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Musica

Rabbia e poesia in Ivan Della Mea (II)

Sulla canzone politica negli anni Settanta

Ringhera, del ’74, è la canzone che dà il titolo al Lp contenente “canzoni milanesi vecchie e nuove” di Della Mea. Vi si trovano, infatti, El me gatt, La canzon del Navili, Quand g’avevi sedes ann, L’era alegra tucc i dì, Con la lettera del prete, La canzon del desperàa, Mio dio Teresa tu sei bella e, infine, Ballata per l’Ardizzone e, ovviamente, Ringhera. Si tratta cioé di una specie d’antologia retrospettiva alla quale si aggiungono le composizioni più recenti e in un certo senso diverse, anticipatorie di Fiaba Grande (La nave dei folli) e conclusiva di un periodo, che si era aperto con Io so che un giorno ed aveva trovato il suo culmine con Se qualcuno ti fa morto. Un repertorio che ha incuriosito e affascinato altri “cantautori”, come Nanni Svampa e Bruno Lauzi, al tempo delle loro esclusive rappresentazioni cabarettistiche. Canzoni come El me gatt, La canzon del desperàa, L’era alegra tucc i dì, Mio dio Teresa tu sei bella potrebbero benissimo essere accostate a certe inconfondibili composizioni, per fare un nome di rilievo, di Enzo Jannacci che, come in questo caso Della Mea, ha sempre avuto un particolare riguardo e un’attenzione assai sensibile nella descrizione ed interpretazione di momenti quotidiani, momenti di tutti i giorni, o comunque legati a vicende che vedono protagonisti personaggi di tutti i giorni, per lo più di rioni, immigrati o no, per i quali l’esistenza è un affardellarsi di problemi e di affanni in cui, non infrequentemente, accade un dramma o una tragedia. Questo privato esposto in maniera comprensibile a chiunque ne conosca condizioni e cause, diviene esplicitamente politico proprio per quell’emblematicità con cui si presenta.

Immagine articolo Fucine MuteLa vita della povera gente, della gente comune, dell’operaio, della pensionata che vive di stenti; l’impietosità del reale, nel mezzo delle esuberanze consumistico capitalistiche; lo scontro fra desiderio e possibilità, fra necessità ed impotenza: questi i temi che caratterizzano i motivi di Della Mea, i quali — al pari di parecchi di Jannacci — esplorano a fondo nella miseria concreta e nella ricchezza dei sentimenti, brutalizzati dalla prima con la furia imperiosa e straripante della legge del profitto. L’emarginazione, il ghetto, la solitudine, l’incompatibilità con la burocrazia e le istituzioni: una democrazia fatta a misura del privilegio borghese, a comprimere qualsiasi velleità umana del miserabile, di colui al quale è stato negato l’accesso nelle scuole, negli impieghi pubblici, che esigono qualifiche ma soprattutto raccomandazioni e bustarelle (esemplare, in tal senso, è Con la lettera del prete). Ringhera è invece un ulteriore sguardo sulla vicenda personale di un anziano militante comunista, sul quale passa come un’escavatrice, a strapparne radici e carne, la furia della violenza di classe. Se le altre canzoni del Lp, dal “cantautore” stesso “riscoperte” in un particolare momento del proprio excursus, e viste sotto una nuova dimensione, che si sbarazza degli equivoci cui erano in precedenza andate incontro, erano state fraintese quali approcci intellettualistici ad un ambiente sottoproletario — in cui, come ha acutamente osservato lo stesso Della Mea, si ritrova quella “coscienza eccetera” che, purtroppo, “ancora oggi” ripiega nello “storico cu e mena”, il quale “resta indefettibilmente cu e mena fino a quando c’è un padrone da mandare a dar via il culo e da far menare”, cioè sparire — con questa lunga canzone e anche con Mio dio Teresa tu sei bella”la teoria ritorna felicemente prassi”, “il che” lo “riconcilia coi classici in materia di materialismo”. In questo modo, infatti, egli presenta Ringhera: “… l’ho finita il 23 maggio (del ’74, n.d.r.). In essa, prendendo spunto dai numerosi attentati fascisti alle sedi delle organizzazioni democratiche, facevo scoppiare una bomba anche nella sezione del compagno di cui si parla nella canzone, la cui vicenda ho inventato ma che tuttavia potrebbe anche essere vera. La mattina del 28 maggio i fascisti hanno fatto esplodere una bomba a Brescia durante una manifestazione ed è stato un ennesimo eccidio di lavoratori. Ho quindi sentito l’esigenza di legare ancora di più la mia storia di fantasia con la drammatica cronaca della lotta di classe in questo periodo e ho aggiunto la parte finale della canzone scritta, di getto la mattina del 29 maggio”.

