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Palcoscenico

Giovanni Boni

Un pezzo di storia nel Gruppo della Rocca (I)

Lorenzo Acquaviva (LA): Qual è la tua formazione teatrale?

Giovanni Boni (GB): La mia formazione teatrale inizia mentre facevo l’analista chimico in fabbrica, per una ragione di buona dizione, perché in questo posto di lavoro non sapevo parlare che il bergamasco tradotto in italiano. Allora sono andato ad un corso di teatro a Bergamo dove ho incontrato Armida Gavazzeni, che aveva un gruppo con il quale andava per circa tre mesi all’anno in tournée, soprattutto in Francia, Belgio e Lussemburgo…

LA: La figlia del celebre direttore d’orchestra?

GB: Era la nipote. E lei, al primo anno di questo corso di dizione e teatro — che comunque avevo già fatto all’oratorio — da subito ha capito che, avendo io svolto molti altri mestieri, potevo essere se non un attore eccellente almeno un buon tecnico per la sua compagnia. E così mi ha chiesto subito, alla fine dell’anno, di entrare nella sua compagnia. Ciò comportava il continuare a lavorare, di provare la sera per tutto l’anno e poi di andare in tournée in questi tre mesi. Questa signora faceva un teatro di avanguardia già allora, eravamo nel ’69-’70, presentando degli spettacoli compositi che avevano un titolo rispetto al quale veniva scelto il materiale drammaturgico. Il primo che ho fatto, ad esempio, era “Etre non Paretre” (essere non sembrare) con testi di Gogol, Tagore, Pirandello. Degli spettacoli a tema, potremmo dire, con molta “espressione corporale”, come dicevano in Francia, ma recitato in italiano con l’aggiunta di uno o due attori francesi che costituivano i raccordi dello spettacolo e lo rendevano comprensibile. Ho partecipato molto volentieri a questa prima esperienza teatrale perché comunque rappresentava per me, a vent’anni, una grossa avventura. Durante il primo anno ho continuato a fare il mio lavoro in fabbrica chiedendo un permesso per tre mesi, che poi mi hanno dato. Nel secondo anno mi sono dovuto licenziare per dedicarmi interamente alla compagnia il cui lavoro aveva avuto un riscontro critico straordinario, soprattutto in Francia.
Per me allora era impensabile l’idea di fare l’attore di mestiere, sia per mia formazione personale, sia perché non esisteva nel paesino in cui abitavo la possibilità di farlo. Non si sapeva chi erano gli attori anche perché la televisione non ce l’avevamo o quasi. Questa era considerata una cosa folle e ciò ha causato dei problemi con mio padre.

LA: Certo avevi un lavoro sicuro, uno stipendio…

GB: Sì, certo, lui aveva fatto tanto per farmi assumere. Comunque, tornando al nostro discorso, posso dire che con la compagnia della Gavazzeni si andava spesso nelle case della cultura in Francia, in molti festival, tra cui quelli di Bordeaux e Grenoble, senza trascurare però paesini di minatori, istituti italiani di cultura all’estero, ecc. La compagnia, comunque, non ci pagava, limitandosi a fornire soltanto vitto e alloggio.

LA: Dunque tu inizialmente non ricevevi un vero e proprio stipendio?

GB: No assolutamente. Oltre al vitto e alloggio ricevevamo giornalmente qualcosa, l’equivalente di 10.000 lire d’oggi. Poi alla fine del secondo anno ho ripreso a lavorare facendo i mestieri che sapevo fare, come lo stuccatore, cosa che è durata fino ai primi tempi della scuola del Piccolo Teatro anche perché, saputo che la compagnia Gavazzeni riceveva dei soldi, tre di noi, tra cui io, si sono arrabbiati e se ne sono andati. Proprio in quel periodo i miei compagni si apprestavano a fare l’esame di ammissione alla scuola del Piccolo e cosi, visto che lavoravamo tutti assieme, mi hanno chiesto di fare loro da spalla nell’audizione; io ci sono andato solamente per far loro un piacere perché ancora non ritenevo pensabile un futuro d’attore. All’esame la nostra bravura fu subito evidente tanto che il vice-direttore del Piccolo ci disse che noi non ne avevamo bisogno. Noi invece eravamo convinti del contrario e così ci iscrivemmo.
Solo a quel punto mi sono convinto che valeva la pena tentare e così ho frequentato questa scuola di teatro continuando comunque a fare lavori saltuari, tra cui il fattorino in una casa editrice. Da allora sono rimasto sempre a Milano. Finita la scuola del Piccolo sono stato piuttosto fortunato…

LA: A proposito del Piccolo, Strehler veniva ad insegnare attivamente?

