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Cinema

Dacia Maraini

Salò e altre ipotesi

Roma, fine di marzo. Quaggiù è arrivata la primavera: il Tevere, pieno di luce, sembra meno inquinato del solito. Soffia un vento leggero. Fa caldo. Incontro Dacia Maraini, nel suo attico di quasi periferia, per un’intervista sulle ultime opere filmiche di Pasolini. Alberto Moravia lavora nella stanza vicina. Dalla finestra si vedono — nitidi — ampi spazi del lungofiume e un cielo di un azzurro particolare, che fa venire in mente — è una sensazione privata — certi pomeriggi di Jnverness, in Scozia, o certe albe estive di Copenaghen.
Parlare di Pasolini, dei suoi film, dei suoi libri significa, credo, impegnarsi su problematiche che vanno al di là dell’estetica, del formalismo letterario o visivo.
Parlare e scrivere di Pasolini vuol dire calarsi nel magma politico-esistenziale di quest’Italia (quest’Europa) che ci circonda. Intanto il processo [si riferisce al processo in corso contro l’ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, Salò o le centoventi giornate di Sodoma ] va avanti stravolgendo — come osserva Dacia Maraini al termine del colloquio — i ruoli effettivi, reali del carnefice e della vittima.
Salò subisce, da noi, la condanna al rogo; in Francia lotta ancora coi baroni della commissione di censura; a Francoforte i bravi borghesi germanici arricciano il naso, evidentemente turbati più dal simbolismo dei cineperiodi che dal rimorso d’un retroterra storico in massimo grado colpevolizzante.
Dacia Maraini è un’operatrice culturale che ama partire nel giornalismo, nella letteratura, nel teatro, nel cinema — da dati razionali, concreti, una donna che fa cultura e politica secondo una linea d’azione che niente ha da spartire coi tetri decadentismi in cui si dibattono vasti e ambigui settori della “intelligentija” romana.
Discutere con lei intorno alla figura di Pier Paolo Pasolini, questo compagno di strada e di lotta costantemente attratto dal non razionale, dal non scientifico, è un’esperienza di grande interesse.
Reputo giusto, e doveroso, trascrivere in modo pressoché integrale il resoconto fonografico del nostro dialogo, avvenuto a Roma tra le ore 12 e le 13 del 29 marzo 1976.

Giovanni Ricci (GR): Inizierei col parlare di Salò. Come hai reagito tu dinanzi alla visione del film? Dice Sciascia: “I più non ne avranno che nausea e orrore: e o sentiranno l’impulso di ripagare con la violenza tanta violenza (magari sfasciando il cinema) o sentiranno tanta disperazione e dannazione da trovarsi a invocare Dio come nel film la vittima”. E aggiunge di aver chiuso gli occhi alla ricerca di un buio fisico che si contrappone al buio morale erompente dallo schermo.

Dacia Maraini (DM): Salò o le centoventi giornate di Sodoma è un film in certo modo sgradevole, però è anche una parabola abbastanza chiara sulla violenza. In fondo le cose che infastidiscono sono le cose ambigue: Pasolini è invece estremamente chiaro, anche troppo, a tal punto che diviene quasi astratto, simbolico. Questa metafora sul Potere e sulla sua violenza verso gli oppressi si differenzia dal film della Cavani [Portiere di notte, ndr] che era tutto basato su un coinvolgimento della vittima dentro il male. Qui c’è un distacco nettissimo, manicheo: ci sono gli oppressi e gli oppressori, e fra di loro non si instaurano rapporti se non di brutale violenza. Forse la cosa che più colpisce non è tanto la violenza quanto la parte escrementizia: siamo abituati a vedere sia il sesso che la violenza, ma la parte escrementizia è nuova, e dà una certa impressione. Poi una cosa che dice Moravia e su cui io sono d’accordo è che il film non è sadico, perché non è fatto da una persona sadica: i film sadici sono i film americani. Sono talmente sadici da non dare più l’impressione del sadismo che — come in Mandingo e in certi film western — diviene un qualcosa di assolutamente assimilato. Salò, al contrario, è un film sul sadismo di una persona che non è affatto sadica.