Vittima, dunque, di uno fra i tanti attentati fascisti, il protagonista di Ringhera si trova a rievocare i vari momenti che hanno caratterizzato la sua vita di militante, partendo dagli anni giovanili e arrivando alla guerra di Spagna, quindi alla Resistenza e all’immediato dopoguerra, con tutte le sue speranze e i successivi disincanti. Dal 25 aprile, il “giorno/ della festa”, egli trascorre la propria esistenza per “trent’anni/ operaio della catena e/ poi dopo/ ma per trent’anni/ giù in sezione con la ringhera”. La “ringhera” non demorde: dopo l’attentato (che prosegue con l’eccidio di Brescia, in cui muore la donna del militante comunista), “mattone su mattone/ han rifatto la sezione/ ogni pietra era un colpo/ ma sul muso del padrone” e rimesso i panni “cari della Spagna” e torna in marcia un’altra volta/ tutta insieme…”. Non c’è in questo alcun atteggiamento di fideismo, né di misticheggiante deformazione della militanza: al contrario, v’è una coerenza estrema e comune all’ideologia di chi compie una scelta e la sa sostenere fino in fondo. Vi è un ineffabile sentimento d’amore, non individualistico, bensì collettivo, collegato assai strettamente all’impegno e alle necessità materialistiche della lotta di classe: si tratta di quel comunismo che è il senso peculiare nel Della Mea compagno e “cantautore”, dove si fondono la pratica della vita e il bisogno delle forze organizzate. Quel comunismo fatto di “amore”, di “tenerezza”, di “rabbia”, di “bisogno”, di “speranza” e di “certezza”, guidati da una conoscenza che è a un tempo individuale e collettiva, prassi sociale di vivere nella totale consapevolezza della lotta marxista, anche a prezzo della propria vita o di quella delle persone più care. A collegare Ringhera con Mio dio Teresa tu sei bella ci sono, infatti, le due figure di donna che, per amore del proprio compagno e per la saldezza della coscienza di classe che le nutre, perdono la vita, sia pure in maniere differenti, ma sempre a causa delle condizioni sociali e dell’odio classista. La “morosa” della Ringhera non è certo diversa, per condizioni sociali, dalla “Teresa” dell’altra canzone: la prima viene uccisa dalla violenza fascista, la seconda muore uccisa dal proprio compagno che non accetta di vederla “sfiorire” “per un cancro al polmone”. Versi come “Io ci ho detto ‘Sai Teresa tu per me sei la mia stella/ questo male ti fa offesa’/…/ L’ho ammazzata e ora aspetto/ che arrivi la pantera ed ho bevuto/ una vita di barbera…”, sono tra i più caratteristici del Della Mea articolato indifferenziatamente sulla bilancia della vita privata e della vita pubblica: non v’è alcuna separazione fra di esse. L’una e l’altra coincidono perfettamente e lasciano sentire per intero la sensibilità e la forza connotativa di recepire la realtà e di ritrasmetterla in totale sintonia con il proprio impegno umano, artistico e militante.