Immagine articolo Fucine MuteGB: No, no. La Scuola era tenuta per la maggior parte dagli attori della compagnia del Piccolo di allora, come Gianfranco Mauri, Ottavio Fanfani, Checco Rissone e Ivana Monti, che aveva appena finito la scuola ed insegnava recitazione al primo anno. Poi c’erano gli insegnamenti di mimo e di scherma, comunque anche questi legati alla compagnia del Piccolo. Strehler si è fatto vedere due o tre volte; veniva per degli incontri o per vedere qualche saggio. Ma lui, sai, aveva la sua arte da fare perché quello era il periodo in cui stava facendo gli spettacoli più belli. Mi ricordo bene il “Re Lear”, “L’istruttoria” ed alcuni spettacoli impegnati. Paolo Grassi, che era l’organizzatore del Piccolo, venne qualche volta. C’erano poi anche alcuni insegnanti che erano dei teorici della televisione che venivano a fare lezione di teoria e storia dello spettacolo.

LA: Chi avevi come compagni di corso?

GB: Mah, di diventati famosi quasi nessuno, perché comunque quella era una generazione che voleva andare nella compagnie alternative e che poi ci è anche rimasta. Non saprei dire chi fossero i più famosi. Forse Raffaella Azim, Ida Marinelli.

LA: Ida Marinelli è una delle attrici più importanti del Teatro dell’Elfo.

GB: Esatto, che nasceva proprio in quegli anni intorno al ’73.

LA: In parte l’hai già detto tu, però spiegami meglio cosa significasse il teatro per te, e soprattutto, cosa volesse dire fare teatro in quegli anni.

GB: Cosa volesse dire fare teatro ancora io non lo sapevo perché venivo da un’esperienza fortunata ma anche improvvisa e veloce. Mi sono sentito subito molto motivato nel recuperare quello che non avevo fatto, come la teoria sul teatro. I tempi che si vivevano a Milano dopo il ’68, quando ci arrivai, erano di alternativa al sistema e questo, per forza di cose, impregnava le nostre volontà. Questo stato di cose ci induceva a ricercare e, dal punto di vista teatrale, il Gruppo della Rocca, la cui fondazione è preesistente alla mia entrata, rappresentava un esempio pratico molto eloquente di questa ricerca. Dopo la scuola ho passato un periodo al Teatro Uomo di Milano con il quale ho preso parte ad una versione del “Giulio Cesare” di Giuseppe di Leva, in una piccola parte tra l’altro. In seguito, dopo avermi visto in un saggio al Piccolo, venni chiamato a lavorare con il Gruppo della Rocca che aveva bisogno di allargare l’organico dovendo formare due compagnie, visto l’enorme quantità di spettacoli che produceva. In precedenza avevo preso parte con il conservatorio di Milano, all'”Histoire du soldat” in cui facevo la parte del diavolo; come vedi sono stato molto fortunato: non ho avuto problemi di lavoro. E proprio Fiorenzo Grassi, organizzatore del Teatro Uomo, sentito che mi volevano alla Rocca mi spronò ad accettare.

LA: Comincia così la tua avventura con il teatro della Rocca, che è durata vent’anni…

GB: Fino al 1991, diciassette anni, facendo dieci mesi all’anno di distribuzione, soprattutto fino alla metà degli anni ottanta. Riuscimmo ad avere un discreto sovvenzionamento statale essendo una delle compagnie che faceva più produzioni.

LA: Andiamo adesso un po’ a capire quando, come e con che finalità nasce il Gruppo della Rocca?

GB: Il Gruppo della Rocca nasce come collettivo sociale nel 1969, come cooperativa nel ’70 dall’incontro di attori, tecnici, operatori teatrali di diverse provenienze quali l’Accademia di Roma, il Cut di Firenze, il Piccolo di Milano. Altri ancora da Firenze stessa, come Guicciardini, uno dei fondatori, tutti comunque con l’intento di fare qualcosa per rinverdire, ritrovare e rinnovare il fare teatro. Uscire quindi dagli schemi del teatro ufficiale e convenzionale ma non facendo sperimentazione bensì ricerca, perché esiste una differenza fondamentale tra questi due approcci artistici e già allora esistevano le cantine romane dove si sperimentava. Il Gruppo della Rocca era sicuramente figlio del suo tempo e a dimostrazione di ciò ha redatto una specie di statuto o manifesto, all’atto della fondazione della cooperativa, in cui dichiarava i suoi intenti che si indirizzavano nella direzione di allargare la possibilità di fruizione del teatro. In altre parole consentire l’accesso al teatro a coloro che non ci potevano andare per questione di costi, per un fatto di abitudine o per semplice disinformazione, e portare così a questi spettatori un teatro di contenuti, senz’altro politici, ma soprattutto di impegno teatrale. Non era necessario insomma che lo spettacolo avesse un contenuto politico ma un contenuto sociale sicuramente sì.

LA: Quindi la novità del Gruppo della Rocca si traduceva sia nella scelta dei testi, sia nella scelta distributiva, sia infine nelle vostre regole interne perché, tu mi dicevi, dall’elettricista al primo attore avevate tutti la stessa paga.

GB: Questa era un’altra delle formule dello statuto da cui non ci si poteva discostare assolutamente: tutti i componenti della cooperativa dovevano partecipare in modo paritario in quanto a diritti e doveri, alla partecipazione delle scelte culturali, organizzative, tecniche e quant’altro riguardasse il gruppo stesso.

LA: Quindi, un vero e proprio collettivo.

