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Musica

Glenn Gould scrittore

Glenn GouldL’immagine che il pubblico ha conservato di Glenn Gould (1932-1982) è legata ad un capolavoro di J.S.Bach, le Variazioni Goldberg.

Considerato un pianista eccentrico, adatto alle cronache mondane per il suo modo anticonformista di vestire e per la “disdicevole” abitudine di cantare sottovoce mentre suonava; narcisista a tal punto da portare sul palco la propria sedia preferita, in realtà Gould è stato tutto tranne che un esibizionista. Quando si ritirò dall’attività concertistica nel ’64, il suo futuro “esilio” (ne abbiamo scritto sulle pagine di Nomos Alpha) era, essenzialmente, legato a certe abitudini e scomodità della vita concertistica. D’altra parte, la decisione di abbandonare le sale da concerto non ha certo intaccato la sua celebrità, semmai l’ha resa più accessibile grazie alle incisioni discografiche. La sua vocazione puritana, com’è stato detto, era profonda quanto l’amore per la musica. Non soltanto quella di Bach. A dimostrarlo ci sono gli scritti musicali di Glenn Gould, pubblicati in italiano da Adelphi con il titolo L’ala del turbine intelligente (1993), che raccolgono buona parte di quanto il pianista canadese ha scritto sulla cultura musicale e sui problemi dell’interpretazione. Ma quale vantaggio può trarre il lettore comune dalla lettura di questi testi, all’apparenza vagamente tecnici? Si tratta soltanto di un repertorio per happy few? A noi sembra di no, per almeno tre motivi.

In primo luogo, sarebbe bene togliere a Gould la patina di interprete bachiano e collocarlo, come merita, nel più vasto ambito dell’interpretazione musicale, non soltanto pianistica. In secondo luogo, L’ala del turbine intelligente è un libro pieno di osservazioni acute e interessanti anche per l’ascoltatore che ignorasse buona parte della storia della musica. I saggi di Gould, infatti, non mancano di una certa vocazione didattica e possono agevolare l’ascolto meglio di tante monografie accademiche di cui il mercato editoriale è pieno. Gould riesce in quest’intento grazie ad una sottile arte della ritrattistica di cui cercherò di rendere conto nel corso di quest’articolo. In terzo ed ultimo luogo, la lettura può diventare occasione per riflettere sul rapporto, quanto mai attuale, tra l’ascolto e le tecnologie di registrazione. Come sanno gli studiosi gouldiani, è stato un argomento molto dibattuto. Ben lontana dall’essere una lettura vintage, quindi, gli scritti di Gould possono aiutare a scuotere la polvere dalle nostre abitudini. Il lettore potrebbe trovare utile partire dal testo intitolato “Strauss e il futuro elettronico”. Si tratta di un testo importante poichè approfondisce alcune tesi presenti nell’articolo Prospects of recording (leggibile on line).

Glenn Gould

Gould prende di mira l’ossessione per il progresso e l’innovazione che, nell’arte, è stata diffusa soprattutto dalle avanguardie e, in modo diverso, da certa manualistica: “Gran parte di queste teorie sulla maggiore o minore validità di determinati procedimenti artistici” scrive il pianista “nasce da una concezione della storia che ci ha incoraggiato a vedere il suo agire come un susseguirsi di momenti chiave, e a giudicare il valore di un artista sulla base della sua partecipazione o, meglio ancora, della sua anticipazione del momento chiave più vicino a lui. Si tende ad attribuire un’esagerata importanza ai mutamenti storici e, allo scopo, si direbbe, di semplificare la comprensione e l’insegnamento della storia (forse sarebbe più esatto dire: per imprigionarla in uno schema), si dà la preferenza a raffigurazioni antitetiche delle sue alterne vicende usando termini necessariamente inquinati da ogni sorta di concetti estranei a base di progresso e regressione”[1].

Beninteso, Gould non intende screditare l’originalità ma ci ricorda che sarebbe meglio collocarla “in relazione a quelle situazioni costruttive per le quali ha una sua effettiva applicazione analitica”. L’esito è presto detto: la tanto osannata “originalità” si stempera in una serie di prestiti o di debiti con il passato: “Ogni forma d’arte è in realtà una variazione su un’altra arte, e più scindiamo l’applicazione di termini come originalità dalle osservazioni analitiche cui si possono utilmente applicare, più instabile diventa il terreno su cui costruiamo i nostri giudizi artistici”. Invece di esaltare i nessi e gli scambi con lo stile di altri compositori e di altre epoche, l’ascolto riduzionista – se così possiamo chiamarlo – esercita una pressione sulla musica trasformandola in un puro prodotto del Consumo e della Storia- due questioni che andrebbero, forse, accostate più spesso e senza pregiudizi. Gould non scrive per salvare il giudizio storico dalla superficialità del consumismo, come fanno da sempre le frange conservatrici, ma fa molto di più: ci mostra la zona grigia tra queste due categorie. L’uso regressivo del giudizio storico ha pesato, in effetti, su compositori come Ciakovskij (il presunto e impari confronto con Brahms e la presunta superiorità mitteleuropea), Szymanovskij (il solito confronto con Chopin), Strauss (sempre “anacronistico”) e persino Bach…L’ascolto è un terreno minato, se non per ragioni biblico-religiose per motivi (ma c’è poi differenza?) culturali.

