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Omnia

Tagliarsi la lingua

“…quando tutto è buio e si vede solo un bagliore rosso e lontano, come se venisse da una fucina…“: è Klaus Kinski, macchina attoriale perfetta quanto tragicamente umana, perché disadattata nel subire dolorosamente l’inconciliabile dialettica Natura/Ragione, a pronunciare con gli occhi spiritati della sofferenza la battuta del soldato Woyzeck nell’omonimo film di Werner Herzog, tratto dal dramma di Georg Büchner. Il film si è visto di recente sulle terza rete nazionale, nel Fuori Orario ghezziano. Non è un caso che il critico dal bunker (o meglio: la sua voce telefonica fuori sincrono) presenti adesso quel film. Scelte non casuali, le sue: causali, piuttosto.

La realtà è il cinema: penso a M, di Lang. A The Great Dictator, di Chaplin.

L’oscurità della guerra e dell’apparato militare, della guarnigione con le sue regole assurde, indifferenti alla diversità e alla sensibilità di Woyzeck, ottenebra i cuori di tutta Europa, e le Fucine vorrebbero potervi accendere quella luce – magari un lumino solamente – flebilissima, comunque luce. Sasa Zograf continua, pur sotto le bombe di Pancevo, a scriverci tramite e-mail, e il suo diario di guerra registra grande, serena disperazione. Il fumettista serbo continua, tuttavia, a voler voce, ad essere caparbiamente presente, a dire la sua sino in fondo, tra mille rischi.

M, mostro di Belgrado, mediocre Hynkel di Tomania, persevera quindi nel suo gutturale, verboso delirio a danno di tutti. Ai russi, calci nel sedere. Ai kosovari, peggio. Lui e la sua cricca urlano: Kosovo Polje! Argomentano della battaglia persa, del sacrificio di tanti, tanti anni fa (1389), e su quelle gesta, su quei simboli, M fonda ancora una volta un nuovo nazionalismo barbaro, ad uso e convenienza tutta familiare. Così il figlio platinato e ventiquattrenne, Marko, continua a collezionare e distruggere Ferrari e Maserati (una ventina – altre trenta, circa, sono le macchine da competizione distrutte nelle gare di rally), a gestire i più bei locali yugoslavi, a picchiare, a fare la bella vita tra top model e mafie.
1500 dollari di reddito annuo, in Serbia. 500 dollari, in Kosovo.
Così la figlia Marija è stata presidente della Croce Rossa di Belgrado, possiede la seconda rete privata del paese (TV Kosava), gestisce in  tutta tranquillità i suoi love-business affairs coi principali mafiosi del paese.

M, un giorno che era spaventato perché non stava nel bunker come Ghezzi, ha detto: “Nessuno vi picchierà più”. Conseguenza della sibillina battuta dettata da sincera paura sono le migliaia di missioni aeree di bombardamento; conseguenza è che in questi giorni solamente la violenza ha avuto la meglio sulla violenza: sono state le notizie d’orrore da Columbine High School ad aver avuto per un attimo il sopravvento sulle sconvolgenti nuove dal Kosovo, da Belgrado, dalla Serbia tutta. Nell’America delle armi a disposizione pure degli adolescenti in preda alle più gravi psicopatologie – con le quali alcuni studenti hanno ritenuto di festeggiare nel sangue dei compagni il peggior anniversario possibile, quello dell’altro Hynkel, l’Adolf – la tragedia americana spezza solo per un attimo l’eco di barbarie e sofferenza balcanica.

Le Fucine, comunque vada, si accendono anche in questo numero, d’interventi importanti, di firme nobili.

Giuseppe Petronio, Ulrich Schulz Bushhaus, Gillo Dorfles. Equivoci terminologici sul postmoderno, negazione dello stesso concetto di Postmoderno. Postmoderno? (Petronio): Postavanguardia, forse. L’errore di Ihab Hassan, l’essere ancora, sempre “moderni” (Buschhaus). Per l’appunto: il Movimento Moderno in architettura, e per contro il Postmoderno architettonico e indiscutibile di Gehry, di Domenig, di Makovecz, di Portoghesi. Esempi concreti, storicamente già determinati e fissati, accettati e studiati dall’accademia (Dorfles).

