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Cinema

La meglio gioventù di Pasolini

Pier Paolo Pasolini all'Academiuta
di Lengua Furlana

Non v’e riferimento autobiografico o intervista negli anni della sua maggiore e contrastata fortuna artistica e letteraria, quand’era al centro di scatenanti dibattiti civili, in cui Pier Paolo Pasolini non si richiamasse agli anni friulani, a quella straordinaria, lunga e varia stagione in cui aveva scoperto il mondo contadino, s’era immerso nel suo utero linguistico, era vissuto tra una gioventù incontaminata, aveva infine condiviso l’ardore delle lotte dei braccianti e dei mezzadri.
Il ’43, anno dell’abbraccio al Friuli dopo tanti soggiorni episodici nel paese materno, rimane per Pier Paolo, nonostante le tragedie della guerra e lo sfollamento dalla città, “uno degli anni più belli” della sua vita.
Casarsa era già stata, con le prime poesie friulane, topos del vagheggiamento giovanile di una terra romanza mitica, pura, immersa in immutabili cicli stagionali e in un’antica innocente cristianità. La permanenza, prima nella casa materna dei Colùs e poi nel borgo rurale di Versuta, discosto dalle insidie dei bombardamenti, trasforma gradualmente quei momenti lirico-elegiaci e idillici, stempera il mito assumendo consistenza storica nell’humus contadino e nella vita materiale. Il gruppo di “fantassìns” che si avvicina a Pier Paolo per un’esigenza di istruzione, e che nel febbraio del ’45 forma il nucleo dell’Academiuta, diventa esperienza di vita, operazione di interscambio culturale tra maestro ed alunni, inserimento pieno nell’ambiente. Il friulano casarsese, “lingua pura per poesia”, supera l’ipoteca vernacolare e borghese ottocentesca, trova linfa e freschezza nei componimenti di ragazzini scalzi coll’odore di letame nei calzoni corti e rattoppati. […]

Nel ’72, in una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi, Pasolini indica in quella stessa sfera di persone, conosciuta in Friuli e poi dilatata alle borgate romane e poi ancora estesa al terzo mondo, i portatori dei suoi valori culturali:

“Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica in questa mia affermazione: non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese […] è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice”.

Immagine articolo Fucine MuteCol nostro lavoro di raccolta di testimonianze abbiamo ripercorso a ritroso il cammino di Pier Paolo Pasolini, la sua nostalgia d’una società non ancora intaccata e corrosa dallo sviluppo capitalistico negatore di vero progresso, le sue coordinate di vita e di valori, le sue opzioni fuori dal Palazzo e dall’omologazione consumistica. Abbiamo deciso di dar voce alla “meglio gioventù” che popolava i campi del Friuli e ne gremiva le piazze, di riascoltare quelle aspirazioni, di capire quanto Pier Paolo stesso avesse inciso in quella realtà. […]
Le testimonianze qui raccolte, pur di allievi marginali o di persone direttamente coinvolte, riconducono l’Academiuta in un alveo naturale di disponibilità e carica umana del promotore, di vivificazione d’una cultura “altra”, di azione per l’emancipazione di ragazzi rimasti esclusi dalla stessa istruzione pubblica. […]
Si è cercato così di dar voce alla realtà di quegli anni friulani dal basso, senza mediazioni o interpretazioni, pur dovendo accorpare e ricomporre i segmenti del discorso e i salti temporali e tematici. […]
Le testimonianze sono state poste in veste di racconto più che di intervista, eliminando o comunque riducendo le interruzioni dovute alle domande.

