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Cinema

Il Cinema inglese e la Working Class (II)

Oltre all’uso del cinema come ottimo mezzo promozionale, il movimento cooperativo ha, nei suoi confronti, un atteggiamento spesso contraddittorio. È, al tempo stesso, moralista, libertario e marxista. Moralista nel senso che, per alcuni critici del movimento stesso, il cinema è “culturalmente senza radici”, servo delle ragioni economiche. La loro missione è quindi quella di migliorarlo, di arricchirlo di contenuti e di eticità. In diretto contrasto è la posizione libertaria che vede nel cinema l’intrattenimento ideale per la working family, offrendo ad essa “un piacevole contrasto alla vita quale è realmente”. Infine marxista, nell’uso educativo che vuole fare del cinema, dell’analisi e nel dibattito che sempre accompagnano le proiezioni, nell’attenta osservazione della sua influenza, negli articoli sulla legislazione riguardante il cinema, sulla censura, sulla critica, su “come si fanno i film” e sulla dominazione del cinema hollywoodiano.
Purtroppo il movimento cooperativo ha fallito nello sviluppo di una teoria sistematica riguardante il cinema, né ha prodotto, salvo qualche rara eccezione, film di un qualche valore artistico, pur rimanendo uno degli aspetti culturalmente più avanzati e, dal punto di vista organizzativo e produttivo, più interessanti di quegli anni.
Nella storia del cinema inglese, il lavoro del movimento cooperativo non ha avuto quasi nessun rilievo, ma è interessante in quanto è l’unico vero esempio di cinema della working class e per la working class, almeno fino alla fine degli anni Sessanta.

L’epoca della grande illusione

Immagine articolo Fucine MuteTuttavia, solo dalla metà degli anni Quaranta, la classe operaia entra nel cinema inglese in modo consapevole (se trascuriamo l’esperienza del movimento cooperativistico), senza che le motivazioni propagandistiche (tipiche del cinema durante la guerra), gli interessi pedagogici e i finanziamenti pubblici volti a “educare le masse” (caratteristici di certo documentarismo degli anni ’20 e ’30) ne compromettano l’autenticità.
É solo dal dopoguerra, che alcuni registi iniziano a porsi con interesse di fronte alla vita quotidiana e alle battaglie della low-middle class, facendola oggetto di film nuovi, rivoluzionari nei contenuti e nelle tecniche di ripresa, trasgressivi nell’estetica e nel linguaggio.
Nel cinema, il richiamo alle responsabilità sociali intravisto già verso la fine della guerra, si afferma grazie anche alle svolte politiche.
Con la schiacciante vittoria laburista e il conseguente Governo Attlee si ha una notevole svolta a sinistra, la più radicale di tutta la storia della Gran Bretagna. Il terreno è stato preparato già durante la guerra con importanti riforme sociali: un progetto di previdenza sociale che tutela tutti i cittadini, con sussidi di maternità, malattia, disoccupazione, ecc., piani di sviluppo per le zone più arretrate (in particolar modo nel nord dell’Inghilterra), la nazionalizzazione del 20% delle industrie, l’assistenza medica gratuita a tutti i cittadini, nuovo interesse per le attività culturali e una seria economia culturale sostenuta dal Governo.

In realtà la politica laburista, nonostante le importanti riforme attuate, durante i sei anni di governo, dimostra di non creare una vera rottura con la tradizione conservatrice passata, né con quella che si riaffermerà negli anni a venire, bensì instaura “una socialdemocrazia, basata su un’economia mista e uno Stato assistenziale”, mantenendo il consenso pubblico per circa vent’anni, a prescindere dal fatto che il Governo sia laburista o conservatore. Questo determinerà non pochi problemi per la reale coscienza politica della popolazione, in particolare quella della working class, che si adagerà su uno Stato assistenzialista e sarà sempre meno in grado di portare avanti le proprie rivendicazioni.
Il boom economico, che segue all’intensa attività riformista alla fine degli anni Quaranta, per quanto fondamentale per il miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione, si rivela qualcosa di estremamente passeggero e illusorio, in particolare per le classi medio-basse. Sono queste, in primo luogo, ad inseguire i miti del consumismo, che si dimostreranno fatali per la coscienza di classe, l’unionismo e le stesse condizioni economiche di questi ceti, che chiaramente non potranno stare al passo.
I tentativi di uniformare culturalmente le diverse classi sociali, tenendone in realtà alcune dipendenti economicamente da altre, saranno tipici tanto dei governi tories, che di quelli laburisti e gli interventi a danno della classe lavoratrice sempre più pesanti.
Immagine articolo Fucine MuteLa working class si lascia andare al benessere del dopoguerra, dando così inizio alla sua sconfitta (che, come vedremo, culminerà alla fine degli anni Settanta, con il Governo Thatcher), riuscendo sempre meno a fare fronte comune davanti ai gravi problemi economici che segneranno il Paese di lì a poco.
Di fatto la pur importantissima svolta politica del dopoguerra, è una rivoluzione apparente, una mild revolution. Michael Balcon (forse il principale produttore cinematografico dell’epoca) delinea lucidamente la situazione vissuta da lui e da quasi tutti gli uomini di cultura, i letterati, i cineasti all’epoca:

“…eravamo gente della classe media, cresciuta in ambienti della classe media e con un’educazione abbastanza convenzionale. Non volevamo abbattere le istituzioni… Facevamo parte della generazione dell’immediato dopoguerra e votavamo laburista per la prima volta dopo la guerra; questa fu la nostra rivoluzione moderata.”