Silvia Albertazzi, invece, scrive di letteratura postcoloniale, di contaminazioni, boschi degli spiriti, di voci da paesi altri. Roversi, intervistato da Zaninetti e Zizzi, di poesia, editoria, impegno, confusione.

L’anarchica grevità della musica di Morricone (morte, amore, duello, mitologia, ancora morte), l’oscurità tecnologica di Zezelj, le sue matite ipertecniche; il lettering e il mito dall’Edda, in Simonson. Poi Peterson, i “cannibali”, Nabokov. Fucine Mute postmoderno calderone.

T.O.U.C.H.I.N.G.: l’immagine, il fotogramma iniziale, d’apertura, proviene dal noto film d’avanguardia di P. Sharits. È questa – del giovanotto che si sforbicia la lingua – la prima immagine d’introduzione al nostro web magazine che non rappresenti il viso o il dettaglio d’un volto di donna: è stato necessario, pur di non ricorrere all’unica immagine femminile comunicazionalmente e simbolicamente valida, all’icona politica del momento: il primo piano di Madelene Albright (o peggio ancora sarebbe stato quello della professoressadottoressa Mira Markovic, moglie di M – che stia per Macbeth?). Tagliare la lingua, dunque; è quasi il corrispettivo del tagliare l’occhio bunueliano, ma soprattutto è simbolo delle Fucine che sono Mute.

Ma anche: tagliare la lingua, le lingue, impedire la comunicazione. Castrarla. Castrarsi. A ben guardare in Yugoslavia – di questi tempi – è proprio questo che accade, un tagliarsi la lingua. La conseguenza della lucida follia politica è anche l’abbattimento NATO dei ripetitori. Abbattere, quindi, ma anche abbatterseli, gli amati, utilissimi ripetitori; quelli di televisioni e radio asservite, con le loro antenne della propaganda, della menzogna, della manipolazione e della comunicazione controllata (piccola paranoia: la comunicazione, anche la nostra – videogame, simbolica, appiattita, rassicurante – è sempre controllata…), quasi che le bombe che piovono dall’alto, da un distantissimo e cinico eurocielo, fossero volute, desiderate, funzionali ai propri scopi.

La comunicazione indipendente (più di duemila epurazioni tra i professionisti dei media yugoslavi, quasi novanta attentati – spesso mortali – ai danni di giornalisti non schierati col regime) era già stata tagliata dal regime di M. Tagliare/rsi la lingua, quindi, è il gesto simbolico della guerra dei Balcani.
Punto uno: si spegne la voce dissidente, comunque, magari sull’uscio di casa, come è accaduto l’11 aprile di quest’anno a Slavko Curuvija, freddato dai sicari di regime. O a Vuk Draskovic (il politico simbolo della contestazione studentesca a M), prima comprato e cooptato come vice premier e poi silurato senza complimenti. Al capo dell’esercito, a quello della polizia segreta.
Punto secondo: si chiude, si legittimano i metodi oppressivi – o li si trasforma del tutto – si manipola (giornali, radio, emittenti non allineate). Serrare. Epurare. Uccidere. Poi, alla fine, si è comunque tagliati di quella lingua che ne uccide più della spada.

Sperare nelle bombe, tagliarsi la lingua. I pullman esplodono.
La lingua unica (privata di quelle differenti da sé, politicamente ed etnicamente), la comunicazione controllata, lo slogan d’effetto, la falsificazione storica determinano, in un primo momento, il rafforzamento del Potere. Le sinistre antiberlusconiane ne hanno fatto un cavallo di battaglia, salvo poi scordarselo del tutto (mi viene in mente che chi ha visto lo spot elettorale dello J.U.L. – il partito della sinistra yugoslava della Markovic – rimpiangerà come veri capolavori quelli pur orrendi di Forza Italia). Lo stato di crisi in Serbia alimenta il fuoco nazionalista: la paura, l’odio per ciò che proviene from the outer space rafforza il potere. Arrivano di notte, invisibili, lontani, inafferrabili, ed uccidono senza motivo: “le ho invocate, perché mi hanno dato il nuovo potere”.
Così pensa M.
Ma la coalizione NATO non è interamente sostenuta da governi di sinistra?