GR: Pasolini a un certo punto della sua vita ripudia la trilogia Decameron-Canterbury-Oriente oppresso dalla sperimentazione quotidiana di un mondo ove anche i sensi hanno perso ogni ipotesi di felicità, di innocenza, e le stesse masse subproletarie sono omologate, standardizzate persino nell’aspetto fisico. Come mai, in che modo, in quali termini dall’apparente ottimismo della “Trilogia della vita” Pasolini perviene alla drammaticità mortuaria di Salò?

DM: Pasolini aveva seguito molto da vicino la trasformazione del sottoproletariato e ne era rimasto colpito. Bisogna dire che il sottoproletariato è lo strato sociale che è cambiato di più negli ultimi anni, passando da una specie di accettazione paesana della realtà a una presa di posizione molto violenta e brutale: i sottoproletari si sono impadroniti dei valori della borghesia portandoli alle estreme conseguenze, senza addolcimenti di alcun genere. E poiché il mondo che Pasolini conosceva meglio era appunto quello del sottoproletariato, partendo da queste considerazioni era portato a generalizzare. Qui, secondo me, lui sbagliava, perché non è vero che anche nel proletariato o negli studenti vi sia questa omologazione. Il discorso diviene anzi un po’ pericoloso, così com’è pericoloso risalire per esempio dal fatto che ci si veste in un certo modo al fatto che si pensa tutti nello stesso modo. È vero comunque che non c’e più la separazione di una volta tra mondo borghese e mondo popolare, ma questa piccoloborghesizzazione della massa è un fenomeno verificatosi ovunque. La massa oggi non è popolo ma piccola borghesia (come stile di vita), e da ciò Pasolini traeva la conseguenza che destra e sinistra si equivalgono, entrambe omologate da un certo modo di comportarsi, da una certa segnaletica. E arrivava al punto di dire che sotto il fascismo il sottoproletariato era più intatto perché l’ideologia fascista gli era imposta mentre adesso l’ideologia dominante gli viene inculcata e i sottoproletari la accettano come propria.

GR: Ecco, mi pare chiaro che Pasolini, ai tempi di Salò, volesse prendersela più col potere di oggi, distruttivo e omologante, che col fascismo repubblichino. Diceva anzi che era stata l’impossibilità di sopportare fisicamente “i beni di consumo di oggi, le facce di oggi, i capelli lunghi di oggi” a fargli proiettare la critica al Potere di oggi nell’epoca di Salò, che diventa simbolo recente eppure non storicizzato, per dirla con Argentieri “travestimento storicistico e sociologico di una angoscia esistenziale” (“Rinascita”, 28 febbraio 1975). Pasolini insomma sembrava più ossessionato da certa violenza mercificante del Potere che dai pericoli del neofascismo: era, questo di Pasolini, un atteggiamento politicamente motivato, vorrei dire oggettivo, scientifico, o non piuttosto personalistico, frutto di problemi di adattamento esistenziale integralmente soggettivi?

DM: I suoi atteggiamenti non erano mai dettati da ragioni oggettive: lui era molto soggettivo e la sua qualità consisteva appunto nel razionalizzare questa sua soggettività, questo suo irrazionalismo. E si è spesso trovato al momento giusto, nel posto giusto a creare, così, una sorta di scandalo, di rottura che aveva una sua funzione, come quando se la prese con gli studenti prima del ‘68.

GR: L’erotismo. Diceva Pasolini: “I miei film non sono mai erotici, purtroppo”. E a proposito di Salò: “No, neanche questo, non credo che sia erotico, può essere sconvolgente oppure non so scioccante, ma erotico no, mai, forse perché sono inibito e non so rappresentare l’erotismo in quanto erotismo… l’eros nei miei film è sempre un rapporto drammatico, metaforico” (“Il mondo”, 1 aprile 1975). In che senso l’eros pasoliniano è sempre rapporto drammatico? Anche nella “Trilogia della vita” l’eros è rapporto drammatico?

DM: In questo penso che lui avesse ragione. È vero che, così come Salò non è erotico-sensuale, anche gli altri suoi film non possono essere definiti erotici. Ed è vero che lui era inibito, che per lui l’eros era un dramma: basta pensare un momento alla sua vita, all’allontanamento dalla scuola, a tutto il resto per capirlo. La sua omosessualità, oggetto di persecuzione fin dal principio, evidentemente gli ha fatto vivere il sesso in maniera drammatica. Nella stessa “Trilogia” c’e un’idea indiretta della sessualità: la sessualità è rivista e vissuta attraverso gli occhi dei protagonisti, dei ragazzi di vita, dei giovani. È inoltre una sessualità molto letteraria e figurativa, sempre concepita come un quadro rinascimentale o come un’opera di Chaucer, di Boccaccio… È una sessualità molto raggelata, non è ricca di carica vitale, non è semplice, diretta, non lo è mai…

GR: “La vera anarchia è quella del potere”. Sei d’accordo?