Nel mare di film di maniera del dopoguerra, dai toni languidi e con una classe operaia fasulla, interpretata da attori fin troppo evidentemente borghesi (il cinema che generalmente va sotto il nome di Ealing comedy), emerge anche qualcosa di più coraggioso: violenza e passione o, si potrebbe dire meglio, rabbia e sesso irrompono anche nel cinema realista, quello sulla working class delle tristi periferie suburbane. Un elemento vitale entra finalmente nelle fabbriche e nelle cucine degli operaie ed è qualcosa che sconvolge l’opinione pubblica. Niente più falsa solidarietà di classe, lavoro indefesso di un popolo per il proprio Paese, pietismo per sbandati senza lavoro, cieco ottimismo verso un futuro migliore. Tra la working class entrano, con sorprendente realismo, la rabbia individuale per i soprusi di classe, il tradimento, la disillusione delle nuove generazioni. Tutto quanto è sconveniente da mostrare entra a forza nel cinema, ed entra a braccetto della working class.
Su questo punto si potrebbero fare due ordini di considerazioni: la prima è che l’ipocrisia borghese, ancora dominante, relega e addossa alle classi più basse i comportamenti e le caratteristiche che considera moralmente ed eticamente riprovevoli; la seconda è che la working class, proprio perché contraddistinta da maggior spontaneità e “sincerità etica”, mostra finalmente gli istinti e le passioni comuni a tutti gli esseri umani, smascherando ogni ipocrisia.

Immagine articolo Fucine MuteNon siamo ancora al radicalismo degli ultimi anni Cinquanta (se mai di radicalismo si può parlare nel cinema inglese, eccezion fatta per alcuni singoli autori), ma troviamo una piacevole novità nel capolavoro di un regista “deviante”, rispetto al gusto delle commedie dell’epoca, Robert Hamer, autore del bellissimo It always rains on Sunday (t.l. Piove sempre di domenica), del 1947.
Ma la fine degli anni Quaranta presenta già quelli che saranno lo spirito e le spinte amare e violente degli anni Cinquanta. Ha già in nuce la riflessione sociale e lo sguardo, senza veli, sulle piccole realtà, povere e “immorali” del proletariato urbano, e c’è già qualcosa sullo scontro generazionale (oltre a quello economico), che è l’elemento chiave del cinema inglese degli anni Cinquanta, fino all’inizio degli anni Sessanta. Gran parte di tutto questo, lo troviamo già in It always rains on Sunday, unico film veramente importante di questo periodo ed emblematico anticipatore degli umori e dello stile degli anni successivi.
A questo punto, lo stile di vita inglese cambia radicalmente, anche in conseguenza dei cambiamenti politici. Il 1951 divide gli anni austeri del riformismo laburista, dall’affermazione del consumismo e della cultura di massa americana introdotti dai conservatori, che rimarranno al Governo per più di tredici anni. La vittoria dei conservatori è dovuta al ritorno al tradizionalismo della piccola borghesia e all’efficacia del New Conservatism, nuovo vassallo del Welfare State.
Sono gli anni del boom economico, dell’imborghesimento collettivo dovuto all’illusione di una società senza classi. Purtroppo, al contempo, viene meno una certa coesione culturale all’interno dei diversi gruppi sociali, che, in realtà, continuano ad esistere, a causa della cultura di massa e della messa in discussione delle istituzioni e dei ruoli tradizionali. Da qui l’emergere di molti social problem films e l’esplosione della cultura giovanile.
Ultimo atto del Governo laburista è l’istituzione del Festivai of Britain, che cerca di rilanciare la cinematografia nazionale. è un totale insuccesso. Purtroppo però per il cinema inglese è solo l’inizio.

