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Cinema

Nel segno di Rimbaud

Ostia, 2 novembre 1975: in uno sterrato semideserto del litorale romano viene rinvenuto, orrendamente massacrato, il corpo di Pier Paolo Pasolini. Il “ragazzo di vita” Giuseppe Pelosi, si confessa unico autore del delitto. L’assassino del più “sovversivo”, “scomodo”, “scandaloso” intellettuale italiano risultò subito un fatto delittuoso all’insegna dell’ambiguità — per i suoi presupposti, per le sue implicazioni, per la sua stessa dinamica in più punti oscura, implausibile e inesplicabile.
In quei giorni ormai lontani della morte di Pier Paolo Pasolini, più che piangere il poeta scomparso e la grave perdita che subiva la cultura con la scomparsa di una delle voci più significative del Novecento, si scatenò una canea di commentatori: nel migliore dei casi, i loro discorsi erano tesi a dimostrare che egli “era un omosessuale, non poteva che fare quella fine”, in altre parole “se l’era andata a cercare”. I fascisti arrivarono oltre: riempirono di scritte insultanti i manifesti funebri esposti sui muri di Roma. Poi ci furono i commenti a vent’anni dalla morte: nel ’95 vi furono apologetiche commemorazioni. Provenivano dalle stesse fonti che lo avevano doppiamente assassinato; anche dai fascisti, che tentarono di farne una loro bandiera…

“… Pasolini era del tutto indifeso e non si appoggiava a nulla, come tutti i veri intellettuali. O meglio si appoggiava alla propria ‘diversità’, donde l’insopprimibile sua tendenza a scandalizzare cioè a volere intervenire nella vita pubblica senza, in precedenza, essersi disfatto delle sue tante anormalità. Egli sapeva di essere scandaloso; ma ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo.” (1)

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, come si suol dire, ma pochi pregiudizi sono caduti nei confronti della “diversità”, sia essa costituita dall’etnia, dalla menomazione fisica, dalla scelta della propria sessualità. Ho sentito, per esempio, commenti molto simili a quelli usati per Pasolini, espressi da persone comuni, quando Rudolf Nureyev, il grande danzatore, morì nel 1993 di Aids. E anche gli organi di stampa non sono stati leggeri: c’è stata una gara a chi riuscisse a impossessarsi della fotografia “più significativa” per mostrare il degrado di una malattia originata da un “peccato” devastante. Anche in questo caso, non contavano le sue geniali creazioni coreografiche, né l’avere rivoluzionato l’arte del balletto classico. Contava il suo essere stato omosessuale: la morte per Aids “se l’era andata a cercare”. Pasolini, in più, era un personaggio scomodo per il potere, aveva osato attaccare “il palazzo”: tutti gli strumenti di cui si serviva — la poesia, il cinema, la letteratura — egli li aveva rivolti implacabilmente e senza remore contro coloro che sfruttavano, che mercificavano ogni cosa, che facevano del consumismo il loro massimo ideale. Ed era comunista…  Molti omosessuali sono stati dileggiati dalla società, portati davanti ai tribunali, puniti. Nel caso di Pasolini, l’ostracismo dato al “diverso”, la persecuzione di cui fu vittima, sono atti simbolici che nascondono, nella sottile astuzia dei persecutori, l’obiettivo di far sentire come diverse e “contro natura” anche le idee per cui l’uomo si batte.

“Ora però avviene che qualcuno pur essendo comunista, si permette di non essere sano e normale (s’intende dal punto di vista della borghesia) e all’omosessualità aggiunge altre anormalità come la cultura, la poesia, la polemica politica, l’arte ecc. ecc. Che cosa succederà ad un simile personaggio? […] sarà odiato non già perché è comunista e perché è omosessuale, ma perché vuole essere tutte e due le cose insieme, nonché poeta, uomo di cultura, polemista politico, artista di tutte le arti.” (1)
Pasolini visse la propria condizione di “diverso” all’interno di una società di cui osservava con occhio spietato l’ipocrisia divenuta “normalità” e il progressivo e inesorabile disfacimento: condusse quindi una vita nella quale le sue stesse contraddizioni, il suo vero e proprio “sdoppiamento” dovettero essere per lui fonte di infinite sofferenze. Visse in malo modo quella che era in lui una pulsione insopprimibile. Ne parlò all’amica Silvana Ottieri, scrivendole una lettera, che è uno spezzone di biografia e di acuto dolore, da Roma dove si era stabilito negli anni seguenti la “fuga” dall’amato Friuli:

“… Posso solo dirti che la vita ambigua — come tu dici bene — che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all’etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta — e in questi ultimi tempi spesso — sono gelido, ” cattivo”, le mie parole “fanno male”. Non è un atteggiamento “maudit”, ma l’ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un’educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale… Questa mia tradizione di onestà e di rettezza — che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto…

Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle eccezionali che si usano per i malati. La mia apparente salute, il mio equilibrio, la mia innaturale resistenza, possono trarre in inganno… Ma vedo che sto cercando giustificazioni, ancora una volta… Scusami, volevo solo dire che non mi è né mi sarà sempre possibile parlare con pudore di me: e mi sarà invece necessario spesso mettermi alla gogna, perché non voglio più ingannare nessuno — come in fondo ho ingannato te, e anche altri amici che ora parlano di un vecchio Pier Paolo, o di un Pier Paolo da rinnovarsi. Io non so di preciso che cosa intendere per ipocrisia, ma ormai ne sono terrorizzato. Basta con le mezze parole, bisogna affrontare lo scandalo, mi pare dicesse San Paolo… Uno normale può rassegnarsi — la terribile parola — alla castità, alle occasioni perdute: ma in me la difficoltà dell’amare ha reso ossessionante il bisogno di amare…
Qui a Roma posso trovare meglio che altrove il modo di vivere ambiguamente, mi capisci?, e, nel tempo stesso, il modo di essere compiutamente sincero, di non ingannare nessuno, come finirebbe col succedermi a Milano: forse ti dico questo perché sono sfiduciato, e colloco te sola nel piedestallo di chi sa capire e compatire: ma è che finora non ho trovato nessuno che fosse sincero come io vorrei.
La vita sessuale degli altri mi ha sempre fatto vergognare della mia: il male e’ dunque tutto dalla mia parte? Mi sembra impossibile. Comprendimi, Silvana, ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce. È l’unico modo per farmi perdonare da quel ragazzo spaventosamente onesto e buono che qualcuno in me continua a essere… Ho intenzione di lavorare e di amare, l’una cosa e l’altra disperatamente…

La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud, o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no. È una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così; e io, come te, non mi rassegno… Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro. Solo in quest’ultimo anno mi sono lasciato un po’ andare: ma ero affranto, le mie condizioni famigliari erano disastrose, mio padre infuriava ed era malvagio fino alla nausea, il mio povero comunismo mi aveva fatto odiare, come si odio un mostro, da tutta una comunità, si profilava ormai anche un fallimento letterario: e allora la ricerca di una gioia immediata, una gioia da morirci dentro era l’unico scampo. Ne sono stato punito senza pietà. Aggiungerò ancora subito su questo argomento un particolare: fu a Belluno, quando avevo tre anni e mezzo (mio fratello doveva ancora nascere) che io provai per la prima volta quell’attrazione dolcissima e violentissima che poi mi è rimasta dentro sempre uguale, cieca e tetra come un fossile…”

Non altrettanto tetra e cieca è l’attrazione che Pasolini descrive con leggerezza quasi soave in Teorema (2). È giunto un Ospite inatteso nella villa di un industriale milanese, un Ospite che trascorre il tempo a leggere l’opera omnia di Rimbaud e che eserciterà il proprio fascino, e la propria sessualità, su ciascuno dei componenti la famiglia. Vi è invece nel narratore una grande maestria, anche nella scelta degli aggettivi, nella formulazione degli incisi. E una grande dolcezza.

“Il giovane ospite si spoglia, come è naturale davanti al ragazzo [Pietro, il figlio dell’industriale]: fino a rimanere del tutto nudo senza nessun timore, senza nessun particolare senso di vergogna, come avviene, o dovrebbe avvenire, nella maggior parte dei casi, tra due giovani dello stesso sesso, e circa della stessa età. […] Prima di addormentarsi i due ragazzi si scambiano poche semplici parole: poi si danno la buona notte, e ognuno resta solo nel suo letto.
Il giovane ospite — pieno di quella sua serenità che tuttavia non ferisce chi ne è privo — si addormenta del sonno misterioso delle persone sane. Invece, Pietro non riesce ad addormentarsi; rimane con gli occhi aperti, si gira sotto le lenzuola: fa tutto ciò che fa chi soffre di un’insonnia stupida, umiliante come un’ingiusta punizione. […] Improvvisamente, si alza.

Immagine articolo Fucine MuteE, piano piano, per paura che l’ospite si risvegli, anzi, terrorizzato da questa idea, bianco per l’ansia, e tremante per la paura di essere colto in quella sua azione — fa qualche passo nella stanza, va vicino all’ospite e ne osserva a lungo il viso, le braccia, il petto scoperto. Adesso è lì che trema di fronte al letto dell’ospite. E, appunto come obbedendo a un impulso più forte di lui (e che pure viene da dentro di lui) — lo stesso impulso che l’ha fatto uscire dal letto — egli ora compie un atto che, fino a qualche momento prima, non si sarebbe nemmeno sognato di poter compiere o, piuttosto, di voler compiere. Piano piano egli tira giù la leggera coperta posata sul corpo nudo dell’ospite, facendola scivolare lungo le sue membra. La mano gli trema, e gli esce quasi un gemito dalla gola. […]”

Note

(1) Alberto Moravia, pagine introduttive, in AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977

(2) Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 1968. “Il teorema in questione”, scrive Serafino Murri [in Pier Paolo Pasolini, Editrice il Castoro, Milano] “ha per argomento l’irrimediabilità della borghesia, che è destinata a soccombere proprio attraverso il suo strumento di dominio: la razionalità illuministica. Ultimo tentativo di perpetuare il suo pericolante dominio per la borghesia non può essere che la trasformazione dell’intera società, e in primo luogo delle classi subalterne, in un’unica, omologante Cultura Borghese […] se l’individuo borghese è posto a contatto con quanto la sua società ha esorcizzato con i propri strumenti di dominio, cioè col ‘sacro’ in quanto zona superindividuale del tutto estranea alla Ragione dominante, ammesso che l’individuo borghese prenda coscienza dell’esistenza dell’Altro, mettendo in discussione in tal modo la propria identità, non può che confrontarsi col proprio vuoto, con la propria impotenza, con la propria morte, vagando nel deserto della propria spiritualità reificata dalla ragione.”

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