DM: Credo che Pasolini volesse dare alla parola “anarchia” — intesa come “disordine”, come caos un senso dispregiativo. L’anarchia in quanto fine politico è un’utopia, mentre di solito quando si parla di “realtà anarchica” ci si riferisce a una situazione negativa di confusione estrema. Penso che lui intendesse dire questo: è la condanna del Potere come legge del più forte. Naturalmente sono d’accordo.

GR: Ha scritto Leonardo Sciascia, a proposito dell’atteggiamento di Pasolini nei confronti del marxismo: “[…] Si potrebbe azzardare una specie di ipotesi di lavoro: che certe verità dette da Pasolini — sul capitalismo, sul comunismo, sulla violenza, sulla classe dirigente italiana (cioè non-dirigente), sull’istruzione pubblica fossero marxiste in quanto verità, per la capacità e mobilità del marxismo e far propria ogni verità […] e non lo fossero per estrazione, per adesione, per meditazione” (“Rinascita”, 12 dicembre 1975). Qual è la tua opinione in merito?

DM: Quelle di Pasolini non sono tanto delle posizioni marxiste quanto piuttosto delle rotture. E in questo senso era più un cristiano, cioè era per lo scandalo nei confronti del mondo borghese, del Potere dominante. Sebbene non fosse sempre disposto a vedere la verità, era un uomo sincero, onesto, coraggioso e mai opportunista: rischiava spesso di andare contro l’opinione pubblica, di essere aggredito, attaccato, criticato… Non aveva niente a che vedere con quei letterati che si nascondono dietro le formule. Portava avanti i discorsi che lo interessavano con grande slancio e grande coraggio. Questo ha un’importanza enorme, perché il nostro è un paese poco coraggioso in cui gli intellettuali non parlano chiaro e il linguaggio è estremamente ermetico. In questo mondo letterario così estetizzante lui estetizzava in maniera clamorosa, violenta, ammirevole. Io credo che lui si sia espresso in modo completo soprattutto nelle poesie, più che nel cinema: per me le poesie sono il massimo che ci ha dato. Nelle poesie riusciva a fondere le preoccupazioni esistenziali private con il momento pubblico, con l’apertura verso la realtà politica. Anche perché forse la poesia si serve di strumenti irrazionali, non ha bisogno di una struttura rigida come il cinema o il romanzo.

GR: Come si poneva Pasolini in rapporto con le strutture economiche della produzione cinematografica tradizionale e capitalistica? E in che rapporto era coi circuiti del ci-nema cooperativistico e alternativo? Grimaldi, mi pare, è un altoborghese piuttosto illuminato, mentre d’altra parte abbiamo avuto Visconti che ha lavorato per Rusconi…

DM: Non c’è dubbio che oggi, è inutile nascondere la testa sotto la sabbia, l’artista, l’uomo di cinema lavorano con capitali borghesi: non è che ci siano molte scelte. I giornali, le case editrici, tutto appartiene al capitalismo, appartiene alla borghesia. I circuiti alternativi, sia quelli del cinema che quelli della letteratura, sono talmente embrionali e minimi che servirsene per un discorso un po’ allargato risulta quasi impossibile. Ogni tanto ci si lavora, ma certamente non possono essere questi gli unici canali a disposizione degli autori. E anche vero però che, all’interno di questa non-scelta, sussiste una differenza profonda: c’è come dicevi giustamente, Rusconi, che porta avanti una politica di conservazione, di oscurantismo, e ci sono altre produzioni che invece, se non altro, si avvicinano a tematiche più moderne, più interessanti: che poi lo facciano per ragioni economiche e non certamente politiche non importa poi molto, si sa, è ovvio. E in questo senso credo che Pasolini non avrebbe fatto un film per Rusconi. Mi pare di ricordare, ne abbiamo parlato a volte, che lui criticasse Rusconi.

