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Cinema

Solitari, disperati figli mostri

THE MELANCHOLY DEATH OF OYSTER BOY & OTHER STORIES
MORTE MELANCONICA DEL BAMBINO OSTRICA &
ALTRE STORIE
di Tim Burton

Rob Weisbach Books
William Morrow and Co., Inc.,1997, New York
U.S. $20.00 — CAN. $26.00
G. Einaudi Editore
Tascabili, collana “Stile Libero”, 1998 Torino
lire 16.000

In occasione dell’uscita italiana di MORTE MELANCONICA DEL BAMBINO OSTRICA & ALTRE STORIE, libretto di fiabe nere di Tim Burton, edito per Einaudi nell’adattamento di Nico Orengo (che ne ha tradotto-riscritto il testo), mi pare giusto soffermarmi per un attimo sul risultato dell’operazione editoriale.

Ho acquistato THE MELANCHOLY DEATH OF OYSTER BOY & OTHER STORIES in rete (presso www.amazon.com), ancor prima che fosse disponibile nelle librerie americane ed inglesi. Il volumetto dell’edizione originale si presenta elegantissimo, sobriamente brossurato e telato in nero, con eleganti caratteri goticheggianti di color argento a scolpirne il titolo. In copertina, sul riquadro violetto, funebre e oblungo come la cassa di Edgar Poe — auteur de chevet, maestro inseparabile della vita di Burton — troviamo le profilature in argento e il disegno del ragazzo ostrica, dalla testa di mitile, mentre è intento a guardare dentro il sacchetto di Halloween, quello con la scritta “trick or treat”, giochetto o scherzetto, frase di rito quando i bimbi travestiti da mostri vengono a bussare alle porte dei grandi chiedendo un presente.

Immagine articolo Fucine MuteTim Burton, regista di veri, grandi successi produttivi come Beetlejuice (1988), Batman (1989), Edward mani di forbice (1990), nonché di film premiati e molto apprezzati dalla critica europea, come Ed Wood (1994)e Mars Attacks! (1996), è nato a Burbank, in quella periferia municipalizzata di piccoli proprietari solamente bianchi che è separata di netto dal downtown pur essendo appena a nord di Los Angeles e che, diversamente dalla tentacolare megalopoli d’appartenenza, è fatta tutta di villette a schiera, centri commerciali, studi televisivi e cinematografici.
Burton racconta spesso che da piccolo giocava tra le lapidi del cimitero dietro l’angolo, a circa un isolato da casa sua. Cresciuto nell’ambiente ipocrita e perbenista della spersonalizzazione ed omologazione americana tipicamente middle-class, quello dei barbecue, dei Volvo Station-wagon, e dei sotterranei, potenti pruriti sessuali che ne attraversano le fibre anche più profonde, Burton ha sempre affermato artisticamente la propria “diversità” e lontananza da tutto ciò, rispecchiandosi sin dall’inizio della sua carriera — pur immerso in una delle realtà più conservatrici del mondo dello spettacolo, quella della Walt Disney — in personaggi infantili, spesso in bambini solitari, difficili, tristi, quasi sempre “mostri” o, perlomeno, “creatori di mostri”. Casette con giardino, e mostri, bambini e sofferenza: è l’equazione di tanto cinema di Lynch, o di Cronenberg.

Così è stato anche per Burton, sin dall’inizio, con il personaggio di Vincent (primo film d’animazione, del 1982), dove il piccolo Vincent Malloy vorrebbe essere Vincent Price e tutti i suoi pazzi assassini dello schermo. Così è stato con il personaggio di Frankenweenie (1984), piccolo, folle scienziato che restituisce vita al proprio cane Sparky investito da una macchina.

Immagine articolo Fucine MuteIl gusto burtoniano della filastrocca proviene dalle favole stregate di Roald Dahl, dall’Edgar Poe(ta) di “The Raven”, dove il monstrum è, come sempre, vettore del potere distruttivo e autodistruttivo della psiche dell’autore. Qui il corvo del proverbiale “Nevermore!”, l’animale che col gatto è l’esempio più tipico del perturbante poeiano, è l’incarnazione dell’autore implicito, e si confonde sempre con il suo autore-creatore (ma questo è il motivo ovvio e psicoanalitico per il quale nella letteratura gotica l’autore è sempre il vero mostro, e Frankenstein, che è un medico che fa il miracolo coi pezzi di cadavere, è spesso confuso con il corpo resuscitato…).

È gusto, quello burtoniano, che sembra ancora una volta derivare dalle sensibilità e sonorità delle filastrocche per l’infanzia di Theodor Seuss Geisel, John Lea, Evelyn Maud Whitaker o Katherine Sherriff, con i ritmi precisamente cadenzati nella rima semplice e baciata, o nelle assonanze rigorose che sigillano visioni notturne e cimiteriali. Si vedano, ad esempio, la filastrocca recitata da Price in Vincent:

Vincent Malloy is seven years old,
He’s always polite and does what he’s told
For a boy of his age he’s considerate and nice
But he wants to be just like Vincent Price

oppure le canzoni di Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas:

Boys and girls of every age
Wouldn’t you like to see something strange
Come with us and you will see…
This our town of Halloween!