Immagine articolo Fucine MuteDel ’75 è Fiaba grande (La nave dei folli), un nuovo approdo presentato, allora, al Salone Pier Lombardo milanese. Nel Lp vi è anche quel Compagno ti conosco che è, indubbiamente, un passaggio cruciale nello sviluppo della tematica dellameana. Molto fuori luogo ci sembra, nei suoi confronti, il commento negativo che ne fanno Simone Dessì e Giame Pintor (op. cit.; cfr. pag.28), là dove scrivono: “E’ l’abbandono dell’analisi e della critica marxista e la suggestione di un discorso tutto ‘umanistico’; è un rischio che molti hanno corso e corrono nella riscoperta e nell’attenzione, giusta e necessaria, verso i comportamenti della vita quotidiana, verso il rapporto tra milizia e scelte personali. (…) Tutta costruita sul rapporto tra religiosità e fede politica; intuizione certo suggestiva, ma tremendamente unilaterale per l’incapacità di andare oltre il livello della semplice raffigurazione nel descrivere l’attaccamento, ugualmente ‘mistico’, di certi strati popolari verso Dio e i santi e verso il Partito Comunista e, per esempio, Di Vittorio e Togliatti”.
Il compilatore (o i compilatori) di queste note non è certo penetrato in profondità nel tessuto, assai vasto, di questa “ballata” in cui Dio e i santi non vengono affatto assunti come equivalenti di un fideismo militante, bensì come aspetti fenomenici di una realtà che esige vittime sempre più consenzienti e meno consapevoli della propria condizione oggettiva e sociale. Il discorso tutto “umanistico” non è che un marginale pretesto, semmai, per proporre un problema che va e andrà risolto in termini ben diversi dai puri sofismi intellettualistici dei cosiddetti militanti di sinistra. Il “cantautore” è preciso, non dà adito a dubbi né a perplessità: “A Milano una madre benestante prende i suoi due figli e un bel giorno d’estate li sbatte giù dalla finestra. Dopo di che si butta anche lei. A Trieste, eravamo a cantare per il circolo La Comune, ci hanno chiesto di andare all’ospedale psichiatrico nel reparto diretto da Basaglia. (…) nel giro di cinque minuti si è chiarito come era invece importante stabilire un rapporto con questa gente. Così abbiamo visto della gente triste passare due ore in allegria…(…) La terza storia mi è sembrata che potesse simboleggiare il tempo in cui stiamo vivendo, a prescindere dalla tessera che si ha in tasca o dall’ideologia che si professa. L’ho trovata allucinante, anche solo come fatto di cronaca in sé, allucinante come del resto altre cose che accadono ogni giorno a Milano. Un ragazzino fascista di diciassette anni spara ad un compagno. E va be’… ma voglio dire che è fascismo quello come è fascismo quello che è successo in luglio, un sabato, al casello di Firenze dell’autostrada del Sole: una ragazza americana, turista, diciannove anni, stava chiedendo l’autostop; la tirano sotto (…), dico, la frenesia è tale che questa ragazza viene letteralmente rimbalzata per oltre un chilometro sull’autostrada da una macchina all’altra…”.

Non riportiamo per intero, anche se ne varrebbe la pena, quanto Della Mea riferisce sulla genesi di questa sua “ballata”, momento-cardine della sua evoluzione artistica e militante. Occorre aggiungere, inoltre, che il “cantautore” inserisce in essa anche alcune considerazioni circa una processione, di cui riporta un frammento di canto ed altre su un pellegrinaggio. Certo, è abbastanza facile, ma soltanto se ciò lo si piglia alla superficie, osservare una certa confusione ed una “attenzione mistica” od “umanistica” nell’accostare tra loro fatti così apparentemente distanti; come è facile scivolare nell’errore di non comprendere, sempre rimanendo in superficie, l’accostamento della morte di Allende e della carica umana e militante che simili fatti possono suscitare in un militante che vuole cantare — e cantare come compagno per i compagni — prendendo come una sorta di comandamento l’insegnamento di Victor Jara. Ai suoi superficiali critici il cantautore ha opposto, oltre tutto, ragioni ben specifiche, chiare e immediate: “La più rigorosa delle analisi marxiste non risolve tutto, perché tutto è sempre e costantemente discutibile: ciò che resta indiscutibile è la ragione, che è molto spesso umana e di conoscenza e quasi mai scientifica e di sapere, che muove la fede e l’amore del proletario; sia del compagno che ha fatto la storia del partito che è (perché io credo che sia) il partito, sia della donna che bacia San Rocco. Se tu vorrai un giorno parlare con quella donna non liquiderai il suo santo a colpi di Marx-Lenin-Mao-Togliatti, ma per un rapporto di conoscenza vera della sua condizione di classe che implica un rispetto comunista anche per il suo santo” (op. cit.; cfr. pag.29).

