli da macellaio. Quando i coltelli arrivarono li lucidò per bene, dopodiché li dispose su una mensola, ben in vista. Mi costringeva a sedermi ogni mattina per cinque minuti in cucina, a osservarli. Se i coltelli prendevano un po’ di ruggine tornava ad affilarli fino a farli brillare. Ogni tanto acquistava un pollo vivo al mercato e lo uccideva sul tavolo di casa, esclusivamente per verificare che i coltelli funzionassero a dovere. Dopo averlo sgozzato puliva la carcassa e la cucinava per cena. Le cose andarono avanti così finché io non terminai il mio esame d’ammissione. Mia madre era un esempio per tutte le altre donne. Lei manteneva sempre la sua parola, e io lo sapevo. Terrorizzato dalla sue minacce, presi parte all’esame in uno stato confusionale e alla fine fui ammesso al dipartimento di Fisica dell’università di Pechino. La morale di tutta questa storia: se hai paura di morire, non puoi diventare un artista. Se proprio ti va bene, al massimo puoi diventare un fisico” (p. 27).

Il significato dell'arteIl significato dell’arte è, in buona sostanza, un romanzo di formazione. L’unica, grande differenza con il Wilhem Meister di Goethe (1796), prototipo di ogni altro Bindungsroman, è che niente finisce bene. Qualche volta, l’arte riesce a perturbare l’orizzonte come una lontana dissonanza, secondo un altro grande modello mitteleuropeo: il Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg. Il destino dell’artista, comunque, è segnato: non soltanto è incompreso fin dalla prima infanzia, ma deve anche giustificare con ogni mezzo possibile la sua “malattia” agli occhi di un pubblico – familiare o sociale, poco importa- costitutivamente ottuso, se non assente. In certi casi, il pubblico diventa vittima dell’artista. È il caso, per esempio, delle amanti del pittore:

“Ogni volta che mi intrufolavo nell’appartamento dello zio assistevo alla stessa scena, ma con una ragazza diversa. Lei entrava in soggiorno, si guardava intorno, lanciava un grido e collassava al suolo. Mio zio aveva preparato degli occhiali speciali per i suoi ospiti: le lenti erano coperte da due pezzi di cartoncino nero, al cui centro era stato praticato un piccolo foro. Indossando gli occhiali, l’ospite riguadagnava un senso dell’equilibrio sufficiente a reggersi in piedi, e domandava: «Scusa, ma cosa c’è su quei quadri?». Lo zio rispondeva: «Sta a te dirmelo». La ragazza allora tornava a esaminare i dipinti, e dopo un po’ era di nuovo a terra con la testa che le girava. Per tali evenienze, mio zio aveva preparato un secondo paio di occhiali: alle lenti erano incollati dei pezzi di cartoncino con dei fori ancora più piccoli. Eppure, anche utilizzando questo stratagemma, la sensazione di stordimento dopo un po’ ritornava. Alla fine le ragazze erano costrette a indossare un ultimo paio di occhiali, diverso dagli altri, senza alcun foro sui cartoncini. Benché tu non vedessi più niente, la sensazione di vertigine non si placava. Quei disegni vorticosi ti rimanevano dentro, e tu continuavi a volteggiare” (pp. 25-26).

Don Giovanni, in questo caso, non ha nessuna speranza di passare per un modello di seduzione. Si tratta, in effetti, di una delle costanti che emergono nel panorama sociale del romanzo: nessuna seduzione è possibile, in senso etimologico, perché qualsiasi sentiero al di fuori della normalità viene cancellato, obliterato. L’unico modo per sottrarsi al dominio è pensare in modo diverso, imparare a descrivere il mondo e a liberarlo dalla sua vistosa idiozia, fosse anche soltanto per qualche minuto. Le descrizioni di Wang Xiaobo, per l’appunto, sono un capolavoro del surrealismo fuori da ogni precisa latitudine storica e culturale. Quasi ogni pagina del romanzo è intessuta di una precisa trama di paradossi, di un umorismo evidente che non teme di cadere nel grottesco. A volte, l’immaginazione di Xiaobo sembra sfiorare quella di un celebre visionario francese, Henri Michaux, appassionato di documentari scientifici:

“Mio zio soffriva di strabismo divergente, e immagino che dal suo punto di vista il mondo dovesse apparire un po’ come in uno schermo gigante del cinema. Questa sua peculiarità deve averlo aiutato molto nel corso della sua carriera. Come la scienza insegna, più gli occhi sono lontani l’uno dall’altro, più la loro capacità di percepire la profondità migliora. All’inizio del ventesimo secolo, prima che fossero inventate le tecnologie laser e il radar, questo principio veniva sfruttato nel campo delle misure di precisione. Due macchine fotografiche venivano assicurate alle estremità di un’asta e le immagini scattate dall’una e dall’altra venivano sovrapposte, di modo da determinare la distanza dell’oggetto sotto analisi con la massima accuratezza” (pp. 13-14).

Henry Michaux

Se ci chiediamo che cosa irrita di più nel comportamento di un vero artista, nella società disciplinare di ieri e di oggi, è presto detto: il fatto di ostentare l’irrazionalità del proprio operato artistico. Si potrebbe chiamare la realtà dell’intuizione. Non si tratta di condannare l’arte di per sé, quindi, potendola mascherare in molti modi (artigianato, moda, erotismo, cultura). Quanto, semmai, di braccare l’incoscienza in quanto tale. Lo zio le cui gesta sono raccontate ne Il significato dell’arte non sa perché dipinge ma sa soltanto che deve farlo, il suo difetto è di ammettere di non conoscere l’origine né il “contenuto” della sua arte. In questo modo, i dipinti rimangono alle pareti come uno schiaffo a qualsiasi consapevolezza di sé, dunque all’idea del controllo in quanto tale. Le amanti che gli si sono offerte lo schiaffeggiano perché non sa che cosa dipinge né vuole saperlo (“Sta a te dirmelo”), i poliziotti lo braccano per lo stesso motivo. La crisi dell’identità irrita il potere. Nessuno si rende conto che il valore dell’arte consiste nel sottrarsi alla tirannia dello scambio economico in cui tutto si riduce ad uno schema inesorabile. La globalizzazione, com’è risaputo, ha reso tale schema universale e onnipervasivo. La società cinese, da questo punto di vista, potrebbe essere letta come la versione estremizzata di quella occidentale.

Dato che sto rimarcando alcune analogie tra il romanzo di Wang Xiaobo e la letteratura europea, potrei spingermi oltre e ricordare il tono beffardo di un romanzo di Milan Kundera, Il valzer degli addii (Adelphi). Anche qui la data è significativa: il romanzo kunderiano è uscito in Italia nel 1989. Klìma, il protagonista de Il valzer degli addii, è un trombettista che tenta di fuggire la sua attuale amante, rimasta incinta. Il tono della narrazione è ironico e disincantato, sotto il segno di una leggerezza, nel senso calviniano del termine, destinata a rimanere incompresa. Mi ricorda un certo scrittore cinese… Ma a questo punto sarà il lettore a scoprire le altre analogie possibili. Speriamo, almeno, che la letteratura ci possa restituire una Cina meno assediata dall’e-commerce e dalle illusioni di un progresso minacciato da una perenne ottusità.

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