Le bombe tagliano. E aiutano a tagliarsi.

La minaccia dell’esterno permette ad un regime antidemocratico l’abbattimento d’ogni minaccia interna. È stata la politica della guerra fredda, del maccartismo spinto, di tutte le dittature. Ma la bomba schianta, deflagra e, a lungo andare, spezza, piega. I ripetitori sono stati distrutti e il mito di Kosovo Polje non ha più voce: i morti da centinaia d’anni potranno tornare a riposare in pace. Quelli di oggi attendono la giustizia, che non è mai stata di questi luoghi. Come di Sarajevo, Vukovar, Mostar.
Kosovari e serbi ancora vivi aspettano.
M è nell’ombra, e i manichei furfantelli dell’organizzazione lo stanno cercando. 

A proposito di comunicazione basata su spudorate manipolazioni si veda quanto il sito ufficiale del Ministero dell’Informazione della Repubblica Serba riporta all’interno delle pagine relative alle minoranze etniche
(http://www.serbia-info.com/facts/minorities.html).
Si faccia particolare attenzione a quanto scritto riguardo la “minoranza” albanese in Kosovo.






NATIONAL MINORITIES

In Serbia, the rights and freedoms of national minorities are respected. Members of national minorities have constitutional right to political association, cultural institutions, education and access to information in their own language, to elect and be elected to local, republican and federal government, to engage in business and other activities. Minorities in Serbia enjoy rights in accordance with the established international standards.

Members of national minorities in Serbia develop their ethnic, cultural, linguistic and religious identity, without fear of assimilation against their will. They are ensured material conditions for development. Vojvodina, where the largest number of nations live, is a developed region. Kosovo and Metohija, where the Albanian population is concentrated, although economically under-developed, has had a higher rate of development in recent years than any other part of Serbia. The Albanians in Kosovo and Metohija, however, do not recognize the Republic of Serbia in which they live, nor its Constitution. Under pressure from separatist political leaders and help from outside, the Albanian minority boycott all state institutions, through which they could achieve their rights and freedoms. They refuse to recognize the state authorities, to pay taxes or allow their children to be educated in their mother tongue in state schools with curricula in force for all students in Serbia. They boycott democratic elections in which they could elect their legitimate representatives to local, republican and federal government.

An extreme and aggressive Albanian nationalism at work in Kosovo and Metohija, accompanied by a demographic explosion, has changed the demographic face of that Province. The Albanian population has the highest birth rate in Europe. During World War Two, Hitler annexed Kosovo to Albania, a Fascist state under whose rule large numbers of Serbs and Montenegrins were expelled from Kosovo, while Albanians from Albania were settled there. By Order No. 343 of the Commissar of Internal Affairs of 5 March, 1945, Tito barred those Serbs and Montenegrins from returning to their homes. Then, during the seventies, over 200,000 Serbs were forced to leave Kosovo under the pressure of Albanian terror. Equally significant, since 1945, with the blessing of the Yugoslav authorities, between 350,000 and 400,000 Albanian refugees from Albania were settled there. In this way, the ethnic make-up of Kosovo and Metohija was changed and conditions were created for Albanians to appear on the international political scene with demands for a separate state.

http://www.serbia-info.com/facts/democracy.html
Public information in the Republic of Serbia is free and the media are not subject to censorship. The freedom of expression is guaranteed by the Constitution of the Republic of 1990 (Article 46). Public information is regulated by the Public Information Law (1991) and the Radio-Television Law (1991), in accordance with the Constitution.

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