L’inizio degli anni Cinquanta vede un cinema che corre dietro alle mode, proclama il riscatto della working class, confondendolo con l’ondata terribile del consumismo: la lavatrice in ogni casa, il juke-box, il luna park del sabato sera e la televisione per tutti. In più c’è il magnifico esempio americano! Ed ecco che la maggior parte dei film fatti in questi anni sono americani, sia nei finanziamenti che nei modelli e nello stile di vita proposti.
Il guaio è che si verifica realmente un’illusione collettiva, in particolare da parte della working class, ormai convinta che quella sia la vita reale che finalmente si prospetta loro per il futuro, dopo i difficili anni della guerra e l’austerità laburista. In questo modo si allentano anche le tensioni sociali, o almeno questo è ciò che il Governo conservatore e i mass media vogliono far credere: pare che adesso tutti stiano bene. Le cose però sembrano non stare proprio così…

Gli arrabbiati e i tanti mali dell’Inghilterra

Dietro all’ondata dei teenagers, delle utilitarie e dei dischi americani, nel pieno del boom economico inglese, il miglioramento delle condizioni di lavoro e del trattamento salariale dei lavoratori è assolutamente effimero e passeggero. Uno stato di ansia e preoccupazione sempre più diffuso si comincia ad intravedere a partire proprio dal mondo letterario, dal teatro e dal cinema strettamente legati grazie ad alcuni intellettuali, scrittori, registi e critici che, verso la metà degli anni Cinquanta, sono i primi a registrare quanto di fasullo ci sia dietro a tanto sfavillio.
La cosa non avviene tutt’a un tratto e, già in piena rinascita economica, troviamo le prime tensioni. Sono quelle dei giovani che esprimono un malessere crescente nella ribellione verso l’altra generazione, considerata statica, moralista e incapace di vedere l’ipocrisia della società. E sono proprio i giovani ad avere ragione, presentendo nella sfrenata corsa al benessere quella che sarà la rovina della loro generazione: niente più vecchi valori in cui credere, ma neanche valori nuovi per rimpiazzarli, niente più minime garanzie per i lavoratori perché sembravano non servire più in tanto benessere, niente più solidarietà di classe in quanto era stato detto che le classi non esistevano più, e un impressionante abbrutimento culturale.
In pochissimi anni sarà televisione a porsi come un’alternativa seria al cinema frivolo di questo periodo, riprendendo, appunto, i problemi della working class, per parlarne, in ogni casa e in prima serata, proprio alla working class.

Immagine articolo Fucine MuteNegli anni Cinquanta la situazione politica, e soprattutto quella sociale, è profondamente cambiata. Intellettuali di sinistra e laburisti si trovano a dover affrontare una realtà che non riescono a classificare e apparentemente lontanissima da tutto quello in cui avevano sempre creduto: una classe operaia disunita, che rifiuta il concetto stesso di classe, un Partito Laburista a cui manca una classe a cui fare riferimento e nell’eterna contraddizione tra idealità e realtà, tra diritti sociali per cui combattere e un Paese da governare. A loro non rimane che tentare di individuare quali siano i mali dell’Inghilterra negli anni Cinquanta (e poi Sessanta), che non sono solo mali economici, ma sociali e psicologici, e non sono più i mali di una classe ma di singoli o gruppi devianti: la malattia mentale (molto edulcorata, fino agli anni Sessanta è un argomento tabù), la prostituzione. E ancora la violenza giovanile, ritenuta figlia del consumismo, e il razzismo che comincia a farsi sentire e vedere per le strade delle grandi città. Il 1956 è l’anno degli scontri a Notthing Hill, che sono solo l’inizio di un periodo difficilissimo per l’Inghilterra, che si rivelerà essere un Paese non proprio tollerante.
La lotta di classe sembrava essere finita e avevano vinto i conservatori con il loro progressissmo moderato. I laburisti sembrano aver accettato il nuovo stato delle cose, cercando adesso sostenitori fra la nuova working class, i “colletti bianchi” in rapido aumento. D’altra parte anche i conservatori sostengono prima di tutto la causa dei nuovi gruppi sociali, in particolare i lavoratori del consumismo e l’intellighenzia tecnica e tecnologica. La maggioranza degli elettori si trova quindi al centro.

barbo-16.jpg (4238 byte)I primi anni Cinquanta sono stati gli anni del boom e del consenso, dell’imborghesimento della classe operaia, convertita ai valori della middle-class. Purtroppo però, entro breve, si comprende che la realtà inglese è quella della crisi della bilancia dei pagamenti, della cassa integrazione di massa, di un vertiginoso aumento della pressione fiscale sulle classi più deboli. È un Paese vissuto al di sopra delle sue possibilità e seduto sul proprio improvviso benessere, dimentico delle leggi del lavoro e della capacità di organizzazione e contrattazione della classe operaia; tutto ciò anche in seguito all’inefficienza laburista e all’avventatezza nella politica estera. Fanno presto quindi a riemergere l’iniquità e le divisioni di classe. Dalle prime avvisaglie di questo malessere e dalle irrisolte inquietudini latenti nasce il Free cinema — un movimento cinematografico fortemente innovativo sul piano delle tecniche e dei temi trattati, legato al gruppo degli angry young men e facente riferimento alla sinistra progressista della New Left, che esprimerà la disperata constatazione dello sfaldamento del mito del consumismo e dell’illusione (o una perversa ideologia?!) della caduta delle barriere di classe. A questo punto i mali dell’Inghilterra esplodono in modo violento, manifestandosi in varie forme e in varie arti. Per quanto possa sembrare assurdo, salvo rarissime eccezioni, dopo il pacato social problem film e il più arrabbiato Free cinema, il cinema inglese non parlerà più di questioni sociali per molto tempo.