GB: Esatto un collettivo teatrale, come appunto era precisato nello statuto, denominazione che poi è stata tolta a metà degli anni ottanta per la sua collocazione troppo ideologica. Tutti avevamo la stessa paga, dal tecnico al regista all’organizzatore. Una paga sufficiente per vivere ma sicuramente lontana da quelle dei teatri ufficiali. Tutto ciò non solo per convinzione politica, di egualitarismo comunista — per quanto la stragrande maggioranza di noi fosse collocata in quell’area o comunque in quella extraparlamentare e anarchica — ma anche perché questa regola avrebbe aiutato, o quanto meno ne esisteva la convinzione, la creazione artistica. Infatti questo stato di cose avrebbe consentito la partecipazione collettiva alla messa in scena e avrebbe tolto di mezzo le lotte fratricide di potere con una ricaduta favorevole sulla produzione degli spettacoli, cosa che poi si è puntualmente verificata ed è stata riconosciuta in assoluto, per prima, al Gruppo stesso. La vera novità del gruppo era la collettività della messa in scena che veniva discussa da tutti noi, dal primo all’ultimo. Qualsiasi progetto proposto da un gruppo di noi doveva essere motivato nelle intenzioni e negli obiettivi, dopo di che se ne discuteva l’opportunità di realizzarlo o meno attraverso una votazione collettiva.

LA: Quindi il collettivo si riuniva, discuteva dopo di che votava…?

GB: Esatto. E questa discussione poteva durare anche un anno, prima di approdare alla messa in scena. Questo confronto era fatto in rapporto all’artistico ma anche al pubblico che noi ci aspettavamo venisse vederci.

LA: Questo per quanto riguarda l’organizzazione. E per quanto riguarda la struttura? La vostra ricerca sull’artistico, come veniva condotta? Quali erano i vostri riferimenti?

GB: Volendo portare il teatro a un pubblico non necessariamente colto, ad un pubblico popolare, volendo quindi allargare il bacino di utenza, si è reso necessario realizzare il comitato di decentramento. Siamo stati i primi a crearlo in Toscana; potendosi permettere anche di non andare alla Pergola di Firenze, il Gruppo della Rocca ha potuto esistere all’inizio anche prescindendo dall’iter dei teatri istituzionali. Comunque dovendo portare il teatro ad un pubblico popolare, ad un certo punto si è posto il problema dei linguaggi da usare per comunicare contenuti, contenuti di critica sociale ad un pubblico che veniva per la prima volta in teatro o quasi. Quali fossero gli strumenti più adatti per realizzare i nostri intenti noi li abbiamo rinvenuti nella clownerie, nelle maschere, nell’avanspettacolo, nella biomeccanica, attraverso la lezione delle avanguardie, soprattutto quelle russe dei primi del novecento, come Mejerchol’d, Majakovskij ma anche Ripellino e Brecht naturalmente, non tanto come metodo ma come teoria sul teatro…

LA: E la commedia dell’arte…

GB: Certo, senza dubbio ci siamo serviti anche di questa forma artistica negli spettacoli, o prima della messa in scena, con seminari su questi modi di espressione e sulle maschere, chiamando anche degli specialistici come per esempio la prestigiosa compagnia della Mnouskine del Théatre du Soleil…

LA: Che nasceva più o meno contemporaneamente a voi anche se magari si differenziava perché aveva un leader riconosciuto…

GB: Sì, la loro era addirittura una specie di comune, noi del Gruppo invece no anche se lo diventavamo di fatto stando dieci mesi in giro in tournée. Una comune noi non l’abbiamo mai teorizzata, così fortunatamente tutti noi potevamo avere una vita privata, per quello che era possibile stando insieme per anni. Come dicevi abbiamo collaborato con alcuni attori del Théatre du Soleil, soprattutto Gonzales…

LA: Mario Gonzales?

GB: Esatto, Mario Gonzales, che venne a tenere da noi un laboratorio incentrato sulle maschere che loro stavano utilizzando in occasione dello spettacolo “L’age d’or”. Talvolta mandavamo qualcuno di noi, come ad esempio Marcello Bartoli con Le Coq, a Parigi, a frequentare dei seminari di due o tre mesi per poi al proprio ritorno trasmettere tutto quello che era stato appresso.

LA: Praticamente una specie di autofinanziamento artistico interno!

GB: A volte, se ci pensi, trovi le soluzioni per determinate necessità. Devi avere però uno spazio proprio.

LA: A proposito di spazio dove nasce esattamente il Gruppo?

GB: Dunque il Gruppo della Rocca nasce in Toscana, a Firenze più o meno. Anzi la Cooperativa del Gruppo della Rocca si chiama così proprio perché è nata a San Gimignano, in una rocca di proprietà di Roberto Guicciardini, conte, e poi confiscata. Sulla parola gruppo non si poteva transigere ed infatti il nostro simbolo, che non so nemmeno se esista più, era un insieme di palle, quadratini, triangolini racchiusi in una sfera.

LA: Un po’ surrealista come simbolo?

GB: No, era idealista nel senso che era una cosa sola formata da tanti elementi singoli diversi tra loro.