L'ala del turbine intelligenteAlla luce di una rivalutazione del modo di comporre e delle sue effettive qualità, senza tanti riguardi per la tradizione, Gould scrive una serie di ritratti musicali di grande perspicacia anche se, naturalmente, discutibili. Qui il terreno di confronto diventa, in qualche modo, personale non tanto per questioni di gusto- a parte il caso della ben nota disaffezione gouldiana per Mozart, testimoniata dalla bella intervista rilasciata a Bruno Monsaingeon- quanto per inevitabili influenze che l’interprete elabora lungo il corso del suo lavoro. Scarlatti, per esempio: “Quasi tutti gli espedienti contrappuntistici che consentirono a Bach e a Haendel di formulare i loro solenni proclami” scrive Gould “sono per Scarlatti puri e semplici intralci barocchi. Per lui i momenti migliori e musicalmente più felici sono quelli in cui è libero di lanciarsi a briglia sciolta in un susseguirsi rutilante di progressioni e di ottave, servendosi di quello che è diventato oggi un espediente comune dell’avanguardia”.

Le interpretazioni critiche di Gould sono quasi sempre a filo con la lettura delle partiture, ma posseggono anche il raro dono di sapersi generalizzare fino alla formula, senza per questo cedere il controllo al sopra citato giudizio storico – commemorativo o negativo, poco importa. – Amare la musica, evidentemente, non implica il fatto di collocarla sotto una teca con un’etichetta e aspettarsi un folto pubblico di adoratori. È probabile che l’ardore interpretativo non riguardi soltanto gli interpreti, come ci si affretterà a pensare, ma anche i dilettanti di musica che, come ricordava già Roland Barthes in un suo articolo, non esistono quasi più essendo la musica “passiva, ricettiva, la musica sonora diventata la musica (quella del concerto, del festival, del disco, della radio)”[2]. Gould scriveva, forse, nello stesso orizzonte tematico di Barthes: dal momento in cui si smette di suonare, per diletto o per professione, la musica è consegnata alle convenzioni e agli stereotipi. Negli scritti di Glenn Gould, l’esercizio del dubbio non risparmia nemmeno il monumento a Beethoven. Ma preferiamo spostarci più lontano, verso il tardo romanticismo dove, di solito, si pensa che Gould non avesse molto da fare. Semmai, aveva alcune insofferenze a riguardo. Il caso di Brahms è piuttosto singolare. E’ noto che Gould eseguì il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra destando un certo dissenso da parte di Leonard Bernstein (il pianista sottolinea che si trattò di una qualche “violazione della norma interpretativa”).

Il parere critico di Gould sulla musica di Brahms si lega, nel testo intitolato “N’aimez-vous pas Brahms?”, ad un genere musicale – il concerto per pianoforte e orchestra- che rispecchia, a suo avviso, molto da vicino una concezione prometeica e competitiva della musica: “Musicisti della statura di Beethoven e di Brahms non danno quasi mai il meglio di sé nei concerti, forse perché la loro sensibilità innata si rifiuta di piegarsi docilmente alle assurde convenzioni di questa forma: la rituale introduzione dell’orchestra, calcolata come titillante preparazione alla grandiosa entrata del solista; la struttura tematica stucchevolmente ripetitiva, studiare perché il solista possa dimostrare di saper dare a quella certa frase una piega più ardita del primo clarinetto che l’ha appena annunciata; e soprattutto l’antiquata cerimoniosità della cadenza, tutta un’esibizione di trilli, arpeggi e cinguettii fondamentalmente estranei al materiale tematico di base. Tutto ciò ha dato origine a una tradizione concertistica da cui sono usciti alcuni fra i più indecorosi esempi musicali dell’innata vocazione umana all’esibizionismo”. Tutt’altro discorso si potrebbe fare per gli Intermezzi brahmsiani, incisi da Gould in un disco diventato presto un cimelio della discografia. Chi ha saputo vedere in Brahms il futuro è stato, comunque, Arnold Schoenberg. Non ci dilungheremo sulle pagine dedicate a questo compositore, ma possiamo assicurare che difficilmente si troverà altrove un ritratto di Schoenberg così pregnante.

Glenn GouldGlenn Gould non è stato soltanto un grande inteprete ma anche un musicista impegnato sul fronte culturale. Il suo tema preferito era senza dubbio questo: che ne è della nostra capacità di ascolto nell’era tecnologica? “E’ importante rendersi conto che se le esigenze e le circostanze dell’età elettronica trasformeranno la funzione e il peso del compositore nella società” scriveva Gould nel già citato articolo su Strauss, “trasformeranno anche le categorie di giudizio in base alle quali affrontiamo il problema della responsabilità artistica”. È evidente che qui Gould sta contrapponendo il giudizio influenzato dalla società a quello reso agevole dall’ascolto discografico: si tratta della ben nota questione della “trasmissione elettronica del suono” e della ritrovata “intimità”- il termine è di Gould – di cui l’ascoltatore può godere senza frequentare le sale da concerto. Gould non sta tessendo l’elogio – come potrebbe sembrare a prima vista – dell’ascoltatore colto (non si tratta del famoso “ascolto ridotto” di T.W. Adorno) quanto di una condizione di rinnovata spontaneità che gli sembrava minacciata dai rituali di una società ormai sazia, incapace di recepire la bellezza al di là di certe formule stereotipate.

Da questo punto di vista, credo proprio che Gould abbia avuto ragione: le generazioni di ascoltatori venute dopo gli anni Sessanta conoscono bene il valore di un disco – vinile o CD che sia – . Semmai, oggi la situazione è molto diversa: la musica è diventata mobile con il walkman ed è diventata, ormai, onnipervasiva grazie allo streaming e agli smartphone[3]. Difficile valutare se questa onnipervasività abbia livellato verso il basso anche la nostra capacità di ascolto. Molto dipende, probabilmente, dalla cultura del soggetto. C’è da dire che la musica classica sembra il genere che, più di ogni altro, ric