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Musica

Tutti quanti voglion fare jazz

Un genere musicale che interessa a molti, perché?

Tutti quanti voglion fare jazz, perché resister non si può al ritmo del jazz.
Samba rumba rock’n roll twist o cha cha cha, lo stesso prurito nun te dà.
La polka e il rondò come il tango e il foxtrot roba rococò
se tu li senti suonar ti faran ricordar l’arca di Noè zazazaza olè!…

Iniziare uno scritto con la strofa di una canzone può sembrare strano, ma questo particolare testo, tratto dagli Aristogatti – film d’animazione diretto da Wolfgang Reithermann e prodotto dalla Walt Disney nel 1970 – a nostro parere rende bene l’idea del perché questo genere piaccia.

Scopo del presente scritto è dimostrare che nonostante il jazz sia considerato “genere estroso”, dietro di esso, in realtà e come sempre, c’è la conoscenza alimentata solo ed esclusivamente dallo studio.

Storia del jazz

Aristogatti (jazz)Di etimologia incerta e originariamente manifestazione folclorica, il termine jazz indica un genere musicale creato da improvvisatori afroamericani nel Sud degli Stati Uniti nel XX secolo, che unirono elementi africani a quelli europei, plasmandoli in vera forma d’arte.

Fin dal suo sorgere il jazz trovò i suoi tratti peculiari e la sua identità negli elementi formali più chiaramente derivati dall’eredità culturale africana, trasferita e sopravvissuta in America fra gli schiavi deportati a cominciare dal XVI secolo: in primo luogo nel ritmo, che ha sempre avuto un ruolo primario (salvo in forme più moderne che l’hanno posto in discussione) e nell’improvvisazione. L’influsso europeo, aggiuntosi in seguito, riguardò sia elementi melodici e armonici, spesso assorbiti per influsso delle congregazioni religiose cristiane, sia la strumentazione adottata dai primi gruppi, che era invece quella delle bande militari (cornette, tromboni a coulisse, clarinetti, tube, grancasse, tamburi rullanti). La prima forma artistica di espressione dei neri d’America, l’unica possibile nella costrizione della schiavitù, fu comunque il canto, usato anche come mezzo di comunicazione in codice; e della pratica vocale sarebbero rimaste tracce anche negli stili del jazz, soprattutto, ma non soltanto, nella prima maniera (timbri gutturali, forme antifonali “a domanda e risposta” ecc.). Diverse le vie lungo le quali quella vocalità nera si sviluppò: canti religiosi cristiani (gospels e spirituals), canti di lavoro (work songs) e, in più, una forma assolutamente nuova, il blues, che in uno schema strutturale caratteristico anche se molto aperto esprimeva sentimenti del vivere quotidiano, per lo più pene d’amore anche crude o difficoltà economiche. Queste forme, soprattutto il blues, assunsero sfumature differenti da luogo a luogo, specie dopo la diaspora delle popolazioni nere dal Sud degli Stati Uniti verso i grandi centri industriali del Nord; si poté distinguere, ad esempio, un urban blues dall’originario country blues nato nelle campagne. Caratteristiche comuni erano sempre individuabili nella propensione per la forte accentuazione ritmica e per l’improvvisazione e nell’impiego di una base armonica e melodica tendente ad adattare la tipica concezione pentatonica africana a quella della scala eptatonica propria degli europei attraverso l’introduzione delle cosiddette blue notes, che fondevano i due modi maggiore e minore occidentali.

Ragtime

Di un jazz strumentale si può incominciare a parlare con il ragtime, stile eminentemente pianistico emerso fin dal XIX secolo. L’impronta africana introdotta dagli esecutori neri si traduceva in particolare nell’effetto di sincope, da cui il nome stesso (ragtime = tempo stracciato, lacerato). Del jazz il ragtime anticipava una caratteristica fondamentale: la ricerca molto accurata sul piano armonico, frutto indubbio della preparazione non più tanto ingenua dei primi praticanti. Per i musicisti che formarono i primi gruppi, il modello fu, come si è detto, le bande militari: quelle create dai neri, nel Sud e principalmente a New Orleans, furono subito impegnate in parate stradali, funerali, riunioni religiose, feste campestri. E proprio questi organici gettarono il seme da cui sarebbe germogliato il jazz, ben prima che l’esodo dal Sud (simbolicamente fatto coincidere con la chiusura di Storyville, il quartiere dei divertimenti di New Orleans, ordinata nel 1917 dalle autorità militari) portasse la nuova musica verso le grandi città del Nord e anche dell’Ovest, mettendola in contatto con un pubblico assai più vasto di quello in cui era nata.