Immagine articolo Fucine MuteAd alzare la bandiera rossa della classe riunita sarà, canta Della Mea, “un vecchio bimbo”, e lo farà “per una voglia/ ma dolce e antica/ sudata sangue/ sotto all’ulivo/ di questa morta/ civiltà”; lo farà per quella “conoscenza” che “implica rispetto comunista” e che è, forse, la “vera” scienza della sostanza dei fatti e delle situazioni in cui vivono i singoli componenti la classe sfruttata. “E conoscenza è anche un sorriso/ è anche una voglia di giocare/ è anche una voglia di amare/ è anche una voglia di cantare”, aggiunge il “cantautore” con quel suo fraseggiare di note di dolcezza e di “rabbia”, con la pacata visione, in sé grandiosa e semplice, di chi vuole esprimere l’essenza del domani filtrata attraverso la realtà presente: “Chi è compagno dice al compagno/ compagno ti conosco/ per quel che sei per quel che fai/ compagno ti conosco/ la prima scienza del proletario/ compagno ti conosco// contro il padrone e la sua scienza/ compagno ti conosco…”.
Sembra, questo, un Della Mea nuovo: da qui le varie interpretazioni, quegli equivoci a cui è andato incontro non senza una sua scelta precisa o meglio, com’è suo solito, non senza consapevolezza. La coerenza può a volte essere scambiata per contraddizione; ma non può esserci contraddizione se non nella testardaggine, nel principio per il principio, cioè se non si vuole assolutamente prendere atto né coscienza di ciò che va accadendo e/o modificandosi, magari solo all’interno di un ristretto movimento, o nella dinamica di un singolo individuo. Ma il fatto è che Della Mea non si è mai rifiutato di cogliere il senso della trasformazione, che è sempre in atto, anche quando in superficie le acque appaiono stagnanti. C’è da notare che la sua coerenza riguarda, soprattutto, quel più o meno percettibile variare da un luogo all’altro, da un momento all’altro; ed è la coerenza di chi non smette di osservare, di cercare di comprendere ogni pur minimo spostamento. Per questo, si potrebbe rilevare, egli si rivolge, per Fiaba grande (La nave dei folli) ad un altro autore-musicista-militante, Franco Fabbri — del rock zdanoviano noto come Stormy Six — e si fa scrivere la presentazione al disco. E questi, con una sottigliezza che pare sfuggire all’analisi, con rapidi tocchi sa incisivamente inquadrare il significato di questo “nuovo” Della Mea, che in realtà di “nuovo” ha solamente una più sollecita apertura verso il confronto e, in particolare, verso il ruolo o la funzione della canzone stessa. “E questo avviene — scrive Fabbri — proprio perché i tempi stessi stanno cambiando, perché faticosamente cresce un movimento culturale che oltre ad avere una coscienza rivolta all’esterno comincia a prendere coscienza di se stesso e dei propri problemi: e proprio perché di un movimento si tratta, una ‘canzone sulla canzone’ non è più il delirio dell’artista isolato ma la voce di quella coscienza collettiva, l’espressione di un’esigenza”.

In effetti, il “cantautore” allarga anche il proprio modo di manifestarsi musicalmente, non solo contenutisticamente: entra addirittura, per la prima volta, quello strumento che Fabbri definisce “il grande tabù, la Batteria”. Si tratta, sostanzialmente, di uno spostamento che Della Mea mette in atto stimolato sia dagli eventi, sia da una necessità che avverte inderogabile. Come appartenente della classe operaia, e perciò interprete-testimone, di essa coglie ciò che si muove e non esita a manifestarne l’importanza e la funzione, che sono correlative al suo essere compagno, ma soprattutto compagno di “viaggio” su di una “nave” che solca un oceano ad un tempo diverso e comunitario; una “nave” in cui c’è posto per tante persone ed un oceano che non sia solo dogmatismo. Così, infatti, egli scrive in proposito: “…io penso che per essere comunisti, per essere dei buoni comunisti ci voglia anche fantasia e conoscenza, disciplina e autonomia: questi concetti — ogni comunista lo sa — non solo per scienza ma anche e soprattutto per conoscenza — non sono antitetici, bensì complementari. Non è una ricetta: è un modo di essere compagni; per quanto mi riguarda non credo che ce ne siano altri. Questo penso da sempre con mille contraddizioni e i molti piccoli e grandi compromessi: personalmente non ho remore a tenere ‘lo sporco ben stretto tra i pugni rinchiusi’ (uno dei versi più significativi de La nave dei folli, n.d.r.), soprattutto quando i pugni sono tanti e ben coscienti della loro funzione. E con lo sporco stretto nel pugno rinchiuso ci possono stare tante cose: i dubbi, le incertezze, le confusioni, le crisi mistiche, i pruriti esistenziali, le angosce — “la nave è grande” — le voglie esasperate, gli eccessi per eccesso e gli eccessi per difetto, i surplus e le carenze d’amore, le grandi verità e le piccole bugie e viceversa. Una sola cosa non ci sta e non ci potrà mai stare: la mancanza di rispetto comunista verso il compagno. Perché dietro la mancanza di rispetto comunista verso il compagno c’è solo il fascino ‘discreto’ del potere personale, di quel potere che a volte sa usare e usa la scienza anche ‘marxista’ in opposizione alla voglia e alla pratica di conoscenza tra compagni e proletari”.