Immagine articolo Fucine MuteNel corso degli anni Sessanta la working class tornerà ad essere classe sociale e riprenderà il suo ruolo, anche se meno ascoltata, ma il cinema non riprenderà più la working class. Richard Hoggart esprime così il suo giudizio sulla società inglese di questi anni: “La cultura di classe è stata erosa dall’opinione di massa” — condannando, insieme con la perdita di una cultura di classe, comportamenti anti-sociali e violenza, associati solitamente ai teenagers. Nel parlare allora di un cinema sui teenagers, sulla delinquenza giovanile, dalla sessualità esplicita e provocatoria, non si dimentichi un punto fondamentale, e cioè che la cultura dei teenagers è una cultura pienamente working class, nell’origine e nella pratica, pur nell’accesa proclamazione della classlessness delle nuove generazioni.
La divisione tra le generazioni ha sostituito le separazioni di classe come asse della struttura sociale, pur rimanendo di fatto iniquità fra le diverse classi nello stile di vita e nelle opportunità dei giovani.
Cultura di massa e violenza servono apparentemente ai giovani per riscattarsi dalla propria condizione: disoccupazione, mancanza di istruzione, subordinazione ai valori degli adulti.
Se la cultura di massa, in particolare per la rapidissima diffusione della televisione — che, nel bene e nel male, necessariamente gravita verso un comune denominatore più basso e popolare rispetto al cinema — anche tra la classe operaia, è stata in qualche modo veicolata da situazioni esterne, diverso è il discorso riguardante l’esplosione di violenza, inevitabilmente legato alle persistenti misere condizioni di vita e di lavoro di una grossa parte della popolazione; sono un fatto reale nella generale negazione dell’esistenza, negli anni Cinquanta, di una struttura di classe e degli svantaggi ad essa legati. Ecco che in questi anni i giovani rappresentano i gruppi sociali più disagiati e insofferenti, quelli che più spesso ritornano nello specchio della realtà che vuole essere il social            problem film.

Un altro aspetto interessante della società inglese degli anni Cinquanta è quello del lavoro femminile. Già durante la guerra le donne avevano iniziato a lavorare fuori casa, sostituendo gli uomini impegnati al fronte. Ma se a quel tempo avevano significato la grande risorsa economica del Paese, adesso il loro uscire di casa e andare a lavorare non viene più molto ben visto: oltre a risultare inopportuno, viene considerato dannoso per la struttura della società contemporanea. In particolare in questo viene individuata la causa della disgregazione delle famiglie: l’aumento dei divorzi, la perdita dei valori e, cosa assai grave, la causa di figli “disturbati” e della delinquenza giovanile, mancando l’affetto e la figura materna nel nucleo familiare.
Le preoccupazioni, non solo dei benpensanti, ma dell’opinione pubblica inglese, si estendono al “dilagare” dell’omosessualità e della prostituzione e il conseguente clima di panico morale che attanaglia l’Inghilterra provoca il ritorno, anche e soprattutto nei media, di un intransigente perbenismo, che pervade anche le produzioni cinematografiche.
In tutto questo, tra il capitalismo assistenzialista e lo spettro della guerra fredda, c’è il paradosso di un mondo intellettuale “che appare conformarsi piuttosto che ribellarsi al resto della società”. La sinistra intellettuale e il cinema da essa espresso, di fatto ignora un universo sofferente, quello di una classe lavoratrice fatta di donne e immigrati discriminati, disoccupati.
Ultimo elemento da considerare, riguardo al il cinema di questi anni (incluso il Free cinema), è il lavoro. Sebbene sia il lavoro — con i suoi spazi e i meccanismi di produzione — a definire la working class come tale, è notevole quanto siano evasivi i film, del Free cinema e non solo, quando si tratta di mostrare effettivamente il lavoro e le persone al lavoro. Non si approfondiscono le ragioni economiche delle situazioni rappresentate, e c’è una particolare tendenza a ridurre le relazioni sociali in caratteristiche individuali.