Improvvisazione

È certo che nelle prime bands fosse già viva l’abitudine all’improvvisazione, anche se non ancora in una direzione individuale, solistica, divenuta importante solo in seguito: si trattava, in effetti, di un’improvvisazione collettiva, dettata dall’istinto di musicisti per lo più formatisi su tradizioni esecutive orali, non scritte su pentagramma. La front line, la linea melodica d’impatto di quei complessi, costituita da cornetta (poi tromba), trombone e clarinetto, via via accentuò le caratteristiche di questi strumenti in una sorta di divisione di compiti, con la cornetta in posizione prevalente, come guida melodica, il trombone di rinforzo con glissando e interpunzioni ritmiche, il clarinetto quale connettivo melodico attraverso la fluidità delle sue “frasi”. Una pura funzione ritmica, accanto ai tamburi, era riservata alla tuba e al banjo. Purtroppo anche le migliori formazioni nere dell’epoca sono oggi soltanto gloriosi nomi (Olympia Brass Band, Excelsior Brass Band, Eagle Band e simili): le loro esecuzioni non furono mai registrate e soltanto i successivi ricordi di testimoni aiutarono a ricostruirne, tra miti e leggende, la natura e l’importanza. La prima a essere invitata in una sala di registrazione, all’inizio del 1917 a New York, fu del resto una formazione bianca, l’Original Dixieland Jazz Band, costituita a New Orleans dal cornettista Nick La Rocca. Soltanto nel 1921 poté registrare dischi un gruppo nero, quello del trombonista Edward Kid Ory[1].

Nel 1927, con Louis Armstrong, il jazz da musica etnica si trasforma in una forma d’arte. Altro merito al musicista è di aver mutato l’improvvisazione collettiva, che caratterizzava i gruppi, in improvvisazione solistica.

Louis Armstrong

Il pianoforte e le orchestre jazz

Altra degna nota del periodo è menzionare il ruolo di uno strumento nel contesto jazz: il pianoforte, che fu escluso dalle formazioni itineranti di New Orleans per la sua struttura ma la cui presenza si fece notare in locali pubblici (di non elevata moralità) e nei teatri. Antenato del jazz pianistico fu il già citato ragtime, mentre sue prime espressioni furono lo stride e il boogie woogie.

Un altro genere di jazz del periodo fu quello eseguito dalle orchestre ad ampio organico e divise in sezioni: trombe, tromboni, strumenti ad ancia, in particolare i sassofoni e la batteria. Cominciò allora a porsi la necessità di “arrangiamenti”, cioè di temi, schemi ed effetti preordinati, sia pure non obbligatoriamente scritti, ma il più delle volte brevemente concordati e appresi a memoria dai musicisti (head arrangements)[2].

Musicista del periodo che contribuì a migliorare la qualità delle big band, ideando lo jungle style, fu Duke Ellington, che introdusse nell’espressività sonora del jazz i cosiddetti suoni “selvaggi”.

Il jazz negli anni Trenta

Nella prima metà degli anni Trenta, un evento economico-sociale cioè la caduta della borsa valori di Wall Street, New York 29 ottobre 1929, contribuì, paradossalmente, a vivificare il jazz. In generale i pochi musicisti che non dovettero emigrare o intraprendere, a causa della crisi economica, un altro mestiere, “addolcirono” il vigore della propria musica per renderla più commerciale, esibendosi nei locali posseduti o controllati dalla criminalità organizzata. Era il periodo del proibizionismo (1920-33) e l’alcool, con il sottofondo di un gruppo jazz, si vendeva meglio.