Immagine articolo Fucine MuteLa rivendicazione della necessità della fantasia è il motivo dominante di tutta La nave dei folli: una nave che ogni compagno deve sapersi costruire, con fatica e a viva forza, e farla quindi salpare verso quella conoscenza che nasce dall’unione “pratica” e costante del compagno col compagno e con la sua propria realtà; una fantasia che costa “dolore” e che può anche durare “un’attimo solo”, ma che è sostanzialmente l’unica possibilità di rapporto comunicativo nella collettiva volontà di trasformare la “rabbia” in “poesia”, senza doverla ridurre all’umiliazione artistica. Disgregata la “vecchia cultura”, la “nave dei folli” può così percorrere l’oceano senza timore di infrangersi contro qualsiasi scoglio. “E ancora più bimbi con carta e bandiere/ guardando diritto il solo pennone/ faremo la danza dei cani delusi/ coi pugni serrati per nuova illusione/ Ma quanto dolore per dare allo svolo/ di te fantasia un attimo solo/ La nave dei folli eletta a ‘ragione’/ per segno diventa parola e poesia/ diventa creazione per rivoluzione/ per l’attimo solo, ma di fantasia”, è la conclusione dellameana, che ritrova spazio nella canzone-chiave del Lp, Fiaba grande, in cui viene ribadito il concetto della “fantasia” e arricchito “in petali e foglie e colori”: tanto che la “noia” del “profumo di morte” viene scalzata dalla “voce futura” con cui il “vecchio” narra alla “bimba” quella realtà del “campo dei fiori”, che viene chiamata “storia”.

A tre anni di distanza, con La piccola ragione di allegria — di cui abbiamo già riferito — il “cantautore” fa riesplodere la miccia delle vicende private che si frammischiano — fondendosi — alle pubbliche. Era logico: Della Mea si riscopre nel piccolo nucleo; e in tale riscoperta riemerge la fondamentale necessità di conoscenza alla base, nella sua tematica, di quel “modo di essere compagni” che impegna al “rispetto per il compagno che ti sta davanti, di dietro e di fianco”. “Prologo”, questo, e preludio consequenziale, al successivo saporoso frutto: Sudadio giudabestia. Perché è in quel rispetto che piglia a circolare l’esigenza di dare ampio respiro ad un apparente micromondo, riprendendo, come s’è accennato, alcuni punti da Io so che un giorno. è da quel sapere, dal quel presagio sicuro e inequivocabile che il consumismo sarà il primo passo verso una scelta individualistica, a un tempo determinata dalla “speranza” ed “imposta dal bisogno”. Da lì, con un pendolare che perde il treno; dalla frenesia del ritmo della vita — che sempre più rimarca i ritmi e i tempi di lavoro -, con chi impazzisce per desiderio d’amore (la “Rita”) e chi muore per droga, per desiderio d’uscire dallo squallore del quotidiano; dal licenziamento della forza/lavoro (i “61” della Fiat), con il marchio/variante del terrorismo e del brigatismo buttati su chi, scioperando o facendo “picchetto”, non chiede altro che il rispetto del suo proprio diritto alla vita; da lì, prende forma la morte degli “eroi” e la nascita dell’”umano fesso/ su da dio per eccesso giù da bestia che è lo stesso/ quel che volete certo non più gli eroi”.

