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Omnia

La scrittura accesa: il cinema della postmodernità

Immagine articolo Fucine MuteUn dato di fatto inequivocabile, che ritroviamo nei film della postmodernità, è il ritorno della narrazione, del desiderio-piacere di tornare a raccontare storie, liberi da preoccupazioni ideologiche, da sperimentalismi tipici delle avanguardie artistiche e dall’ossessiva ricerca del novum che ha caratterizzato la modernità.
Il cinema postmoderno manifesta infatti un ritorno della narrazione a tutto campo; una narrazione però che ha perso ogni caratteristica del racconto classico di genere per assumere connotazioni di debolezza, leggerezza, dispersione, commistione, frammentazione.
Il narratore nei film della postmodernità assume spesso un ruolo defunzionalizzato, tipico di un narratore debole. Questa debolezza si esplica nella moltiplicazione dei punti di vista, nella frammentazione della visione. Se da una parte assistiamo a un recupero della storia, dall’altra è altresì vero che questo recupero si accompagna alla rappresentazione di un io narrante consapevole di una duplice inadeguatezza non solo nel rappresentare una visione coerente del mondo, come era nel cinema classico, ma anche nel portare avanti, come dicevamo poc’anzi, un regime di antinarrazione tipico del cinema della modernità.

Ma facciamo ora un breve passo indietro lungo le direttive più tradizionali e codificate della storia del cinema.
Nella scrittura classica avevamo uno stile trasparente-neutro, perfettamente funzionale al racconto, fedele al soggetto e alla sceneggiatura. Il racconto veniva presentato in modo neutrale, imparziale, ingabbiato dentro le griglie stereotipe del genere.
In un secondo momento nel racconto classico si inseriscono momenti di incandescenza e di marcatura della storia, grazie a virtuosistici interventi di regia che mirano a sottolineare il tono drammatico (o brillante, o ironico) in senso tensionale o distensionale per ottenere un maggiore coinvolgimento emotivo dello spettatore, per attirarlo ancor più dentro il percorso tensionale del racconto (es. effetto suspense). Qui troviamo registi che raccontano una storia in modo trasparente ma con scelte non più neutre, o per lo meno non sempre neutre. Queste scelte più marcate hanno il fine di intensificare o la drammatizzazione della storia o l’effetto di verosimiglianza del racconto.