Alcune delle testimonianze raccolte da Giuseppe Mariuz

Walter Bearzatti di San Martino e Marianna Leonarduzzi di Domanins

Walter: Noi, allievi “pasoliniani” della Scuola media di Valvasone negli anni 1947-48 e ’48-49, ci ritroviamo ogni anno magari per una pizza. Lo facevamo anche quando il nostro professore era vivo, è lui che ci ha insegnato la solidarietà, il valore dello stare insieme. […]
Lo abbiamo sempre giudicato per quello che ci ha dato, veramente tanto. Era per noi il fratello maggiore. Qui, presso l’osteria della mia famiglia, lui qualche domenica veniva anche a cena, e poi si fermava a ballare. Aveva simpatia per una ragazza di nome Lida, che ora vive a Milano. Se gli veniva l’ispirazione, mollava il ballo, prendeva la borsa che portava sempre con sé a cavallo della bicicletta e andava a battere sulla macchina da scrivere che il prete gli prestava. Poi tornava a ballare.
Aveva tanta umanità e disponibilità. È lui che al pomeriggio, dopo scuola, ci ha insegnato a giocare al pallone, in particolare il doppio passo alla Biavati. Aveva ampia visione di gioco ed era velocissimo all’ala. Siamo andati con la nostra squadra in bicicletta, in fila indiana, a giocare a Sacile e anche al don Bosco di Pordenone; al ritorno, ai Tortiglioni di Casarsa, ha pagato di tasca propria il gelato a tutti noi.
Era contrario ai giocattoli comperati, preferiva che prendessimo un cartone o una tavola e ci applicassimo due ruote di legno, per sfruttare la fantasia, se no, lo diceva lui, si diventa idioti.
Ci rendeva la scuola leggera. C’era un alunno di nome Giancarlo Mantovani, noi lo chiamavamo Monte Grappa per la sua testa grossa. Un giorno Pasolini spiegava i complementi di argomento e lo aveva chiamato alla lavagna; gli ha fatto tradurre “Cicero disputavit de dura cervice Mantovani”. Insegnava il latino anche attraverso battute e vignette.
Aveva la poesia nel sangue. Durante un’ora di lezione. per esempio dalle undici a mezzogiorno, ci chiedeva di inventare dei versi.

Immagine articolo Fucine Mute

Marianna: Ci rimangono quei due anni completi [1947-49], un’esperienza indimenticabile, ricordi bellissimi. Per noi, fondamentalmente, era il professor Pasolini, con tutto il suo bagaglio di cultura. Lo ricordo ancora quando arrivò, in biclicletta e con i pantaloni alla zuava: era giovane e asciutto.
Un giorno ho scritto due poesie, ne ricordo ancora una:

A sùnin li ciampanis
a sùnin plan planin
e il siò sun al si spiert
come ussièi in ta l’aria
a sùnin li ciampanis
a sùnin plan planin.

(Suonano le campane / suonano pian piano / e il loro suono si sperde / come uccelli nell’aria / suonano le campane / suonano pian piano)

Questa l’avevo passata all’Annì, e io mi ero tenuta l’altra, ma lui si è accorto e le ha detto: “Ma questa non è tua, è di Mariannina!”.

Walter: Io ne avevo scritta una su un cardellino, chiuso in una gabbia dai ferri argentei. Lui mi ha detto che lo aveva colpito quel “ferri argentei”.
Ci spiegava anche la metrica.
[…]
Quando eravamo stanchi, ci leggeva dei brani di Cechov come La steppa, e di Tolstoi…
[…]
Ci spiegava anche i film che uscivano, come Ladri di biciclette; andava a vederli a Udine, con una bicicletta che avrà pesato due quintali.

Marianna: A primavera ci portava fuori, in campo sportivo, a studiare. Noi stavamo seduti in circolo, e lui in mezzo ci faceva lezione. Non ci distraevamo, perché aveva un forte potere di attrazione e quasi ci incantava.
Non si creda che fossimo plagiati. Avevamo il piacere di studiare e il piacere di dargli soddisfazione, perché lui lo desiderava. Con qualche eccezione, s’intende. Un giorno ci aveva assegnato di comporre delle frasi, ma noi eravamo svogliati. Quando è passato per i banchi e si è accorto che nessuno aveva lavorato, si è trasformato: tremava la mascella, stava zitto a guardar fuori. Non si sentiva volare un mosca, e ci siamo vergognati per avergli dato un dispiacere. Era un metodo di insegnamento che ci coinvolgeva, perché non ci trattava solo da alunni, ma molto di più.

Walter: Aveva preparato un testo di teatro, che avremmo dovuto recitare. Eravamo pronti per la rappresentazione in estate, quando abbiamo saputo che non l’avremmo più avuto come insegnante.

Marianna: Il soggetto era un allievo discolo e poco diligente, che una notte aveva fatto un sogno. L’allievo era interpretato dal compagno di classe, Masut, poi c’era la sua coscienza, impersonata dalla Benvenuti, ora morta e la madre, l’Annì. Io, forse per la statura piccola, ero la virgola che bisognava mettere dopo la parola e Walter rappresentava gli errori blu. Riassumendo la trama, il protagonista veniva assalito dagli incubi per non aver studiato: c’erano un castello, un sole forte e battente a mezzogiorno, dei rimbombi tutt’intorno.