A metà degli anni Trenta, il miglioramento della situazione economica coincise con la ripresa dell’attività musicale e le prime a essere avvantaggiate furono innanzitutto le grandi orchestre. La più importante fu quella coordinata dal musicista Benny Goodman, del genere “hot”, in altre parole rispettose dei canoni fondamentali del jazz e di caricatura artistica elevata, che si differenziavano dalle orchestre del genere “swett” più superficiali nel seguire i canoni del jazz.

L’impatto dello Swing (inteso come fondamento ritmico del jazz), di cui quelle orchestre erano portatrici, fu tale che il termine passò a indicare, nel suo complesso, tutto quel periodo della musica popolare che si sarebbe protratto fino alla fine della Seconda guerra mondiale (in realtà qualche anno in più). Quello del decennio detto Swing Era fu il periodo “classico” del jazz[3].

Sempre a metà degli anni Trenta, parallelamente al fiorire delle grandi orchestre jazz, ritornarono sulle “scene” i piccoli o medi gruppi, i quali, per una preferenza solo economica, erano ingaggiati maggiormente. È grazie a loro che il jazz viene concepito come “musica da ascoltare”, concezione dovuta all’espediente di far privilegiare i solisti più dotati.

Jazz

Mutamenti del jazz

Da manifestazione folclorica afroamericana, attraverso varie fasi, il genere del jazz compì rapidi mutamenti: ritmicamente, rispetto al jazz di New Orleans, l’accento si spostò sul secondo e quarto tempo della battuta, con quegli effetti di “sospensione” e “propulsione” che sono appunto alla base dello swing. Assai curato è in questo periodo l’aspetto armonico dei brani, con l’adozione di accordi preordinati entro uno schema (o giro) sul quale si svolgevano esposizione del tema e improvvisazioni. Ma la maggiore libertà rispetto al passato fu rappresentata, per il solista, dalla melodia: pur nel breve arco di tempo imposto dalle dimensioni del disco a 78 giri (mai più di duecento secondi per brano), si costruirono autentiche architetture sonore, in una libera scelta di atmosfere (drammatiche piuttosto che sentimentali), con un’ampia gamma di variazioni anche ritmiche e con i soli obblighi di rispettare lo schema armonico del pezzo e di produrre swing. Così, in vista di una migliore qualità anche nelle parti d’assieme incornicianti gli assolo, assunse un peso crescente la figura dell’arrangiatore, dal cui intervento poteva dipendere la fortuna stessa di un’orchestra[4].

Negli anni Quaranta, il jazz classico fu sostituito da un nuovo jazz definito bebop o bop; questo si basava quasi totalmente su piccoli complessi, con una front line melodica generalmente formata da tromba e sassofono e con una sezione ritmica formata da pianoforte, contrabbasso e batteria. Le novità consistevano in un andamento più continuo e addirittura una poliritmia; al pianoforte e al contrabbasso era affidato l’incarico di offrire al solista un sostegno armonico, basato sullo schema del blues o su quello abituale del jazz classico, tanto che molti brani bebop erano costruiti sulle armonie di note canzoni (moltissime su i got rhythm di George Gershwin) con sovrapposta una nuova melodia. Tuttavia la struttura armonica era molto più elaborata rispetto al passato, con accordi complessi (di nona e anche di tredicesima)[5].

Da questo derivarono, nel periodo, altre forme: cool jazz, west coast jazz, hard bop, funk, mentre negli anni Cinquanta si tentò di creare una terza corrente, third stream, che univa il jazz alla musica classica.

Negli anni Sessanta, nel periodo delle dure lotte degli afroamericani per la difesa dei diritti civili, nacque il free jazz, che si distaccò dall’esecuzione di un solista a turno accompagnato dagli altri componenti per presentarsi con tutti perennemente solisti. Questa nuova tipologia fu rifiutata dal pubblico e dall’industria americana, e accolta invece in Europa, specialmente a Parigi.