Con l’avvento del cinema autoriale della modernità la scrittura si fa discorso personale. Il saggio prevale sul racconto. La scrittura diviene opaca-metalinguistica. Si esaspera la parzialità dei propri punti di vista, si esaltano le manipolazioni del montaggio. Viene attuata una decostruzione e ricostruzione della macchina narrativa cinematografica. Fare film diventa un modo per parlare di cinema. Importante è il momento della ripresa e il montaggio finale, non più la sceneggiatura. Si fa largo uso di procedimenti stranianti, di esibizioni dell’artificio. L’interruzione sistematica dell’azione, la ripetizione, l’introduzione di didascalie, le anticipazioni sugli sviluppi narrativi, l’utilizzazione di racconti, interviste, citazioni, gli sguardi in macchina, la presenza della mdp in campo sono tutti procedimenti per far sì che l’attenzione dello spettatore sia spostata dal che cosa al come. Questi interventi però non hanno l’esigenza di essere rifunzionalizzati all’interno della storia, come invece vedremo accade nella scrittura postmoderna.
Nel cinema americano degli anni Ottanta e Novanta la centralità passa dall’oggetto guardato (scrittura trasparente del cinema classico), dall’ io che guarda (scrittura opaca del cinema della modernità), all’atto stesso del guardare. Qui nasce la scrittura postmoderna. La scrittura della contaminazione fra stili diversi: neutralità e accensione, opacità e trasparenza si fondono e si confondono per sedurre lo spettatore attraverso abili giochi di scrittura. La contaminazione produce scintille, rende incandescente la scrittura. Ma tutto questo dentro i limiti di un’accettabilità sociale, seppur allargata. Si osa, sapendo di poter osare, si cercano punti di vista impossibili, sapendo di poterlo fare senza che il regime finzionale della narrazione venga meno. Altrimenti saremmo ancora dalle parti di Godard e della modernità. Il racconto torna ad essere il centro della scrittura filmica, anche se questa scrittura appare spesso come virgolettata. Si scrive con la consapevolezza dichiarata e disvelata che si sta scrivendo. Il regista apre parentesi nel racconto per inserire e mettere in scena piccoli teatrini conversazionali. Si recupera la storia, il piacere del racconto, ma, dopo la lezione della modernità, a un livello di consapevolezza diverso, funzionale alla relazione-contatto con uno spettatore disincantato e di mestiere, considerato come partner attivo del gioco.
Immagine articolo Fucine MuteIl cinema è ancora sogno, ma questa volta l’ illusione è consapevole, denunciata, messa in scena (vedi incipit di Pretty Woman) e ludicamente accettata.
Lo spettatore si trova irretito in un gioco in cui non vale più la regola dell’identificazione passiva più o meno vissuta emotivamente (che invece era ricercata nella scrittura classica in genere, soprattutto nel decoupage classico) e neppure quella della partecipazione attiva come nella scrittura opaca. Infatti Godard e gli autori della modernità chiedevano allo spettatore di diventare osservatore, gli chiedevano uno sforzo per capire, interpretare ed effettuare una chiusura personale del discorso. Nella scrittura contaminata invece l’identificazione dello spettatore non è più né passiva, né attiva. Semplicemente è dissimulata nelle pieghe della narrazione. L’essere chiamato in causa dentro la diegesi è simulatorio di un percorso possibile, ma non praticato fino in fondo. Lo spettatore viene sedotto grazie ad una sua costante messa in scena.

L’uso di giochi di simulazione e di interventi stranianti (interpellazioni simulate, contaminazioni almodovoriani dei generi, strutture en abyme, cornici, giochi al raddoppio, cinema nel cinema, ecc.) svolgono una funzione analoga a quella che nel teatro di Brecht hanno le scritte, gli striscioni le proiezioni che invitano lo spettatore a non immedesimarsi nell’azione, ma a riflettere sulla propria condizione spettatoriale. Il regista lancia allo spettatore avvertimenti e richieste di intervento facendone elemento attivo nell’elaborazione del testo, pur senza interrompere quell’identificazione passiva nelle vicende del racconto che lo porta a coinvolgersi emotivamente in esso, quindi a piangere o ridere con i personaggi, a vivere con loro il lieto fine.
Significativo, a questo proposito, è il fenomeno rilevante del citazionismo, in particolare della citazione come forma di rinvio, di allusione, di ammiccamento a uno spettatore di mestiere. La serie, il remake, la citazione come riporto sono segnali precisi di una autoriflessività della scrittura. Molti film postmoderni sono costruiti come mosaico o assorbimento e trasformazione di un altro testo anteriore. Essi realizzano così una modalità di scrittura di secondo grado in cui l’enunciatore può abbandonarsi senza sensi di colpa ai piaceri proibiti del plagio e della frenesia citazionistica.
Ma accanto, e spesso insieme, a questa autoriflessività convive anche un’anima più spettacolare, più pirotecnica e anche in un certo qual modo più commerciale. Nei film della postmodernita si creano zone in cui la scrittura si fa scrittura eccitata, funzionale soprattutto ad esaltare se stessa. Scrittura in fibrillazione che però non arriva mai a mettere in discussione il regime finzionale del racconto o l’andamento stesso della narrazione. È questo il regno dell’iperrealismo, in cui l’eccessività spazio-temporale diviene cifra stilistica e ricerca estetica. Temporalità dilatate nella tecnica del rallenty, oppure estremamente contratte da un montaggio serrato, veloce, dinamico; spazi frammentati, abbondanza di dettagli di oggetti e ambienti e di particolari del corpo umano, spesso trasformato in un protocollo di dettagli privi di un sistema di riferimento globale, spingono la scrittura nella direzione di una ricerca lungo i limiti del visibile.
La valorizzazione del dettaglio serve a spostare l’attenzione dalla linearità del racconto al meraviglioso, allo spettacolare. Essa si manifesta infatti attraverso uno sguardo estremamente ravvicinato della macchina da presa all’oggetto, nell’ossessività del punto di vista che mette a fuoco brandelli di una realtà restituita attraverso processi di pianificazione ed esaltazione dei dettagli e dei particolari. Il dettaglio, il particolare non sono più parte di una totalità, indizio di un sistema in cui sono inseriti e a cui rinviano. Essi sono pienamente autoreferenziali, rinviano solo a se stessi, alla propria capacità enfatica: perfetti simulacri della società postmoderna. Il rischio di uno smarrimento etico del soggetto recettore è molto forte, poiché la totalità della persona e del reale viene subordinata a visioni parziali, frantumate, dispersive che cancellano ogni tipo di istanza progettuale forte. Lo sguardo viene in qualche modo de-responsabilizzato rispetto ad una visione d’insieme, rispetto a un centro prospettico unificante. Il “più” di verità o di realtà crea un effetto di distanziazione ludica dall’avvenimento mostrato, che non va certo nella direzione di una maggior comprensione e conoscenza dell’oggetto.