LA: Individualismo mantenuto in una collettività, quindi. Ma ci stavi parlando dei vostri riferimenti che andavano dalla tradizione italiana dell’avanspettacolo alla commedia dell’arte, alle avanguardie russe e tutto ciò per poter trasmettere con degli strumenti popolari un contenuto politico.

GB: Sì. Questi erano, diciamo, i riferimenti stilistici non drammaturgici che invece avevano poco o niente a che vedere con l’avanspettacolo o i dadaisti, dai quali in pratica ricavavamo i nostri strumenti espressivi. Quindi si andava alla ricerca su come fare per esempio una riduzione del “Candido” di Voltaire, utilizzando di tutto: dal travestimento alle maschere, dal funambolismo al teatro gestuale….

LA: In che senso funambolismo?

GB: C’era anche dell’acrobazia. Veri e propri salti mortali.

LA: Quindi grandissimo lavoro fisico.

GB: Grande lavoro fisico naturalmente perché dovevamo supportare con questa immediatezza di comunicazione scelte qualche volta….

LA: Impegnative?

GB: Impegnative a livello di contenuto.

LA: Quali sono stati gli autori che più rappresentavate?

GB: Sono stati tantissimi. Almeno inizialmente eravamo orientati su due filoni: uno che derivava dalla riduzione di romanzi o cose del genere, come appunto il “Candido” di Voltaire o “Perelà uomo di fumo” di Palazzeschi; oppure Germanetto.

LA: Perché Voltaire?

GB: Perché Voltaire ci consentiva di raccontare una favola educativa o diseducativa con tanta teatralità. Poi vi era il filone del teatro veramente impegnato come “Il Tumulto dei Ciompi” di Dursi e “Barba di rame” di Germanetto.

LA: Germanetto è un autore contemporaneo?

GB: Sì, lui ha scritto questo romanzo quasi all’inizio dell’era fascista, ed era anche uno dei fondatori del PCI. Il romanzo racconta di un barbiere di provincia che matura a poco a poco una coscienza antifascista.

LA: E di Brecht che cosa hai fatto?

GB: Abbiamo fatto “Schweich nella seconda guerra mondiale” e “Le Farse”.

LA: “Le farse” è un’opera di Brecht?

GB: Sì. Le farse erano composte da “La domanda di matrimonio” e “Le nozze piccolo borghesi”. Comunque un’altra delle riduzioni importanti che il Gruppo ha fatto è stata “Ballata e morte di Pulcinella capitano del popolo” di Luigi Compagnone. Quest’ultimo spettacolo è una favola che è allo stesso tempo una metafora politica, perché il Pulcinella di Compagnone tradiva il popolo e si toglieva la vita; tradiva il popolo per amore della bella addormentata, falsamente promessa dai regnanti, che erano i dominatori.

LA: Quindi era un modo per dire alle gente di stare sempre in guardia…

Immagine articolo Fucine MuteGB: Sì, dire alla gente di stare in guardia e rivelarle le doppiezze e le ambiguità. Poi un altro filone è stato quello russo. Abbiamo fatto due spettacoli storici di cui uno si potrebbe indicare come l’esempio più eloquente dello stile del Gruppo della Rocca: “Il mandato” di Erdmann. Pensa che ha fatto tre stagioni con almeno 500 repliche; poi dello stesso autore lo spettacolo “Suicida”; quindi abbiamo realizzato “L’azzurro non si misura con la mente” di Aleksandr Blok. Insomma ce ne sono tantissimi.
Abbiamo rappresentato anche Horvath; e proprio con un lavoro di questo autore sono stato per la prima volta a Trieste nel ’74/’75 all’Auditorium dove alcuni spettatori, un po’ di parte, ci aspettavano fuori per menarci. Poi ci sono tornato con altri spettacoli, anche allo Stabile.

LA: Comunque, tornando ancora alla struttura del Gruppo stesso, tu facevi riferimento ad una scelta distributiva anche nei posti più disagevoli.

GB: Ecco! Un’altra caratteristica del Gruppo era di avere tra i propri soci anche gli organizzatori, i tecnici, gli elettricisti, gli scenografi. Lorenzo Ghiglia, ad esempio, è stato colui che ha realizzato delle scenografie splendide.

LA: Che dovevano essere realizzate in modo da essere funzionali nei diversi spazi teatrali che voi sceglievate.

GB: Tutte le scelte erano in un certo qual modo ideologiche. Noi infatti facevamo uno studio della scenografia che tenesse conto, con pari dignità, di tutti i posti che dovevano visitare: dalla piazza al grande teatro. A volte venivano costruite addirittura due versioni della stessa scenografia perché questa dignità venisse mantenuta il più possibile. Ad esempio se noi andavamo in una casa del popolo, come succedeva spesso, e la scenografia non ci stava, questo ci imponeva di elaborare una scenografia più piccola che contenesse sempre gli stessi elementi. Non volevamo discriminare nessuno, tanto meno quel pubblico cui erano destinati naturalmente le nostre produzioni. In altre parole ci eravamo tassativamente imposti di portare dappertutto lo stesso prodotto, la stessa qualità.