I movimenti successivi sono tuttora in mobilissima evoluzione e non possono essere fondatamente analizzati o anche soltanto connotati. Tuttavia appare evidente come, alla fine del secolo che l’ha visto nascere, il jazz tragga la sua legittimità come forma d’arte dalla varietà di filoni e di tendenze che si possono individuare. Accanto alla prevalenza di quello che si può considerare il moderno mainstream, che è direttamente collegato a bop e hard bop, si avverte un tentativo di recuperare addirittura la globalità delle tradizioni del jazz, risalendo con sensibilità moderna a New Orleans. Ma una grande importanza hanno assunto sia le espressioni di un individuale lirismo di ricerca, sia influenze esterne che possono comprendere tanto la musica accademica, quanto musiche di altre culture ed etnie, compresa naturalmente una fusion con musiche popolari occidentali, come il rock e il pop. In tutta questa fase ha assunto larga diffusione, nel jazz, la strumentazione elettronica, rifiutata tuttavia da numerosi musicisti di spicco. Data questa grande varietà, resta impossibile prevedere gli sviluppi del jazz nel prossimo futuro: è un dato di fatto la sua ormai consolidata presenza nella cultura contemporanea e in ogni continente, ciascuno dei quali ha dato vita a eccellenti musicisti e complessi[6].

Definizione di improvvisazione

Pianista jazzIl jazz, considerato un “avvenimento” etnico-musicale, è stato studiato non solo da musicisti e musicologi ma anche da letterati, sociologi, politici, storici e addirittura dalla neurologia della musica che ipotizza modelli anatomici che predispongono alla musicalità in generale e in particolare al jazz.

Dal breve excursus storico del jazz, si è potuto capire che questo genere si basa soprattutto su due elementi: il ritmo e l’improvvisazione. L’improvvisazione, nella sua accezione, indica in senso generico l’atto di creare qualche cosa mentre si esegue. Nella nostra cultura, il verbo improvvisare ha una connotazione negativa poiché è inteso come un “fare” qualcosa senza un’adeguata preparazione. Ma in realtà a tutti noi, almeno una volta nella vita, è capitato di improvvisare, e magari proprio grazie alla preparazione/conoscenza che avevamo ci è stato possibile e naturale riuscirci. Per esempio in una seduta d’esame universitario, quando il docente formula una domanda a trabocchetto, imprevista ma non fuori tema, il semplice atto di parlare è già di per sé una forma d’improvvisazione perché richiede, da parte della mente del destinatario, una ricerca di informazioni capaci di diventare risposta subitanea e allo stesso tempo efficace e comprensibile.

Il termine improvvisazione si ritrova molto nell’ambito delle arti e, in effetti, nel vocabolario della lingua italiana di Paolo Colombo, il sostantivo improvvisatore indica chi improvvisa poesie, musiche, discorsi.

Nel contesto musicale, il termine improvvisazione indica una libera invenzione di un brano musicale nel momento stesso dell’esecuzione. Riservata per sua natura all’esecutore solista, l’improvvisazione poté presentarsi, nel passato, nella forma sia di libera creazione su uno o più temi musicali, sia di ornamentazione di una melodia, sia d’ideazione estemporanea di un accompagnamento strumentale per una melodia data. Mentre nella musica delle civiltà extraeuropee il concetto d’improvvisazione è intimamente legato al concetto di composizione (giacché l’esecuzione di un pezzo s’identifica spesso con la sua improvvisazione), nella musica europea essa fu sempre oggetto di una distinzione piuttosto netta rispetto alla musica scritta[7].

Erroneamente, si crede che l’improvvisazione sia un elemento costituente solo del jazz, ma in realtà l’improvvisazione in musica è sempre esistita.

Esempi di improvvisazione in ambito musicale

Nel Medioevo, una pratica polifonica molto diffusa era il discanto. Le voci impiegate per tale pratica procedevano secondo il principio del moto contrario (se una voce sale, l’altra discende). La vox organalis, chiamata discantus, era posta superiormente al tenor (voce più bassa) ed era spesso improvvisata.

Nei secoli seguenti l’improvvisazione fu largamente praticata con gli strumenti da tasto e da pizzico attraverso le tecniche dell’ornamentazione, tra le quali rientra ad esempio la coloratura, un’ornamentazione virtuosistica di una melodia che era scritta dal compositore e in seguito affidata all’improvvisazione del cantante; e ancora con il basso continuo, cioè la linea più grave di una composizione sulla quale gli strumenti con possibilità polifoniche realizzavano estemporaneamente, durante l’esecuzione, gli accordi adeguati.