Immagine articolo Fucine MuteNon a caso questa comunicazione iperrealista si avvicina molto alla dimensione del cinema di genere pornografico dove ad esempio la totalità, e quindi l’importanza dell’atto d’amore visto nella sua globalità, è cancellata da una visione coatta, ripetitiva, unilaterale di dettagli e particolari anatomici.
Le strategie della seduzione fredda, dell’osceno programmatico, prendono così il sopravvento sui modelli di razionalità a cui la cultura classica e moderna ci avevano abituato. Una razionalità incentrata sulle strategie di persuasione relative alla produzione di un sapere dell’oggetto, mentre oggi le immagini sembrano più occupate a veicolare dinamiche di seduzione rispetto all’immagine oggetto, film o merce, opera d’arte o prodotto di consumo. La realtà viene prelevata dalla mdp a spicchi, si verifica cioè una sorta di biopsia del reale all’interno della comunicazione iconica che spesso finisce per trasformarsi in una autentica autopsia del referente.
Sia nel caso del dettaglio spaziale che nel caso della frammentazione temporale, il TU che il discorso pone è un TU iper-voyeuristico, punto estremo e luogo privilegiato del vedere senza essere visto, del vedere dal buco della serratura, trattandosi sempre però di una visione parziale pur nella sua completezza localistica. In questo caso uno dei motivi di fascino del mezzo cinematografico fin dalle sue origini, cioè il poter vedere , il poter spiare senza essere visti, trova la sua massima espansione e nel contempo il suo limite massimo nell’oggettiva iperreale. Infatti il meccanismo voyeuristico, proprio del cinema, finisce per avvicinarsi in modo pericoloso nella comunicazione iperreale ai confini dell’osceno. Come abbiamo già sottolineato in precedenza lo sguardo dello spettatore è proposto in bilico fra un ritrovarsi liminale e il rischio di uno smarrimento inteso come perdita della visione dell’oggetto, perché già troppo vicino e quindi in parte sfocato, almeno dal punto di vista cognitivo, e come perdita di quella distanza critica che sola può permettere al fruitore della visione di cogliere il reale nella sua inesauribile complessità e nella sua indefinita totalità. Distanza critica che abbiamo visto essere già stata cancellata proprio all’interno della comunicazione visiva di tipo pornografico. Ci troviamo quindi in presenza di testi che, attraverso protesi tecnotroniche sempre più sofisticate, cercano di cogliere il meraviglioso che la realtà ampiamente e iterativamente ispezionata con sguardi “normali” (oggettiva, ecc.) non sembra concedere più.