LA: Come procedevate nella messa in scena dello spettacolo? Uno spettacolo del Gruppo della Rocca andava in scena anche dopo anni di studio, cosa che sarebbe impensabile ora e forse per certi versi anche all’epoca.

GB: Esattamente. Alcuni erano covati per parecchio tempo a livello teorico, altri invece erano frutto di sperimentazioni, letture e mise in espace durante l’anno. Sempre comunque avevamo a disposizione 60 giorni di prova almeno per metterlo in scena, perché naturalmente l’apporto collettivo abbisognava di tempo. Tutto questo almeno fino alla fine degli anni settanta. Questo apporto collettivo, devo però sottolineare, era possibile in modo concreto e reale solo perché la proposta era nata e si era sviluppata all’interno del Gruppo. Cioé: la conoscenza e le motivazioni di una proposta di messa in scena, con le discussioni che ne seguivano, ci facevano arrivare alle prove dello spettacolo con delle idee ben precise da sottoporre al regista, che diventava il filtro artistico. Tutte le proposte od obiezioni riflettevano, a quel punto, problematiche artistiche, soprattutto quelle non ancora ben sviscerate.

Tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile in soli 60 giorni di lavoro. Proprio per questo gli spettacoli avevamo una propria specificità: erano il prodotto di un collettivo, non solamente una questione di bravura. Secondo me il Gruppo della Rocca è durato con queste caratteristiche circa dieci anni, dopo di che sono cominciate le prime defezioni per disaccordi ideologici e fisiologici che in realtà coprivano altri motivi, come la necessità di misurarsi, da parte di qualcuno, a livello individuale o la volontà di confrontarsi con il teatro più tradizionale per verificare il proprio valore artistico anche al di fuori del Gruppo, o ancora la stanchezza di lavorare in queste condizioni. Sicuramente la compagnia aveva un alto indice di professionalità, riconosciuta da tutti i critici, che ha fondato una vera e propria scuola. Qualcuno di noi ad un certo punto avvertì la necessità di verificare se questa scuola era collocabile altrove, giocabile in altre situazioni.

LA: Adesso il Gruppo della Rocca è ancora operante anche se è diventata una cosa un po’ diversa da quella che era inizialmente.

GB: Sì, a mio parere è un sopravvivente più che un vivente: sono rimaste due persone del gruppo originario e altri due o tre con un certo spirito di gruppo.

LA: Tutto si è quindi istituzionalizzato, come spesso succede.

GB: Sì, certamente i prodotti non hanno più quell’aspetto di novità che era la nostra caratteristica. Fino ad ora ho parlato del Gruppo della Rocca che arriva fino all”83. Poi c’è stata tutta la parte della seconda metà degli anni ottanta in cui già si riscontra una certa crisi e dove si è tentato di recuperare antichi legami come quello con Guicciardini, che aveva lasciato il gruppo. Si diede corso a nuove proposte interne, di cui anch’io sono stato fautore con regie o elaborazioni drammaturgiche, nonché con occasionali rapporti con registi esterni, facendo spettacoli indovinati ma che ormai si collocavano al di fuori di quello che era stato lo spirito del gruppo. Un esempio di ciò è “Negro contro cani” di Koltés, per la regia di Missiroli. Bisogna comunque sottolineare la grande importanza che ha avuto in questo periodo Guido de Monticelli il quale si è reso protagonista di alcune regie con spettacoli ancora vicini alle modalità del Gruppo della Rocca: partecipazione collettiva, presenza del grottesco e comunque alta spettacolarità.

LA: Ecco, con tutta la distanza che bisogna prendere rispetto alle definizioni, voi siete stati considerati un po’ il gruppo che faceva il grottesco.

GB: Be’, era vero in parte. Adesso io non so quale sia la definizione precisa di grottesco. Posso dire che per noi nasceva da un punto di vista critico sulla società e comunque la scelta di un testo, di un argomento scaturiva dalla volontà parodia, ironia nei confronti di un sistema politico, dei costumi di una società e quindi arrivare a volte al limite della caricaturalità dei personaggi, usando: maschere, clownerie, l’avanspettacolo e insomma tutti gli strumenti espressivi di cui ti dicevo. Usavamo i nostri personaggi per descrivere le loro pecche, i loro vizi, i loro difetti, le loro falsità in modo volutamente forzato, in modo da farlo capire in maniera molto chiara e allo stesso tempo in modo di essere didattici, come diceva Brecht.

LA: Un teatro quindi usato come specchio per mettere in evidenza, attraverso il grottesco, i difetti sociali.

GB: Sì, in quel modo critico che andava per la maggiore soprattutto in quegli anni, perché comunque certe proprietà rivelatrici delle pecche sociali, il teatro credo che lo debba avere quasi sempre, altrimenti non so che senso abbia. Oggigiorno esiste ancora, anche se con meno giudizio, però: esiste in modo più pacificatorio, meno eclatante.