L’improvvisazione divenne anche motivo di gara; memorabili rimasero le gare d’improvvisazione al clavicembalo fra Domenico Scarlatti e Georg Friedrich Hӓndel, nel 1708 a Roma, e al pianoforte fra Wolfgang Amadeus Mozart e Muzio Clementi, nel 1781 a Vienna[8].

Nell’Ottocento, l’improvvisazione fu presente sia tra i musicisti sia tra i cantanti. I primi la praticarono nella forma del concerto, i secondi nell’opera. Ci riferiamo alla cadenza, presente in entrambe le forme e consistente in una formula melodico-armonica, che termina un brano musicale, una sua parte o una singola frase. Passaggio solistico di bravura che poteva essere stato concepito dal compositore o improvvisato dall’interprete vocale o strumentale.

Nella musica del primo Novecento l’improvvisazione fu scarsamente coltivata, se non nella pratica organistica legata alla liturgia con funzione di collegamento fra i vari momenti del servizio. Ma una notevole importanza la riacquistò nell’ambito delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta in seguito al maggior ruolo assunto dall’interprete rispetto alla pagina scritta nelle varie forme di musica aleatoria e gestuale, sino a configurare veri e propri happening collettivi[9].

L’improvvisazione è dunque un’attività estemporanea durante la quale gli esecutori producono materiale sonoro senza seguire uno spartito. Possiamo quindi supporre che tutti i solisti jazz possano essere definiti compositori, giacché, e nella pratica, compongono estemporaneamente; tuttavia, nella maggior parte dei casi, essi non fanno altro che creare motivi, abbellimenti o invenzioni su un materiale tematico prescelto.

Jazz

Tipologie di improvvisazione

Abbiamo due tipologie d’improvvisazione: quella definita “libera”, che si presenta priva di qualsiasi regola, e quella definita “su schema”, adoperata nel jazz ed eseguita in conformità a regole aventi un certo grado di determinazione.

Nel jazz, gli esecutori stabiliscono determinate regole strutturali che saranno utilizzate su un brano standard elaborandolo sul momento con variazioni melodiche o armoniche (sostituzioni di accordi, nuove scale, frasi spostate di semitoni ecc. ecc.). Anche l’esposizione del tema può essere oggetto di variazioni estemporanee di una certa importanza, tanto da essere considerati “parafrasi”, cioè libera rielaborazione del tema preesistente.

Modi particolari d’improvvisazione sono la chase, costituita da scambi di brevi assolo tra due o più musicisti per un numero prefissato di battute, e, nato assai prima, il break, breve assolo eseguito per lo più senza accompagnamento al termine di una frase melodica come per un suo “abbellimento”[10].

Variazione

È doveroso scrivere che un altro elemento fondamentale del jazz, collegato strettamente all’improvvisazione, è la variazione, cioè un procedimento del linguaggio musicale inteso come sviluppo compositivo che, attraverso artifici melodici (ornamento, inversione, retrogradazione ecc.), ritmici (diminuzione, aggravamento, ornamento, modificazioni metriche, di tempo ecc.) armonici (alterazione, modulazione tonale o modale, allargamento dell’originario materiale armonico ecc), timbrici (modificazione del colore strumentale, del registro ecc.), agogici e dinamici, può trasformare un elemento tematico di base.

In base al tipo di artefici impiegati, e quindi al grado di trasformabilità del tema, si hanno tre fondamentali tecniche di variazione: la prima consistente nell’applicazione al tema di inserzioni e fioriture melodiche o ritmiche e sovrapposizioni contrappuntistiche, che ne lasciano sostanzialmente intatta la fisionomia; la seconda, in cui modificazioni più profonde intervengono su più elementi del tema, che resta però riconoscibile nella struttura melodica e armonica essenziale; la terza, che è trasformazione radicale del tema, spesso mediante enucleazione e ampliamento di singole cellule melodiche, armoniche o ritmiche[11].