Walter: Noi alunni vorremmo recuperare quel lavoro teatrale, chissà se esiste ancora tra le carte pervenute agli eredi.


Luigi (Gigion) Colussi “Socolari” di Casarsa

Io ero di famiglia contadina, possedevamo della terra e questa casa. Mio padre aveva anche ottenuto una licenza di osteria, grazie al fatto che era invalido di guerra.
I Pasolini venivano a Casarsa in estate, nella casa qui di fronte dei Colussi “Batistons” — della madre, delle zie e della nonna di Pier Paolo — e in pratica ci siamo sempre conosciuti. È da loro che ho ascoltato la prima radio, non ce n’erano altre. Io mi sedevo nel giardino esterno, non potevo entrare, perché ero vestito male e avevo un certo ritegno. Loro erano di famiglia più elevata, ma Pier Paolo stava bene con tutti, era sempre a torzeòn (in giro). Giocava anche al pallone, nella squadra del Casarsa; era allora molto giovane, non aveva compiuto vent’anni. C’era severità anche nello sport, entrava in campo solo una cerchia ristretta, e poi, chi aveva i soldi per comperare le scarpe da pallone? I giocatori, compreso Pier Paolo, si spostavano in trasferta in bicicletta, a Spilimbergo, San Daniele, Codroipo, San Vito. Suo fratello Guido, più giovane, era bonaccione, sempre sorridente, ma si vedeva più di rado. Il padre di Pier Paolo e di Guido, quando veniva a Casarsa, era piuttosto solitario, non integrato nell’ambiente. Nella stessa casa abitava anche il cugino Nico Naldini, che era spesso con noi, specie con mio fratello. Il padre di Nico era grande invalido della prima guerra mondiale e la madre, zia di Pier Paolo, gestiva un botteghino dove vendevano un po’ di tutto, dai quaderni ai reggipetti.
In tempo di guerra abbiamo formato il Coro. Eravamo una dozzina e facevamo le prove nell’asilo delle suore, in una sala presso la cappella, dove c’era un pianoforte. Pier Paolo Pasolini era il direttore e scriveva i testi, la Kalz componeva la musica e suonava il pianoforte. Era tutto inventato in casa, in friulano. Io ero allora il più giovane del gruppo, poi c’erano fra gli altri Jacumin Fantin, Bepi Castellarin, Angelin Bertùs, Onorio Vis’cia, Leo Vis’cia, quelli del Gialùt. Pier Paolo aveva scritto dei versi, segnando le nostre caratteristiche:

Il miej “prin” a l’è Gigiòn
cu na vous di gardilin;
il miej bas a l’è Angelìn
cu ‘na gola da canon.

(Il miglior “primo” è Gigion / con una voce da cardellino / il miglior basso è Angelin / con una gola da cannone.)

E poi:

La maestra a è pissuluta
ma a è duta di oro fin.
Ultin, un ch’a ti combina
li vilotis cun murbin.

(La maestra è piccolina / ma è tutta d’oro fino. / Ultimo, uno che ti compone / le villotte con morbino.)