Immagine articolo Fucine MuteIn tutti, anche in chi vorrebbe chiudere la finestra per non vedere la morte continua di un’esistenza completamente alienata, c’è il bisogno di guardare, comprendere, conoscere — o riconoscere — che chiunque ha fame d’amore, oltre che di pane. La dannazione del salario è l’ennesima, secolare sconfitta dell’uomo: esso riduce il “campo” della vita, o meglio, della sopravvivenza; e più le conoscenze aumentano, meno c’è possibilità di comunicazione, cioé di conoscenza reciproca. Il benessere dei primi anni ’60 si è smitizzato. Afflosciato in quella bolla di sapone qual era e qual è scoppiata; il tempo della terra promessa non conosce più canti d’allegria, ma soltanto desideri, voglie, “eccessi”, esigenze che si scontrano con la durezza concreta della realtà. La produzione economica è la forca su cui vengono sacrificati, quotidianamente, gli individui. Essi, ormai privi d’ogni illusione e costretti a raggomitolarsi nell’emarginante pugno del personale — chi scuoiandosi con siringhe letali, chi tentando un rifugio nell’oasi della coppia e nei bimbi, i quali pur sapendo ancora “giocare”, vengono asserragliati nel cemento delle costruzioni -, essi, dicevamo, si vedono l’uno nell’altro: si rispecchiano nella comune impotenza ed annegano nella stessa sordida agonia, mentre — inesorabile e sempre più spietatamente rapida — “la vita continua”.
Anche il sabato sera — attimo fra gli attimi, briciola fra le briciole — s’incendia nel furore di una dilacerante danza funebre. Le pelli si scuotono, le ossa scricchiolano, la miseria è negli occhi e nella carne di tutti coloro che si gettano a capofitto in quell’attimo che non dura, che accende e spegne nuovi desideri e nuove illusioni. E colui che sta alla finestra e, guardando, “comprime la rabbia in viltà”, può opporre solo un “vecchio sogno”: quello di un “tram” che è “anche utopia”; la “rossa utopia” che “cammina con noi” e che è la scelta — la sola possibile — dei “cani affamati di vita”, e non più “eroi” né “martiri”, che si cercano — umani nella disumanità — con tutta la loro “voglia di vita” e la loro “rabbia”, per unificarsi, organizzarsi: diventare “poesia”. Perché “l’idea” — la “vecchia idea” — non è ancora “morta”: persino Lenin, persino Marx, ballano adesso “il rock”, mescolati a “facce e occhi e corpi e teste di gente come noi”. Il tempo della morte chiama prepotentemente alla vita: più cresce la rabbia, più forte diventa il bisogno di capire e di agire. E quando la “rabbia” esploderà… “auf wiedersehen”.

Non c’è dubbio: questo è il frutto più maturo di Ivan Della Mea. La cui pregnanza è data anche dall’assimilazione — od utilizzazione — di strumenti e ritmi musicali per lui fino a quel momento inusitati: così come Lenin e Marx, per adeguarsi alle necessità e proporre adeguati strumenti strategici di lotta, scendono tra i proletari a ballare “anche il rock”; allo stesso modo Della Mea s’impadronisce di quegli strumenti necessari alla conoscenza e può dolcemente affermare, come ha fatto in un’intervista, che quando si conoscono bene i “contenuti” il ritmo può essere uno fra i tanti ritmi che lo strumento concede. E ciò è certo aderente al suo precipuo impegno d’artista, che fa di lui e del suo “strumento” ciò che egli stesso ha voluto incisivamente trascrivere, in una sua nota — opponendosi a coloro che lo hanno, forse volontariamente, frainteso sia nelle intenzioni, sia nella militanza -, da un brano del cantautore cileno Victor Jara, assassinato immediatamente dopo il golpe militare nel settembre del 1973: “Il canto è una corda che può unire i sentimenti, ma li può anche impiccare. Non c’è alternativa. Coloro che ricercano il potere personale, coloro che approfittano dell’innocenza, coloro che commerciano con lo spirito, coloro che predicano bene e razzolano male, i cacciatori di denaro — siano essi autori di boleri e di ballate, folksingers, protestatari o yéyé — non comprenderanno mai che il canto è come l’acqua che purifica le pietre, il fuoco che ci unisce e che rimane qui in fondo a noi per migliorarci. Per loro conta soltanto l’aroma fugace degli applausi, il lampo dei flashes, il ritaglio pubblicitario del giornale che riporta l’avvenimento. La migliore risposta del canto è il canto come risposta”.

testi delle canzoni

Le immagini a corredo del presente scritto sono tratte dal libro fotografico “Un paese vent’anni dopo”, Einaudi, Torino 1976. Di Cesare Zavattini e Gianni Berengo Gardin.

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