Nel jazz le variazioni possono essere anche pre-composte, altre possono essere create dagli arrangiatori che elaborano partiture per le grandi orchestre jazz, mentre alcune di quelle solistiche sono ripetute a memoria, senza variabili.

Portiamo inoltre all’attenzione del lettore il fatto che la musica jazz è presente come materia di studio accademico in alcuni conservatori italiani; di conseguenza, chi s’iscrive a questi corsi, tra le materie che deve seguire, studierà: analisi delle forme compositive, tecniche di composizione musicale, teoria ritmica e percezione musicale, composizione, teoria dell’armonia e analisi ecc., in quanto anche se il jazz è considerato un “avvenimento”, e in molti credono che abbia in sé una componente astratta, richiede anch’esso molto studio e impegno.

Per eliminare maggiormente questa considerazione errata del jazz, menzioniamo anche la musicoterapia, tecnica di carattere preventivo e terapeutico-riabilitativo, che in un’equipe socio/sanitaria, attraverso l’espressione musicale, interviene sul paziente. Tra le sue tecniche d’intervento c’è l’improvvisazione, che consiste nel “musicare”, accompagnando, armonizzando, arricchendo, ecc. l’espressione musicale del paziente. Ebbene, nel testo di Tony Wigram, Improvvisazione Metodi e tecniche per clinici, educatori e studenti di musicoterapia, edito da Ismez, si parla di concetti musicali che un musicoterapista conosce in quanto studiati nel proprio percorso accademico musicale e musicoterapico.

Jazz band

Conclusioni

In conclusione, e per avvalorare la nostra tesi sul jazz come manifestazione sonora possibile e reale, poiché si consegue attraverso lo studio e la conoscenza, riteniamo opportuno portare all’attenzione del lettore un esempio concreto di un laboratorio jazz in Calabria, nello specifico a Reggio Calabria: Lab Injazz è stato creato dal maestro Vincenzo Baldessarro, direttore e polistrumentista, con l’intento di riunire musicisti che spaziano tra i vari generi attraverso uno studio attento del jazz. Il laboratorio prevede un percorso di ascolto, analisi e realizzazione di brani che vanno dal blues allo swing, dal bebop al cool e generi affini, come il funky e la bossa nova. Il repertorio è costituito da brani originali, con richiami classici e mediterranei, e da altri, tratti dal repertorio jazz, proposti e arrangiati dal Baldessarro, con particolare attenzione all’aspetto stilistico/formale. I partecipanti sono stimolati a lavorare sugli arrangiamenti, ad accompagnare, a interpretare i temi e a improvvisare in un itinerario di ricerca e di consapevolezza del proprio ruolo all’interno di un gruppo. Il progetto dopo tre anni diventa un “Laboratorio Culturale Multidisciplinare”, dove l’esplorazione del pensiero musicale è esplicitata anche attraverso la scrittura poetica/letterale e le immagini. È doveroso inoltre far presente che lo stesso Baldessarro è autore del testo Elementi fondamentali per l’improvvisazione jazz, Relazione scale e accordi per tutti gli strumenti perché, come abbiamo scritto e riscritto, il jazz vive nel momento in cui qualcuno l’interpreta, per interpretarlo deve conoscerlo e, ahinoi, la conoscenza si ottiene solo attraverso lo studio!

Certamente il jazz è un genere musicale che affascina: sarà per la passione che i musicisti riescono a trasmettere, sarà per la musica in sé che riesce a invadere di energia l’ambiente in cui è fruita e allora viene spontaneo confermare: Tutti quanti voglion fare jazz, perché resister non si può al ritmo del jazz.

Note:
[1] L’Universale, La Grande Enciclopedia Tematica, vol.13, Mondadori, Milano, 2005, pag. 423.
[2] Ibidem, pag. 426.
[3] Ibidem, pag. 427.
[4] Ibidem, pag. 427.
[5] Ibidem, pag. 428.
[6] Ibidem, pag. 430.
[7] Ibidem, pag. 405.
[8] Ibidem, pag. 405.
[9] Ibidem, pagg. 405-406.
[10] Ibidem, pag. 406.
[11] Ibidem, pag. 932.

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