Andavamo in giro, in particolare ricordo una volta a Zoppola, dove abbiamo tenuto uno Spetaculut durante un intero pomeriggio, presso il palazzo del conte in una gran sala piena di gente seduta a terra. Era una giornata piovosa, in tempo di guerra, ed eravamo partiti su un carro trainato da cavalli e coperto da frasche e da un telo, come i coscritti. Durante il percorso, di tanto in tanto guardavamo fuori, per controllare che non arrivassero aeroplani a bombardare. Il conte, felicissimo, ci ha portato da bere su boccali e scodelle. Non c’era altro, a quei tempi. L’asilo, poi, è crollato sotto i bombardamenti. Anche un pezzo di casa nostra è andato bruciato il 20 febbraio del ’45, e un’altra parte è stata buttata giù. Qui siamo sfollati tutti, noi prima dai Colussi “Socolaris” in Via Pordenone, poi il 4 marzo nel borgo Majaroff tra i campi. Pier Paolo e famiglia erano a Versuta, e non ci siamo visti per un pezzo.
Dopo la guerra la loro casa qui di fronte, con annessa distilleria, è stata rimessa a posto, comunque non aveva subito gravi danni e aveva mantenuto la stessa impronta. L’Academiuta aveva sede in una stanza un po’ tetra, con qualche tavolino e alcune seggiole. Eravamo in parecchi, quindici sedici: facevamo traduzioni, leggevamo e imparavamo a scrivere e a comporre in friulano, con accenti, virgole, punteggiature.
Un fine carnevale, subito dopo la guerra, abbiamo organizzato una mascherata su un carro. Pier Paolo ha scritto il testo di una piccola rappresentazione: io, lungo e magro, impersonavo la quaresima, con una gonna lunga di mia nonna; Bepi Castellarin, grosso e imbottito, faceva il carnevale, caccando frìssis (cicciole) e bevendo, poi c’era Vis’cia con aringhe appese. Giravamo per piazze e paesi intorno, interpretando ognuno la parte che ci era stata preparata. La gente scoppiava dalle risate. Le strade e le piazze erano piene di giovani, non c’erano macchine né altri divertimenti. E abbiamo continuato a girar anche fuori stagione, in quaresima. […]
Dopo la partenza dal Friuli, Pier Paolo Pasolini ha mantenuto contatti amichevoli, come sempre. Quando tornava a Casarsa veniva sempre qui a trovarci, un giorno è arrivato con la Callas. Io di politica non mi sono mai interessato, parlavamo del più e del meno, ricordavamo quegli anni.


Dino Peresson di Ligugnana

[…]
Immagine articolo Fucine MuteCe l’ho ancora davanti agli occhi al Tagliamento: piccolo, atletico e muscoloso, peloso come una ruga. In estate ci trovavamo spesso a nuotare, tra Rosa e Carbona, in dieci, quindici, venti. Per noi era un periodo transitorio: non studiavamo più e lavoro non ce n’era. Lui era il più anziano, gli altri della sua età erano all’estero, avevano il peso d’una famiglia. La sera, al ritorno, rubavamo qualche pesca, un po’ d’uva aspra, quel che si poteva trovare nei campi, e via. Pier Paolo cercava di farci capire quello che non sapevamo, di letteratura, di pittura. Con noi parlava sempre in friulano. Solo in caso di necessità, con altra gente che non capiva, usava il dialetto [veneto di terraferma] o l’italiano. Era un comunista per cercare l’uguaglianza, perché questa gente potesse vivere meglio. La chiesa allora difendeva i padroni, non di certo noi. Pier Paolo non ce l’aveva su con la religione, ma con quelli che la predicavano male. Gli piaceva stare con noi semplici, ci sentiva di sentimenti sinceri, sani da cima a fondo, onesti anche se rubavamo una zucca, era per non morir di fame. Se c’era una scodella di vino, si divideva fra tutti.
Faceva le battaglie per i contadini perché li ha visti soffrire, nella loro miseria e anche nella sottomissione ai padroni. Non voleva eliminare i padroni o la proprietà, ma che tutti potessero vivere con dignità. Non l’ho visto partecipare direttamente alle lotte contadine, ma si informava e forse guidava il movimento assieme ai responsabili sindacali e politici, in particolare a Galante, grande trascinatore.
Io ho partecipato alle lotte, all’occupazione di palazzo Rota, di palazzo Alborghetti e di palazzo Tullio. A palazzo Rota si è verificato qualche saccheggio ed è stato causato qualche danno: hanno rotto un sacco di zucchero, portandone via un po’ ciascuno, han dato fuoco alle palme. Galante, Guardabasso e gli altri responsabili hanno subito bloccato queste azioni, per non passare dalla parte del torto. Volevamo solo lavorare, essere occupati anche solo stagionalmente come braccianti nelle opere di miglioria dei fondi. Tullio è stato il primo a firmare il patto. Abbiamo anche invaso il palazzo del Comune. Ero presente a Cordovado alle cariche della polizia, ho soccorso uno dei nostri, Giacomo Zannier, colpito col calcio del fucile. Io, mio fratello e Dario Scodeller l’abbiamo preso nella strada e portato nella villa dei Sigalotti che non volevano riceverlo. Quel giorno eravamo di ritorno da Palazzolo dello Stella, dove avevamo scioperato a sostegno di quei braccianti rovinati dai crumiri arrivati proprio da San Vito. E anche là c’erano stati scontri con la polizia.
Il giorno seguente a San Vito c’è stata una manifestazione imponente. È arrivato anche l’esercito a presidiare i palazzi, ma non si sono verificati altri scontri.