Il cinema contemporaneo di connotazione iperrealista stimolato anche dalle nuove abitudini al consumo determinate dal linguaggio pubblicitario e televisivo, un linguaggio estremamente iperbolico, dilatato o contratto, sembra produrre e mettere in scena nella sua fucina di alchimismo iconico un crogiuolo di nuove possibilità linguistiche e di emozioni, rivolte per lo più alla fascinazione, intesa come ricerca di una bellezza strategica, e quindi alla ricerca del meraviglioso che incanta. Si viene così a creare una saldatura fra l’esperienza delle avanguardie americane nel campo delle arti e le teorie del simulacro sull’universo delle comunicazioni di massa all’insegna però di una seduzione artificiale, decontestualizzante, che si contrappone alle possibilità trasgressive che le nuove immagini sembrano possedere, a favore invece di una cultura dell’accumulo che costringe la coscienza della storia a pura cronaca.
Infine si deve mettere l’accento sul fatto che la cancellazione della distanza, dianzi accennata, produce paradossalmente una sorta di censura dello sguardo. Il poter vedere tutto da vicino, la ridondanza di immagini ravvicinate, l’assenza dei campi medi e lunghi nel cinema postmoderno, sulla falsariga della pubblicità e della neotelevisione, sembra creare un senso di onnipotenza dello sguardo, mentre in realtà questo modo di vedere porta ad escludere tutto quello che c’è intorno al particolare inquadrato a tutto schermo. Lo sguardo diventa sguardo programmato per vedere un’unica realtà: proprio e solo quella che il film vuole che lo spettatore veda e non altro. Nello sguardo ravvicinato delle oggettive iperreali lo spettatore è costretto ad un unico modo di vedere, il suo sguardo non può sfuggire all’oggetto. Ecco perché la comunicazione pornografica in senso lato proprio là dove sembra essere estendere i confini verso un’estrema libertà del vedere, pone invece le condizioni di una censura ultima e irreversibile dello sguardo. Di fronte a un dettaglio non sono più libero, posso solo focalizzare la mia attenzione su di esso. La mia adesione non può che essere incondizionata: non ho scelta.
In questo contesto il fine del regista non è di decostruire la macchina cinema o il regime narrativo ma di specchiarsi nella propria scrittura. La scrittura diventa spettacolo di sé, si fa performance, diventa oggetto visivo e spaziale. Lo sguardo deborda dal quadro, eccede (dal lat. ex cedere = andare oltre, andare al di là), allarga i confini del visibile, raggiunge mete impossibili all’occhio umano, ma non all’occhio del cinema.
Lo sguardo della mdp diventa sguardo di angeli, sogno ad occhi aperti, sguardi di cyborg, sguardi virtuali, sguardi inorganici. Lo spettatore viene proiettato nel vedere/sapere/credere di oggetti come proiettili, frecce, ecc. Assume punti di vista non umani. Possiamo veramente dire che la realtà vista con occhi normali non soddisfa più.