Immagine articolo Fucine MuteIl problema oggi è che troppo spesso il solo fatto di mostrare sullo schermo la classe operaia è stato considerato una cosa buona, senza badare al modo in cui questo è stato fatto. Abbiamo visto come si sia data troppa enfasi all’individuo, rispetto alle situazioni collettive, alle abitudini culturali, rispetto alle relazioni politico-economiche, e una tendenza comune a giudicare i personaggi dall’esterno, la sessualità esplicita “risolta” con troppo moralismo residuo. Per questi aspetti c’è una grossa differenza con il lavoro, in ambito letterario e teatrale, degli angry young men.
Anche la New Left, che tanto ha influenzato gli autori del Free cinema (anche dal momento che alcuni di essi vi facevano formalmente parte), ha commesso un madornale errore nel considerare i beni conquistati dalla classe operaia, grazie al consumismo, come garantiti, mentre la storia dimostrerà che non sarà così. Il cinema più “serio”, impegnato, si è preoccupato di fronte ad una classe operaia dedita al consumismo e per questo superficiale, ma non si è preoccupato di indagare se il benessere e l’imborghesimento fossero reali.
Tutto questo, unito all’ambiguità politica latente che riscontriamo, tanto nel messaggio del cinema sociale, quanto in quello del Free cinema, alla pericolosa negazione dell’idea di classe, ad una rivoluzione estetica più apparente che reale, fa sì che questa sia un’età di grandi illusioni per il cinema inglese e per l’intera Inghilterra.
Il social problem film e soprattutto il Free cinema hanno fatto un enorme passo avanti nel portare sullo schermo situazioni e volti nuovi, in particolare nel rappresentare in modo più sistematico ed onesto la working class, con diverse tecniche narrative, nuovi e più obiettivi punti di vista e con qualche filosofia di fondo. Per il cinema britannico ciò ha rappresentato un importantissimo momento di svolta. Questo però è stato solo il primo passo.
Ironicamente, come ho già detto, sarà proprio la maggior rivale del cinema, la tanto vituperata televisione, a risolvere le contraddizioni e, in parte, a superare i limiti del cinema impegnato.

Sessanta e Settanta: la televisione impegnata e il cinema alternativo

La BBC prima e altre emittenti, anche commerciali, poi, si pongono nella sfera della coscienza sociale, di una programmazione che raggiunga la working class, parlando della working class.
Una novità interessante è rappresentata appunto da alcuni serial televisivi di ambientazione proletaria: parecchie affinità con i film contemporanei ambientati nel nord industriale, uso di slang e parlata popolare, vicende quotidiane di famiglie della low class in un quartiere operaio di una grande città, molti attori provenienti proprio dalla working class. Tutto questo unito a tecniche di ripresa realiste e alla capacità di registi e sceneggiatori di talento, che da qui passeranno al cinema.
Ci sono poi prodotti di più alto prestigio, fondamentali per registi e sceneggiatori che daranno vita alla rinascita del cinema inglese, primi fra tutti Ken Loach e Mike Leigh. Il primo, un regista tenacemente impegnato, autore di docu-drama politici e arrabbiati; il secondo, un regista dal sorriso dolce-amaro, autore di film ironicamente dolorosi.
Loach parla di disoccupazione, dei senzatetto, di ragazze madri, degli scioperi, degli scontri fra lavoratori e polizia, e lo fa ancora oggi. Forse l’unico rimasto a farlo, credendo che

“il sistema attuale non può andare avanti così: la gente non trova lavoro, il divario tra ricchi e poveri si sta allargando sempre di più. Prima o poi si arriverà al collasso di questo sistema, e le cose dovranno cambiare. Quello che verrà fuori dal collasso speriamo sia il Socialismo. Negli anni ’20 dal collasso era venuto fuori il Fascismo… Comunque c’è sempre la speranza che le cose cambino in meglio, guai se non ci fosse!”.

Immagine articolo Fucine MuteMike Leigh è più silenzioso e sorridente, i suoi film parlano della vita amara e irriverente della working class: famiglie proletarie che si ritrovano nel bel mezzo di una crisi, giovani idealisti ben più vecchi del loro tempo, situazioni e personaggi che Leigh guarda magari con la compassione di chi conosce bene la vita del proprio Paese e vede le cose peggiorare, ma vede, anche, l’incapacità della piccola gente di fare fronte a questa situazione, di arrabbiarsi per le ingiustizie subite, la vacuità tanto di quelli che vogliono “arrivare”, degli aspiranti borghesi, che di coloro che parlano per -ismi, rincorrendo vecchie ideologie.
Siamo ormai negli anni Sessanta, gli anni dell’euforia, della costruzione dei bei sobborghi urbani per il proletariato, ma il neo-eletto Governo laburista è tormentato dalle difficoltà economiche e dall’agitazione industriale, dovute all’avventatezza politica e alla spregiudicatezza economica dei governi precedenti.
Ai film sulla nuova working class, nella società delle mille opportunità che questa classe non sa cogliere, una società confusa e difettosa, si affiancano altri film, che parlano di un’altra classe operaia. Quella che non vive nelle grandi città, che non è mai stata in vacanza nemmeno a Blackpool. E quella che non chiameremmo neanche working class ma sottoproletariato, che anche Loach ha toccato solo in parte: è quella delle fabbriche, per cui il dibattito sindacale e la questione della leadership sono ancora lontanissimi, è quella delle miniere del Galles e della Scozia.
Rimane infine, fra gli anni Sessanta e Settanta, anni durissimi per la classe operaia inglese, recepiti quasi per nulla dal cinema “ufficiale”, un altro cinema impegnato, di intervento sulla realtà, educativo: quello dell’ independent film movement.