MORTE MELANCONICA DEL BAMBINO OSTRICA è una dolcissima, oscura galleria piena di bambini-mostri descritti, tuttavia, senza il ritmo originale. Le cadenze — e non poteva essere altrimenti — sono altre: ma è proprio da queste che escono accentuate le figurine della melanconia burtoniana. Mancando quell’andatura originale, mancano anche le psicologie sofferenti, formatesi nelle ninne-nanne cattive, negli orgasmi casuali quando non si mette in preventivo l’arrivo d’un bimbo; manca, insomma, il tragico stesso, quello della diversità che scaturisce dalle nenie non sincere di genitori falliti. Ritroviamo però gli equivalenti italiani di “The Boy with Nails in His Eyes” (“Il bambino con i chiodi negli occhi”), che allestisce male il proprio alberello di Natale perché non può vederlo; di “Roy, the Toxic Boy” (“Persico, il ragazzo Tossico”), che ama l’ammoniaca e l’asbesto, il fumo di molte sigarette, la lacca per capelli, il gas di scappamento, ecc.; di “Mummy Boy” (“Il Bambino Mummia”), che è il risultato di una antica maledizione faraonica e deambula coperto di fasce. I bambini soffrono, dunque, e quasi tutti muoiono.

Accanto alle illustrazioni straordinariamente suggestive, Burton tratteggia graffiti poetici dei propri personaggi secondo gli stilemi di sempre. Ritroviamo, infatti, le figurine del tipico, burtoniano, universo cinematografico: Jimmy, l’orrendo bambino pinguino, è un piccolo Oswald Cobblepot / il Pinguino, quello che, da cresciuto, è interpretato da Danny De Vito in Batman Returns; incontriamo i corpi filiformi che sorreggono grandi teste sferiche — come accade per “Melonhead” (“Testa di Melone”), “The Pin Cushion Queen” (“La regina puntaspilli”), “Junk Girl” (“La bambina Spazzatura”), il già citato “Mummy Boy” — che sono fratelli e sorelle di Jack Skellington, re delle zucche ad Halloweentown, in The Nightmare Before Christmas. O di Vincent.

Immagine articolo Fucine MuteNico Orengo, torinese d’origine e ligure d’adozione, autore di poesie e romanzi, si è preso la briga e il piacere di risolvere la sempre problematica questione della traduzione. Come accade, in questi casi, il compito deve essersi dimostrato piacevole ed ingrato al tempo stesso: i suoi versi, talvolta, traducono pari pari lo scritto burtoniano, altre volte mantengono le rime pur nell’italianizzazione dei nomi e delle situazioni (“Anchor Boy” diventa “Ancoretto”; “Sue” è “Lalla”; il francese “Brie Boy” diventa un nostrano “Bambino Fontina”…); altre volte ancora Orengo ci regala spunti di grande intelligenza creativa, come nel caso dei versi quasi didascalici a supporto dell’immagine degli ammaliati spasimanti della “Ragazza Vudù”. Nel caso specifico, laddove nell’edizione originale si leggeva:

She has many different zombies
Who are deeply in her trance.
She even has a zombie
Who was originally from France

Orengo provvede a dare voce all’illustrazione che vede cinque fantasmini, di cui uno col caratteristico basque francese, traducendo:

In sua malia
Ha molti intronati,
uno persino in Algeria.

Non poteva essere che l’Algeria — se non può essere la Francia —  a concedere ad uno dei suoi fantasmi quel basco. Altre volte la poesia di Orengo si ingarbuglia un po’, perdendo improvvisamente forza nella perdita di ritmo di cui si è detto:

Il motivo che so,
perché questo è il
suo caso, è che
quando Lalla si
soffia il naso

il fazzoletto al volto
le s’incolla.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, dai versi di Orengo prorompe con forza la piccola grande arte della traduzione. Qui Burton non è mai tradito, seppure solo un esempio di partenza. In particolare sono i versi de “Morte malinconica del bambino Ostrica”, lunga disperata ballata che dà il titolo alla raccolta, a scorrere leggeri e terribili, carichi della stessa disperata amarezza burtoniana di fronte all’improvvisa frattura avvertita da troppe coppie nella maternità, dopo la nascita d’un figlio. Così, i figli di Burton sono anche quelli tradotti di Orengo, ma queste filastrocche andrebbero lette a tutti i genitori, prima che ai figli. Altrimenti non avrebbero senso versi di questo tono:

Un pomeriggio di primavera
Carlo fu lasciato lungo una roggia
A prendersi la pioggia,
si sentiva solo e guardava
l’acqua andar via per lo scolo.

Commenti

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  1. […] grande tematica, che occupa una posizione dominante nella mostra e nel cinema di Burton, è il rapporto genitori-figli. Da Batman (1989) incapace di superare la morte violenta dei genitori per mano del Joker, a Edward […]

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