negri-5.jpg (5990 byte)Questi occhi di macchine da presa che vedono ovunque senza più distinzione tra esterno e interno, tra estremamente vicino ed estremamente lontano proprio mentre sembrano esaltare il ruolo del visione e della percezione, in realtà affermano solo i limiti e la cecità di uno sguardo de-soggettivizzato, che vive l’esperienza dello spossessamento, della non appartenenza.
Come non aprire una parentesi e richiamare alla mente, a questo proposito, le immagini dell’intervento dell’aviazione NATO nei cieli di Bosnia, trasmesse a più riprese dalla televisione e riportate sui giornali? Fotogrammi fissi o in movimento in cui si vede un bersaglio, nel nostro caso la postazione di artiglieria serba piuttosto che il deposito di munizioni, incorniciato (e qui il rinvio alle inquadrature in soggettiva del terminator è d’obbligo) nel reticolo di un mirino che focalizza il proprio target, mentre un istante dopo vediamo il bersaglio inquadrato saltare in aria colpito da una bomba intelligente. Soggettive anche queste che rinviano al concetto di sguardo di nessuno o di sguardo inanimato. Lo spettatore si trova a essere protagonista di un vedere preciso e nel contempo irreale o, per meglio dire, plus-reale, eppure nessuno guarda, apparentemente non c’è alcun soggetto che guida la partita, lo sguardo (e forse la responsabilità?) sembra appartenere solo a se stesso e interfacciare solo la macchina programmata per compiere nel modo più adeguato possibile il suo lavoro di distruzione. Non si vedono uomini sparare e, a dire il vero, neppure uomini morire. Tutto sembra estremamente artificiale, come se fossimo collocati all’interno di un perfetto e spettacolare videogioco. Le inquadrature rinviano a un punto di vista neutro, meccanico, che ricerca in modo automatico il proprio bersaglio, libero da ogni regola, che non sia quella dell’esattezza per colpire con efficacia. Aerei senza pilota, ancora macchine sofisticate prive di una guida umana, avevano sorvolato la zone in precedenza per fotografare quei bersagli che poi altri aerei avrebbero localizzato con telecamere elettroniche e distrutto con missili teleguidati.
L’esperienza del farsi cosa che passa attraverso questa rappresentazioni della realtà appare netta. La moltiplicazione di punti di vista inerti, privi di identità così come il progressivo sfaldamento della soggettività, indicano un perdere se stessi, un sentirsi tramite, un passaggio in qualcosa che ci è estraneo. Esibizionismo iconico, estremismo sensitivo, reificazione degli sguardi, frammentazione dei soggetti: sembrano essere queste le nuove misure, le nuove regole, a cui il prodotto cinematografico postmoderno obbedisce, in sintonia speculare con l’aria che tira nella società e nella cultura di fine secolo e di fine millennio. In questo modo i registi della postmodernità si divertono a creare una vasta gamma di sguardi che possiamo definire postreali, in quanto il realismo lascia il posto al metarealismo e al surrealismo (sovrappiù di reale). La scrittura si fa pirotecnica, parossistica, con il risultato di porre l’accento sul supporto dell’immagine più che sul suo contenuto, di investire di intensità il significante più che il significato, di trasformare in vittima lo spettatore più che l’oggetto della sua osservazione. Questa scrittura apre all’irrapresentabile, allarga a dismisura i confini del visibile, a voler veder addirittura dal di dentro, abbattendo le barriere dentro-fuori/interno-esterno.

Immagine articolo Fucine MuteCome accade nel film di Almodovar Kika (1994) la mdp arriva ad essere una protesi permanente del corpo umano, un suo prolungamento, un tecno-innesto. Spesso queste scelte di regia sono assolutamente gratuite, cioè puramente funzionali a promuovere effetti ludico-visivi al fine di stupire, meravigliare, affascinare, come accade nei film più commerciali. Qualche volta invece assumono connotazioni di ricerca poetica sulle possibilità dello sguardo come accade in registi del calibro di Wenders o di Herzog. Vi è da parte del regista comunque una sorta di autocompiacimento narcisistico in queste accensioni della scrittura. Mentre sul versante spettatoriale il fine diventa quello di eccitare lo spettatore, di mantenere lo spettatore in uno stato perenne di eccitazione-sospensione fondata non tanto sulla storia, ma sull’immagine che sollecita un sentire forte più che un sapere, una ricerca esasperata di sensazioni estreme, di emozioni limite. Far emozionare, stupire con effetti speciali, ammiccare con citazioni, è più importante del messaggio trasmesso, della storia raccontata. Quest’ultima spesso è solo un pretesto per mettere insieme immagini forti, estreme, veloci, che colpiscono l’occhio più che il cuore o la mente dello spettatore. I film assomigliano sempre più a videogiochi: l’aspetto ludico è dominante. Le sale cinematografiche si trasformeranno ben presto in videogiochi (sistema Imax) dove lo spettatore sarà sempre più coinvolto sensorialmente dentro il flusso di emozioni che le immagini trasmettono. La comunicazione diventa comunione emozionale, che si realizza soprattutto a livello epidermico-sensitivo. La visione di un film sarà sempre più simile alla visione di uno spettacolo pirotecnico: cascate di luci e colori che colpiscono l’occhio, rumori sempre più assordanti colpiscono l’orecchio. Ma alla fine che cosa resta?