LA: Ecco mi offri un po’ l’opportunità di chiederti qualcosa sul lavoro d’attore dopo il Gruppo della Rocca. Ad un certo punto hai deciso di lasciare — come altri tuoi compagni — il Gruppo e di intraprendere altre esperienze artistiche. Come vedi il teatro in questi anni novanta, che ormai sono giunti quasi al termine.

GB: Io sono figlio del mio tempo e rimango figlio del mio tempo, anche se vivo nel tempo in cui vivo, per cui, forse, con una leggera sfasatura per quell’epoca. Io credo, senza esagerare, che siamo tornati forse a un momento simile a quello in cui era partito il Gruppo della Rocca: il teatro è sempre più istituzionalizzato e in questo modo ha coperto anche gli spazi più decentrati soffocando la ricerca che non sia quella che dicono di fare…

LA: Che si è istituzionalizzata a sua volta.

Immagine articolo Fucine MuteGB: Sì, ma quello che voglio dire è che la ricerca, non essendo prevista a livello istituzionale — e forse non lo sarà mai — rende il teatro una struttura che prevede che il lavoro di ricerca lo faccia qualcuno che ancora oggi ritiene necessario fare questo. Questo qualcuno, però, deve fare almeno dieci anni di strada, se ce la fa a sopravvivere prima di arrivare ad essere riconosciuto a sua volta, e quando è riconosciuto, chissà se è rimasto se stesso avendo magari patito la fame o se è già rientrato progressivamente nel teatro istituzionale. Secondo me bisognerebbe valutare, in questo tempo, la disponibilità del pubblico potenziale. Se fosse possibile un’analisi, probabilmente ci si accorgerebbe che non c’è tanto pubblico potenziale che sarebbe disposto a vedere qualcosa di diverso, perché la spettacolarizzazione oramai è diventata la televisione e tutto quello che sappiamo.

LA: Sì, c’è anche il fatto che adesso, a mio parere, c’è una difficoltà in più. Il Gruppo della Rocca, diciamo, si è creato un pubblico, ha creato un suo stile, ha creato un suo modo di fare teatro, che partiva dall’ideologia e che aveva dei riferimenti molti precisi. Questo ha fatto in modo di mobilitare un pubblico disposto a seguirlo e a condividerne le istanze sociali e culturali. Non saprei oggi come oggi quale potrebbe essere questo pubblico. È una specie di circolo vizioso: si dice che un certo tipo di teatro non si può più fare perché non c’è più il pubblico, però in realtà nessuno lo fa più e quindi un potenziale pubblico non si crea mai.

GB: Bisogna dire che il pubblico non è certo quello curioso di qualcosa di sperimentale a livello di comunicazione politica o di comunicazione critica che era riscontrabile negli anni settanta; sicuramente è di un altro tipo. Noi avevamo gioco facile forse perché venivamo subito dopo quel rivolgimento sociale di così larga portata che fu la contestazione studentesca e tutto ciò che a questa seguì.

Il ’68 è stato un rivolgimento che però ha creato una curiosità negli anni successivi più che nel ’68 stesso. Agli inizi degli anni ’70 c’era un pubblico di giovani e meno giovani che era curioso di qualcosa di diverso, di qualcosa di alternativo e così noi abbiamo trovato una nostra collocazione precisa. Forse quelli che l’hanno costituito, il Gruppo della Rocca, avendone fatto parte attiva del ’68, partivano da un’esigenza personale che però trovava ampio riscontro nell’ambito di un certo contesto sociale. Io credo che anche adesso i sia da tenere ben presente che cosa significhi vivere nel proprio tempo partendo da istanze personali e non da un’ideologia. Credo, ad esempio, che non si possa prescindere dal ritmo e dalla musica nel fare teatro adesso; forse è per questo motivo che hanno successo i musical. Anche noi del resto abbiamo fatto delle opere quasi musicali come “Happy End” di Brecht, quasi un’operetta.

LA: A proposito di musical tu hai partecipato ad alcuni produzioni della Compagnia della Rancia.

GB: Uscito dal Gruppo della Rocca ho avuto due o tre anni piuttosto difficili dal punto di vista professionale perché anche se tutti mi riconoscevano un’alta professionalità i meccanismi erano e sono piuttosto diversi per entrare nelle compagnie. Qualche volta questa alta professionalità, soprattutto quando è una professionalità, diciamo cosi, etica, è scomoda nei confronti di certi registi che non approfondiscono più di tanto quello che fanno. “Vuoi che non conosca Giovanni Boni del Gruppo della Rocca? Lo conosco benissimo però non ci serve uno con il naso un po’ all’insù”. Dopo difficoltà che avevano questa tipica modalità mi sono messo a fare delle altre cose, soprattutto a Torino dove il Gruppo della Rocca nell’83 aveva preso in gestione il teatro Adua, e che quindi conoscevo piuttosto bene.

Ho fatto alcuni spettacoli in un piccolo teatro di Torino, che si chiama Alfa teatro e, in particolare, di uno, “Giorni d’estate”, ho curato anche la regia, nonché recitato assieme a due miei carissimi amici, Michele Di Mauro e Paola Roman.
Dopo di che ho fatto un anno un po’ particolare recitando nella “Strana coppia” di Neil Simon con Andy Luotto e Mario Marenco con la regia di Alvaro Piccardi e la compagnia di Geppy Gleyesis. Nel frattempo per vivere, ma anche per una grande curiosità, proprio qui a Trieste assieme a Marino Sossi, con il quale avevo collaborato facendo la regia di “Off limits” di Adamov, abbiamo fondato una scuola di teatro a Muggia.