Tuttavia, anche la maggior parte dei filmakers di questo cinema indipendente, come è stato in passato, proviene dalla classe media e medio-alta, radicata nelle politiche della New Left: quelle per il disarmo nucleare, di opposizione alla guerra in Vietnam e, in politica interna, di supporto ai movimenti delle donne, delle minoranze etniche e così via. Ma la New Left, pur sostenendo certi temi e certe politiche, si pone lontano sia dal Partito Laburista che da quello Comunista, e fuori da qualsiasi organizzazione o movimento per il lavoro. E la borghesia progressista trova, nel cinema, la sua espressione culturale in questo movimento indipendente volto a creare un cinema “parallelo” o “alternativo”. Come punto di partenza si vogliono ricercare altri momenti di opposizione nella storia del cinema inglese, ritrovandoli principalmente nel cinema dei lavoratori degli anni Trenta. Anche quello era stato un momento di recessione e disoccupazione di massa, di grandi scioperi, di crisi dei due principali partiti di sinistra. Poi c’era stata la guerra, con la promessa di un futuro migliore garantito, che si è visto non essere affatto garantito.
Quindi, l’emergere dell’independent film movement va visto in questo contesto socio-economico, venuto dopo gli anni del consenso e di riforme sociali paternalistiche. Il movimento indipendente rimane comunque isolato nel dibattito culturale di questi anni.
Nel corso degli anni Settanta le condizioni della classe operaia, e della low-middie class in generale, peggiorano, fino al tracollo degli anni del Governo Thatcher. Pochissimi però sono i film che ne parlano o, quantomeno, fanno qualche riferimento alla situazione sociale e politica, con l’eccezione di Loach, Leigh, qualche altro autore isolato come Bili Douglas e Karl Francis, e il “cinema alternativo” legato ai collettivi e alle avanguardie.

La Brìtìsh Renaissance in una società complessa

All’inizio degli anni Ottanta le cose cominciano a cambiare. Con l’aggravarsi delle tensioni sociali ed economiche dovute alla politica del Governo Thatcher, il cinema britannico sente nuovamente l’esigenza di tornare al sociale, dopo anni di disimpegno. Il Governo attua i primi piani di privatizzazione, con licenziamenti di massa, una disoccupazione che in pochi anni arriva a quattro milioni e mezzo di persone, il completo annullamento, tramite alcune leggi varate nei primi anni Ottanta, della possibilità di intervento e di contrattazione da parte dei sindacati, l’aumento dell’imposizione fiscale, in un clima di recessione generale. Continua poi il problema dell’Ulster, a cui si sommano un aumento delle tensioni razziali (con l’aggravante di leggi del Governo volte a “scoraggiare” l’immigrazione) e gli scioperi e le dimostrazioni operaie. Per questi motivi ritorna l’esigenza, da parte di molti registi, di usare il cinema come mezzo di denuncia sociale, e il cinema, in questo, viene supportato dalla televisione, in particolare dalla neonata Channel Four, con programmi innovativi e produzioni coraggiose.
Adesso però, tutto sembra essere più complicato di un tempo. Le tensioni sociali non sono più solo quelle tra due classi (o al massimo tre), diverse per reddito e stile di vita o tra padri e figli, ma, tra gruppi etnici diversi, tra gli “inseriti” e gli emarginati e gli emarginati sono tanti e diversificati: le tante persone sole, i tossicodipendenti, gli omosessuali (anche se a questo proposito si sviluppa ben presto una cinematografia a sé stante), le persone malate, quelli che semplicemente non riescono a stare al passo con gli altri. E ancora tra lavoratori e padroni, tra lavoratori e disoccupati, tra uomini e donne, tra adulti e bambini, fra adolescenti sempre più disperati e cattivi, tra la popolazione e un Governo profondamente iniquo e razzista.
In pochi anni tutta la follia latente, tutti gli outsiders di una società regolata da leggi economiche ingiuste e culturalmente repressa, esplodono in un cinema che ha perso tutto il leggendario riserbo britannico, che rinasce dalle sue stesse ceneri, ricominciando a raccontare i lati oscuri della società, che per tanto tempo ha trascurato, osservando con sguardo lucido — e a volte spietato — quello che sta accadendo in Inghilterra.