Aveva forse ragione Nietzsche quando affermava che “La cosa che più importa all’uomo moderno non è il piacere o il dispiacere ma l’essere eccitato”, anche se, a mio avviso, dovremmo sostituire al sintagma uomo moderno quello di uomo postmoderno.
Per concludere vorrei porre l’attenzione su alcuni principi che possono essere assunti quali fari di riferimento, almeno per quanto riguarda l’audiovisivo postmoderno.
In primo luogo possiamo dire che in questo tipo di scrittura domina il principio della contingenza. Nelle storie deboli della postmodernità tutto può accadere per caso, l’occasionalità predomina. Non ci sono e soprattutto non servono spiegazioni razionali, motivazioni logiche, ricerca di causalità. Non interessa il prima e il dopo, la causa e l’effetto, ma solo il simultaneo casuale. prevalgono le strutture itineranti e casuali. In questo caso il passaggio dal caso al caos è semplice.
In secondo luogo là dove il principio della contaminazione si afferma come il principio del tutto incluso, del tutto che può convivere in un unico contenitore, nascono prodotti all’insegna dell’ibridismo, mutanti in continua oscillazione tra genere maschile e femminile (scambio di ruoli, transessualismo, confusione dell’identità sessuali, Internet, ecc.), tra genere animato e inanimato (il cyborg, le protesi come tecnoinnesti), tra normalità e trasgressione, tra salute e follia, tra ordine disordine, tra basso e alto, fra trash e sublime.
In terzo luogo nei film postmoderni vige anche il principio dell’accumulo e del collezionismo. Tante sparatorie poco realiste, tanto sangue, tanto sesso. Si offre una visione del mondo come quantità, elenco, collezione, accumulo di oggetti, storie, personaggi, chiacchere in orizzontale senza profondità, generi cinematografici, citazioni dalla storia del cinema. Ma soprattutto collezione (intesa come accumulo casuale) di sensazioni estreme, di emozioni limite, di visioni estatiche. Si dice che l’oggetto artistico postmoderno ha una funzione allucinatoria e per estremo l’effetto estetico diventa effetto estatico (estasi come uscita da se stessi, vedi droga ecstasy).

Immagine articolo Fucine MutePossiamo infine affermare che in questo modo il rapporto fra mondo finzionale del racconto e mondo reale viene drammatizzato, narrativizzato. Si crea una tensione non risolta tra finzione e realtà che produce un regime di indecidibilità tipico delle componenti culturali della società postmoderna: devo credere o non devo credere, devo accettare o non accettare la storia che mi viene raccontata, so che non è vera, mi viene anche detto eppure si continua a raccontarmela. Ci credo forse perché come Peter Pan ho ancora bisogno di una mamma che alla sera mi racconti le storie, anche se ora diventato adulto so che queste storie non sono vere, ma sono solo belle favole. Se osserviamo quanto accade in televisione con “Stranamore”, “Carramba che fortuna” e tanti altri programmi similari, la risposta non può essere che questa: la fine della modernità, la morte dell’illuminismo e la fine dei grandi racconti di emancipazione affidati alla razionalità ci hanno lasciati orfani e allora ecco affacciarsi le piccole storie del quotidiano. Vere o false che siano non importa, perché comunque rispondono a un nostro bisogno. Il sapere e il credere vengono progressivamente sostituiti dal sentire. Cinema e televisione di questo fine millennio raccontano storie da vivere emotivamente, più che da accogliere razionalmente. Da “toccare” con i sensi più che da sapere o da credere. Non a caso l’Auditel televisivo è un misuratore di faticità, cioé di contatti, più che di percezioni (inerenti a processi di attenzione), cognizioni (inerenti a processi di trasmissione del sapere) e assiologie. Una cosa appare certa: l’orizzonte culturale in cui ci muoviamo vede il primato del sensibile sul sensato.

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