LA: Un’esperienza sicuramente molto formativa per me che l’ho frequentata e che mi ha portato anche a scoprire delle cose che ha fatto il Gruppo della Rocca. Ricordo il saggio con la tua regia dello spettacolo “Happy End Graffiti” che era una specie di compenetrazione tra i due testi brechtiani, “Happy End”, appunto, e l'”Opera da tre soldi”.

GB: Certo, tutto quello che faccio ancora adesso tiene molto conto della mia esperienza con il Gruppo della Rocca perché ritengo che moltissimi generi teatrali percorsi nella mia carriera possano essere introdotti e reintrodotti nel teatro di oggi evitando così l’equivoco che spesso avviene tra ‘brechtismo’, ‘stanislavskismo’, ‘strasberghismo’. Il teatro è una cosa che può contenere tutti questi elementi. La professionalità attoriale dovrebbe, nei limiti, essere capace di coprire tutti questi generi diversi.
Proseguendo sulla mia carriera successiva all’uscita dal Gruppo, significative sono le mie collaborazioni, tuttora in corso, con Assemblea Teatro di Torino.

LA: Con cui recentemente hai fatto una tournée in sud America.

GB: Dove però ero già stato, per la precisione in Centro America, in Messico, con il Ruzante assieme al Gruppo. Con Assemblea Teatro abbiamo messo in scena uno spettacolo sui Valdesi, in cui oltre ad essere l’aiuto regista, ho interpretato tutte le parti degli inquisitori e dei persecutori cattolici.
Devo dire che tutte queste esperienze mi hanno permesso di misurare la collocabilità dell’alta professionalità del Gruppo in un contesto più convenzionale o commerciale, sino ad arrivare a cimentarmi con il musical. Infatti ero andato ad insegnare in una scuola di teatro, a Fabriano prima, a Tolentino e Civitanova dopo, gestita dalla Compagnia della Rancia e lì, dopo alcune produzioni per le scuole, sono entrato in questa Compagnia con cui ho lavorato per quattro anni.
Una visione del fare teatro senz’altro più leggera e meno contenutistica ma che abbraccia pubblici diversissimi. La tournée di “West Side Story”, indipendentemente dalla qualità della riuscita finale, è stata una esperienza molto interessante soprattutto per la possibilità di lavorare assieme a ragazzi entusiasti di fare questo lavoro e molto generosi sulla scena, cosa che nelle compagnie cosiddette normali è difficile da trovare. Le produzioni della Rancia sono delle traduzioni italiane di musical che hanno avuto successo a Broadway o Londra e sono molto fedeli alle messe in scena originali, italianizzate in base al gusto del regista, Saverio Marconi. Il mio ultimo lavoro con loro è stato “Cantando sotto la pioggia”.

LA: Non per fare la solita domanda retorica, ma siccome parlavi di entusiasmo, di giovani e di teatro ti volevo chiedere: ci si lamenta sempre che non ci sono i giovani autori, non ci sono i giovani attori, non ci sono i giovani registi. Si parla sempre di questa carenza di nuove leve teatrali ma effettivamente c’è anche poca possibilità di mettersi in mostra, di lavorare.

GB: Sì, credo che ci sia poca, pochissima possibilità. Io credo che oggigiorno nella maggior parte dei casi facciano lavorare i giovani solamente perché costano di meno. E li fanno lavorare un anno o due al massimo, per prenderne poi degli altri. Se consideriamo ciò unitamente al fatto che se non sono i giovani a rubare dai professionisti che ci sono, non hanno molta possibilità di imparare qualcosa, il quadro è piuttosto desolante. Oltre tutto non ci sono neanche spazi a disposizione di giovani attori o registi che possano trovare in questo mestiere una propria identità, un proprio entusiasmo nel farlo.

LA: E anche di crearsi una propria professionalità! Perché anche le scuole di teatro sono tantissime, alcune serie, ma nonostante ciò….

GB: Sì, bisogna fare un distinguo sulle scuole di teatro. Devono avere criteri di serietà che a volte non hanno: gli Stabili per esempio contengono nel loro statuto l’obbligo di istituire delle scuole ma in genere non l’hanno mai fatto. Invece promuovono iniziative che chiamano scuole ma non c’entrano assolutamente niente con quello che le scuole di teatro dovrebbero essere: otto ore al giorno per tre anni o due almeno per formare un attore che poi verificherà e approfondirà sul palcoscenico. Perché verificare non è andare in scena una tantum, questo è un equivoco. Lo spettacolo si conclude secondo me solo dopo trenta giorni almeno di repliche. Scegliamo pure i gruppi a cui vogliamo dare questa possibilità ma allora, solo allora, si può mettere in moto anche una disponibilità al sacrificio da parte dei giovani.