GR: Sembra esistere, seppure non negli ultimi tempi, anche un Pasolini che storicizza, che avvicinandosi dall’esterno tocca i confini espressivi del reportage, che guarda con qualche interesse al cinema-verità, magari al film d’intervento. Pensiamo agli Appunti per un film sull’India, a La rabbia (con quei brani di cinegiornali della fine degli anni Cinquanta rimontati da Pasolini: la guerra in Algeria, Papa Giovanni…). Pensiamo ai Sopralluoghi in Palestina (del ‘64) per il futuro Vangelo secondo Matteo, e a un filone come Comizi d’amore (in cui, sempre nel ‘64, Pasolini volle mettere insieme una serie d’interviste sui tabù sessuali degli italiani). E la collaborazione a 12 Dicembre di Bonfanti, e l’Orestiade africana girata in 16 millimetri… Pensi si tratti di filoni secondari? Viene da chiedersi se questi film abbiano qualche legame con l’altro cinema di Pasolini…

DM: Penso che Pasolini sentisse il bisogno, come credo succeda a tutti i registi che lavorano nel mondo cinematografico ufficiale, di intervenire in canali e in produzioni di tipo alternativo. E certamente qualcosa ha fatto: non molto, perché il tempo che gli portava via il cinema diciamo così costoso, ufficiale, era quasi tutto il tempo che lui aveva a disposizione. L’opera secondo me più riuscita è senz’altro gli Appunti per una Orestiade africana che ho visto recentemente in Spagna dove hanno fatto una proiezione, un dibattito su questo film e su di lui. Pasolini l’aveva girato per la televisione italiana e la televisione non l’ha mai messo in onda: quindi vedi che anche lavorare per canali non commerciali diventa un problema. Io per esempio devo fare un documentario sulle donne in un villaggio africano, il progetto è stato discusso e approvato ma sta lì da due anni, non riesco a iniziare i lavori. Sono sicura che il giorno in cui magari ho la possibilità di ultimarlo resta poi in un cassetto. È estremamente frustrante per un autore lavorare fuori dal cinema commerciale perché le sue opere o hanno scarsissima diffusione oppure, come nel caso del denaro pub-blico, finiscono con l’essere messe da parte.

GR: Ha scritto Moravia: “Si dovrebbe dire che Pasolini forse si sentì impacciato dalle parole e allora ricorse all’immagine che, per essere nuova per lui, dovette sembrargli, almeno per un certo tempo, più libera, più vergine, più espressiva” (“Corriere della Sera”, 6 dicembre 1975). Una tua opinione in proposito, e anche una tua posizione personale sul tema del rapporto parola-immagine.

DM: Pasolini certamente era una persona irrequieta e aveva il bisogno di provare sempre cose nuove. In questo senso credo che abbia ragione Moravia: Pasolini sentiva la limitatezza della parola (limitatezza come diffusione), soprattutto perché lui era poeta, scriveva soprattutto poesie e le poesie, si sa, hanno pochissima diffusione: il nostro è un mondo che in un certo senso rifiuta la poesia. Quindi Pasolini voleva parlare a un maggior numero di persone e non c’è dubbio che il cinema è il linguaggio più comune, che si diffonde meglio, che non ha bisogno di traduzione, che si può trasferire in altri paesi: c’è un senso di grande libertà a lavorare col cinema. Quanto al mio caso personale esiste una certa affinità di posizioni, anche se io mi muovo in un campo diverso dal suo, perché il cinema che io faccio è un cinema alternativo, un cinema d’intervento politico, ho fatto una cosa sull’aborto, faccio cose sui problemi delle donne… Per me il cinema e il giornalismo, due armi che io uso per intervenire pubblicamente, sono in effetti strumenti molto efficaci e immediati: i prodotti del cinema e del giornalismo possono circolare in tutti gli ambienti, hanno una capacità di intervento sulla realtà, di avvicinamento al problema che la letteratura è un po’ più difficile abbia.

GR: Qualche tema meno generale. Come vedi, all’interno di Salò e dei film precedenti, i rapporti tra Pasolini e la religione cattolica? Si può cogliere una certa intuizione del peccato, un certo interesse per il cristianesimo…

DM: Proprio per il suo carattere in fondo irrazionale Pasolini era abbastanza influenzato da fenomeni come il cattolicesimo, che razionalmente rifiutava ma che sentimentalmente subiva. E questo si ritrova, credo, in tutti i suoi film. Il suo è un tipico rapporto sentimentale con la religione: perché lui non era religioso.