Immagine articolo Fucine MuteIl cosiddetto “nuovo cinema inglese” ha l’effetto di un pugno nello stomaco: è diretto ed essenziale, spesso sgradevole: poche facce carine, pochissimi sentimentalismi, nessuna compiacenza. è un cinema per cui il termine “ordinario” assume un accezione positiva. è finalmente la realtà così com’è, unito comunque ad una straordinaria capacità di usare la macchina da presa (anche se a volte in modo eccessivamente “furbo”), e questo fa sì che si allontani dal realismo sociale, per approdare alla realtà raccontata da sceneggiatori capaci e mostrata da registi esperti. Primo fra tutti Stephen Frears che, nei suoi primi films, rappresenta appunto “la vita sotto Mrs Thatcher”. È così che Frears ricollega l’atmosfera e le immagini dei suoi films al clima sociale che lo circonda:

“Se mai mi chiedessero di riassumere il soggetto di Sammy e Rosie get Iaid in due parole, risponderei: la vita sotto Mrs. Thatcher. La Londra di oggi, tra sommosse, razzismo e sesso. La Gran Bretagna è un paese spezzato in due dalla povertà e dalla disoccupazione. Alla maggiore tolleranza della gente corrisponde un Governo sempre più intollerante. Un Governo che rappresenta una minoranza, che fa gli interessi di pochi ricchi che concentrano su di sé quasi tutta la ricchezza del paese. Un Governo che sopravvive solo perché l’opposizione è divisa sull’eterno dilemma: socialismo o socialdemocrazia?”

Ma la classe operaia di Frears, che poi è anche quella dell’ultimo Loach e di molti giovani registi inglesi, è fatta anche di piccola gente comune, un po’ goffa, un po’ patetica, le cui “cadute” non sembrano essere solamente quelle di una classe sociale, ma diventano fallimenti personali di piccola gente, che non riesce a gestire i rapporti interpersonali, che è schiacciata tra il forte senso di amicizia e la possibilità di guadagno, in una quotidiana lotta morale ed umana di chi cerca di vivere come può. C’è poi anche il fallimento, ormai di vecchia data, di un classe sociale che, per quanto se ne sia detto, esiste ancora ma non è più unita ed organizzata. Non ci sono più categorie di lavoratori, sindacalizzati o meno, in lotta per condizioni di lavoro migliori, o in lotta contro i provvedimenti del Governo, bensì siamo di fronte ad una working class che rimane tale, per le condizioni e i luoghi della vita quotidiana, ma che non lavora (è una contraddizione in termini), tranne qualche lavoretto qua e là e, in questo senso, la working class di Frears è la stessa del Loach di Raining stones (Piovono pietre). Questo è quello che la working class inglese è diventata: in questa sua incapacità di organizzarsi, di essere unita, sta il fallimento della working class — oltre, chiaramente, ai tagli del Governo e al crollo del Welfare.

In The flickering flame (t.l. La fiamma tremolante) — film-documentario di due anni fa che ha alle spalle The big flame (t.l. La grande fiammata, del 1969), sulla stessa vicenda ma agli inizi — Loach mostra una classe operaia in bilico, che non ha né la forza, né la possibilità di gestire più uno sciopero — quello ai docks di Liverpool — che dura da troppo tempo. I lavoratori e le loro famiglie sono prostrati da tanti anni di lotta quasi inutile, ormai ignorata da tutti, in cui i sindacati sono deboli, in cui i laburisti sembrano ormai inefficienti e lontani (ed è di poco tempo fa la notizia che i lavoratori dei docks di Liverpool hanno smobilitato).
C’è poi qualche raro film sul lavoro nero, quello degli immigrati nell’ombra, senza tutela, sottopagati: molti provenienti dall’estremo oriente, moltissimi dai paesi dell’Est, come i protagonisti di Moonlighting (id.), del polacco Jerzy Skolimowski; analoga è la condizione dei tantissimi “paria” inglesi, come gli operai del cantiere di Riff-Raff (id.), film denuncia di Ken Loach, del 1991.

“Il film rispecchia fedelmente la situazione operaia a Londra. I cantieri sono sempre stati pericolosi, ma negli ultimi dieci anni, grazie alla politica della Thatcher e alla distruzione dei sindacati che in qualche modo avevano cercato di difendere la sicurezza dei lavoratori, sono ancora più pericolosi. I padroni approfittano, non si curano di garantire nessuna protezione. Adesso la Thatcher non c’è più, ma non è cambiato nulla. La sua sostituzione è stata solo una manovra tattica dei conservatori per mantenere il potere… Quando abbiamo mostrato il film in un cantiere, ci hanno detto che a Londra, in quel mese, c’erano stati trenta morti sul lavoro. E nove erano clandestini come gli operai del film”.