LA: A proposito dei giovani volevo sapere qualcosa della recente esperienza che hai fatto qui a Trieste assieme al Petit Soleil che è nato in pratica da alcuni tuoi allievi.

GB: È stato affrontato questo studio su “Macbeth”, che è approdato alla manifestazione del Comune di Trieste, Palcoscenicogiovani, al Teatro Miela. Anche questa volta un bel gruppo di giovani hanno risposto con entusiasmo.

LA: Parte di loro però li conoscevi già sin dai tempi della Scuola del Teatro Verdi di Muggia.

GB: Certo un biennio composto da due trimestri ogni anno con due insegnanti diversi per portare alla fine di questo biennio alla formazione di un piccolo gruppo che provasse a fare di più che un semplice saggio finale. Cosi è nato il Petit Soleil sotto la direzione di Aldo Vivoda, diventando una realtà triestina importante con la quale io ho collaborato con piacere sia per l’amicizia con Aldo sia per l’amicizia con alcuni attori del gruppo.

LA: Un’operazione forse un po’ troppo ardua?

GB: Un’operazione molto ardua sempre però all’interno di un processo di formazione teatrale, quindi assolutamente legittima. Io sono stato chiamato per approfondire lo studio sulla parola, sulla parola-gesto, sulla parola-atto, sulla parola-accadimento, sulla parola-azione. Io credo che comunque sia stata un’esperienza positiva, dal mio punto di vista, da esterno al Petit Soleil. Spero che questo gruppo di persone possa condividere altri progetti assieme a patto che abbiano a disposizione un posto dove farlo e quindi una possibilità di verificare il proprio valore su una scala più ampia. Ecco fare l’attore vuol dire avere la capacità professionale, la tecnica per riprodurre esattamente, sera per sera, la credibilità del nostro personaggio.

LA: Il teatro è quindi riproducibilità, e acquisire i mezzi per metterla in atto.

GB: È chiaro. Il teatro è bello perché è un fatto che accade lì quella sera e non più. Il fatto teatrale non accade senza un attore particolare che è il pubblico. Il pubblico arriva quando tu hai fatto tutta la tua ipotesi di spettacolo, ed è, se vogliamo, il protagonista nella verifica di questa tua ipotesi. E se non c’è il pubblico o se c’è solo occasionalmente, non si ha la possibilità di rapportarsi con questa verifica e lo spettacolo non si assesta. Lo spettacolo, secondo me, esiste dopo venti giorni perché gli attori si sono confrontati con pubblici diversi, e si sono rapportati, modificati mantenendo però tutte le tue intenzioni iniziali. Lo spettacolo deve quindi ‘adattarsi’ all’altro attore che è il pubblico. Questo non può accadere in una sera o due. Neanche ai professionisti accade di farlo in una sera. E infatti grandissime compagnie, ormai scafatissime, se ne vanno dieci giorni in periferia, dimostrando una mentalità esattamente opposta al Gruppo della Rocca, per collaudare gli spettacoli prima di entrare nei grandi teatri.

LA: Giovanni, in chiusura, vorrei conoscere i tuoi progetti futuri. Che cosa stai preparando. Che idee hai, cosa farai?

GB: Io ho uno spazio che è molto sano, che è molto piacevole per me e consiste in queste mie collaborazioni con Assemblea Teatro di Torino, dove sono stimato e amato e con cui quindi collaboro volentieri. Questa compagnia fa molte produzioni non solo di teatro per ragazzi, che è la sua specificità, mettendo in scena lavori originali ed interessanti ed infatti il loro prossimo progetto riguarda un testo mandatoci da Guido Davico Bonino, ex critico della Stampa di Torino, per una riduzione teatrale del “Deserto dei Tartari” di Buzzati. La cornice sarà molto suggestiva: un forte di un milione e trecentomila metri quadri, vicino al Sestriere. In questo posto si svolgeranno le azioni dello spettacolo che vedrà come protagonisti questo gruppo di militari. Io farò l’aiuto regia e forse anche l’attore. Il prossimo spettacolo con Renzo Sicco come regista sarà un monologo, con forse una parte di dialogo, su Giordano Bruno tratto da un libro di Winckelmann. Questo autore ha descritto gli ultimi sei giorni di questo grande filosofo mentre noi ne metteremo in scena soltanto l’ultima notte .

LA: E tu che ruolo avrai?

GB: Io dovrei interpretare proprio Giordano Bruno. Sto leggendo adesso il materiale perché io e Renzo vorremmo, a livello drammaturgico, rendere curioso questo spettacolo su Giordano Bruno, che trovo un personaggio di spessore enorme, che ha detto delle cose incredibili alla fine del cinquecento e che non si prestano facilmente a riduzioni teatrali. Sarebbe interessante indagare la condizione dell’uomo Giordano Bruno su cui costruire il personaggio Giordano Bruno. Una vicenda, quindi, storica e documentaristica, ma con delle emozioni ed una spettacolarità tutta sua, anche considerando il fatto che ci è stata concessa una miniera abbandonata di talco, nella Val Chisone, dove si farà la prima di questo spettacolo e forse venti repliche.

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