Guglielmo Susanna di San Giovanni

Quando hai conosciuto Pier Paolo Pasolini?

Credo a Versuta, dove è arrivato come sfollato, ma fors’anche prima a Casarsa, dove andavo a lavorare con mio padre pittore. Ma l’amicizia vera è venuta dopo, quando avevo diciott’anni.

Tuo padre, a suo tempo, riferì d’aver mandato i suoi figli a lezione da Pier Paolo…

Sì, durante la guerra, prendevamo lezioni a Versuta, in una casa che credo fosse dei Cicuto. Lui aveva una stanza, ci faceva scrivere poesie, in italiano e anche in friulano; e poi ci insegnava a scrivere in prosa, a comporre dei temi, a leggere, un po’ di tutto…

In quanti eravate?

Mediamente, credo, dieci-dodici, di San Giovanni e soprattutto di Versuta, perché i ragazzi di lì avevano più comodità di frequentarla.

Era un scuola gratuita?

Mah, gli davamo qualcosa, generalmente in natura. Mio padre, credo sia andato a imbiancargli le stanze. Della mia famiglia, ha frequentato quelle lezioni anche mia sorella. Con noi veniva Pompeo Ricci.

Come funzionava?

Eravamo seduti intorno a una grande tavola, lui si alternava dai più giovani ai più vecchi, non era una lezione unica. Ai più preparati e ai più grandi, tra i quali c’ero anch’io, insegnava cose più impegnative.
Immagine articolo Fucine MuteEra molto chiaro nelle spiegazioni, ci faceva entrare i concetti…
Ci ha insegnato a capire la poesia, la sua atmosfera. E l’arte. Ci lasciava parlare, esprimere il nostro punto di vista, poi interveniva, con molto rispetto. “Tu esageri sempre”, mi diceva, quando tentavo di estremizzare.

Poi, siete diventati amici…

Bisogna saltare due tre anni, quando anch’io ho incominciato ad andar a ballare, e abbiamo formato un’unica compagnia. […] Erano begli anni, ma presto tutto s’è disciolto. Qui non c’erano prospettive per i giovani senza mestiere, né per i contadini. E chi aveva un mestiere, dopo anni e anni di garzonato, si trovava con paghe misere. Non restava che andare all’estero. Molti sono partiti subito, poi è stata la nostra volta: Archimede in Svizzera, io in Sudamerica, altri in Canada.

Il lavoro di Giuseppe Mariuz di raccolta di testimonianze dal basso ripercorre a ritroso nel tempo e specularmente la lunga e varia stagione “friulana” di Pier Paolo Pasolini (1943-1949) e consente di rileggere le ragioni del suo attaccamento ad un mondo non ancora corroso da uno sviluppo capitalistico e consumistico negatore di vero progresso civile, i suoi riferimenti di vita e di valori, le sue successive opzioni fuori dal Palazzo e dall’omologazione.
I ragazzi che si avvicinano a Pier Paolo per un’esigenza di istruzione, e che nel febbraio del ’45 formano il nucleo dell’Academiuta di Lenga Furlana, scoprono quasi con incredulità il proprio potenziale linguistico e letterario e nel contempo avvertono col loro educatore una comune esperienza di vita e un’operazione di interscambio culturale.
Il corpo centrale delle testimonianze ruota intorno a quella gioventù diseredata che popolava la campagna friulana e che assumeva in sé impeto, entusiasmo, spontaneità, candore.
Si è data voce alla “meglio gioventù” che popolava i campi del Friuli e ne gremiva le piazze, si sono ascoltate storie di vita e aspirazioni di persone entrate nella biografia e nelle opere letterarie di Pier Paolo Pasolini, cercando di capire quanto egli stesso avesse inciso in quella realtà. Se da un lato andavano precluse le tentazioni alla leggenda, all’oleografia e all’aneddotica, dall’altro si è tenuto conto di ricomporre un quadro di memorie storiche che fosse il più possibile fedele a quei valori e non alterato dall’influsso delle trasformazioni economiche, sociali e antropologiche avvenute nel corso di oltre quarant’anni.
Ne esce una figura di Pier Paolo pienamente inserita nel contesto ambientale e sociale, con qualità che sommano, in un tutto indistinto e sinergico, ammaestramento letterario e civile, vita di relazione e divertimento: invenzione di poesie e balere, manifestazioni di piazza e nuotate nel favoloso Tagliamento.

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