Immagine articolo Fucine MuteIn questi anni Loach e altri realizzano anche importanti films di fiction e documentari per la televisione. Tra i tanti, particolarmente interessante può essere A question of Leadership (t.l. Un problema di leadership), prodotto da una televisione commerciale a diffusione regionale molto seguita, la ATV. Un documentario che vuole offrire un’analisi del programma politico dei laburisti e della capacità di rappresentanza e contrattazione del sindacato. Non è un docu-drama, ma una testimonianza dello sciopero nazionale dei metalmeccanici che inizia nel gennaio del 1980; al centro vi è la questione salariale. Lo sciopero coinvolge migliaia di persone, la cui vita è legata al futuro dell’industria siderurgica, oltre agli stessi lavoratori metalmeccanici, tuttavia non riceve molto appoggio, né dal Partito Laburista, né dal TUC (Trade Union Congress, il consiglio dei sindacati). In questo film emerge esplicitamente la polemica del regista verso il Partito Laburista, accusato di rappresentare sempre meno la working class e di non saper far fronte ai problemi del Paese, oltre al fatto di iniziare una politica interna che lo porterà sempre più verso il centro. L’altra contestazione del regista va al sindacato che, se da una parte è stato annientato da alcune leggi del Governo Thatcher, dall’altra, nel ristretto margine d’azione che gli rimane, non tutela i lavoratori, scendendo con troppa facilità a soluzioni di compromesso. Questo si verifica anche nel caso presentato dal film, giungendo ad un compromesso quanto mai dannoso: i salari vengono aumentati dell’11% (cifra che si avvicina alle richieste dei lavoratori), ma vengono chiusi molti stabilimenti, con la conseguente perdita di posti di lavoro. Attraverso le testimonianze di lavoratori che hanno preso parte allo sciopero — che spiegano le ragioni dello sciopero, denunciano i metodi usati dalla polizia nei confronti dei picchetti ed esprimono seri dubbi sui loro rappresentanti sindacali — Loach porta avanti la propria battaglia politica, che si inasprirà con gli anni portandolo a fare film e documentari feroci sulle condizioni di lavoro in Inghilterra e sulle enormi mancanze del Governo, ma anche dell’opposizione.

A parte Loach, negli anni Ottanta si parla molto di working class, sia nel cinema commerciale, che in quello impegnato, in quello delle avanguardie, in una generale opposizione al Thatcherismo, e in un clima di innovazione e sperimentazione, con film riflessivi e dolenti, altri crudeli e spregiudicati. Ma la working class non è più il soggetto privilegiato del cinema sociale o di denuncia, rimane spesso sullo sfondo di storie di emarginazione e disadattamento, di ingiustizia umana e sociale, rimane frequentemente come fonte stessa di disagio.
Il nuovo cinema inglese continua sul filone realista (anche se talvolta si sposta su un piano diverso, a mostrare la natura artificiale del cinema, facendo sentire prepotentemente la macchina da presa) e usa con intelligenza le ambientazioni proletarie, i caseggiati popolari, i tinelli, le fabbriche, che avevano determinato il milieu specifico del cinema inglese sulla working class. Oggi, però, la società è molto più complessa e stratificata, anche se l’Inghilterra è un Paese in cui rimane, più che altrove, una netta contrapposizione tra due classi sociali. Eppure, come dicevo, i soggetti sociali (e quindi economici) sono molteplici e la semplice opposizione lavoratori/padroni non funziona più.

barbo-7.jpg (4615 byte)La Gran Bretagna ha un numero elevatissimo di disoccupati, moltissimi immigrati che vivono alla giornata, fortissime tensioni razziali, ghetti istituzionalizzati, problemi politici che durano da anni e ogni tanto riesplodono. Anni di perbenismo e conformismo (nonostante gli anni Settanta) hanno creato grossissimi problemi sociali, che adesso tendono a venire allo scoperto in maniera dirompente, una violenza giovanile, determinata dalla rigidità sociale e morale, che non ha pari in altri paesi europei. Il giovane cinema britannico (uso qui, in particolare, questo termine in quanto negli ultimi anni si è sviluppato un cinema scozzese e, ancor più, un cinema irlandese con caratteristiche proprie e registi, sceneggiatori e attori di notevoli capacità) fa i conti con tutto questo. Per questi motivi non è più possibile un cinema esclusivamente e specificatamente sulla working class, che possa prescindere da altro. Quindi la working class continua ad essere presente nel cinema, riguardo al numero di films probabilmente è più presente rispetto al passato, ma si perde fra mille altri aspetti e problemi, individuali e sociali, e direi che è proprio un certo eclettismo tematico, all’interno di un cinema che potremmo definire genericamente “sociale”, che caratterizza il giovane cinema inglese.

Nonostante questa più recente attenzione, tuttavia bisogna riconoscere che, in generale, il cinema inglese non è riuscito a recepire, se non in maniera episodica e superficiale, i profondi cambiamenti sociali ed economici, le lotte e le conquiste determinate e vissute dalla classe operaia in un Paese tendenzialmente conservatore. Rimane quindi da chiedersi se esista ancora una classe operaia nel cinema inglese. “Esiste ma è debole, e non ha più fiducia. Esattamente come nella realtà”.

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