GR: La religione diveniva un fatto irrazionale, emotivo…

DM: Sì, una religione irrazionale, mistica, emotiva e anche rituale. È molto importante il momento rituale. Non so se tu hai visto La ricotta: ne La ricotta, e anche nel Vangelo, c’è un rapporto sentimentale con Cristo. Addirittura di identificazione. Non solo, ma lui dà il Vangelo come se fosse vero, non lo discute, non lo storicizza: lo illustra, mettendoci dentro una carica di identificazione sentimentale e personale. E in questo torno a quello che dicevo prima: Pasolini, pur nella sua grande capacità intellettuale, aveva con la realtà un rapporto fuori da moduli razionali.

GR: Pasolini e il femminismo. Pasolini e l’immagine (filmica) della donna. A me personalmente sembra che la posizione di Pasolini nei confronti della donna fosse abbastanza contestabile. A questo proposito, più che ai film di Pasolini, penso sempre a una pellicola di cui Pasolini ha fatto la sceneggiatura, le Storie scellerate di Citti, in cui mi pare vi sia un’immagine della donna oggettualizzata al massimo… Perché Pasolini dava quest’immagine della donna se la sua concezione del mondo era totalmente, innegabilmente democratica?

DM: Il rapporto di Pasolini con le donne passa attraverso il rapporto di Pasolini con la madre, perché è l’unico rapporto in cui è andato a fondo. Pasolini aveva pochissimi rapporti con le donne, soprattutto non aveva mai avuto un rapporto sentimentale, che è sempre un modo di capire le persone: amare una persone vuol dire capirla. Ora, l’unica donna che lui ha amato è la madre. Quindi in un certo senso lui ha cercato di vedere il mondo attraverso gli occhi della madre e attraverso quello che per lui rappresentava questa madre. Infatti, quando aveva un certo sentimento di amicizia con una donna, spesso la vedeva come una madre: è successo nel caso della Laura Betti, è successo nel caso della Elsa Morante. E, anche se io ero più giovane di lui, c’era un po’ anche con me questo tipo di rapporto. Quindi, non amando le donne, non le conosceva, non le capiva, e anche era portato per una specie di vezzo sentimentale a vederle attraverso gli occhi dei suoi ragazzi. E spesso parlava delle donne, non tanto delle donne intelligenti che lui conosceva e che stimava, ma delle ragazze, come ne parlerebbe un ragazzo di borgata, cioè con grande familiarità ma anche con molto disprezzo, con disinteresse.

Il fatto di generalizzare, il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo ha poi portato, per esempio, a prendere una posizione così negativa nei riguardi dell’aborto. Sul “Corriere” ha scritto, e gliel’ho fatto notare, un lungo articolo contro l’aborto senza mai riflettere un momento che è la donna a subire l’aborto: lui ha visto tutto dal punto di vista di questo bambino ancora non nato, potenziale uomo, naturalmente maschio. Dunque ha sùbito colto il rapporto madre-figlio e l’aborto gli ha ripugnato profondamente perché ha visto una negazione di se stesso come figlio e una violenza da parte della madre. Senza pensare che invece la violenza prima è quella subita dalla donna. Questo non gli veniva neanche in mente, infatti quando a un certo punto gli ho detto: ma scusa, tu hai scritto un lungo articolo in cui sembra che la donna non esista, che l’aborto venga fatto non si sa da chi, che sia un atto meccanico, lui ha ribattuto: sì, forse è vero, non ci ho pensato, ho pensato soltanto alle ragioni del figlio immaginario, di questo figlio che deve ancora nascere. E questo è abbastanza indicativo: Pasolini vedeva un mondo con uomini reali e donne irreali. Così in certi momenti intuiva le donne come immagini della madre, in altri momenti le vedeva attraverso gli occhi dei ragazzi che amava, in altri momenti ancora le concepiva come figure poetiche e molto astratte. Non riusciva mai a vederle nella loro realtà, in maniera problematica.

GR: Vorrei sapere quale tra i film di Pasolini tu ami di più, per motivazioni estetiche o ideologiche o di altro genere.

DM: Uno dei film che amo di più è Accattone, poi Teorema, anche perché forse in Teorema ci sono due personaggi di donna che per la prima volta Pasolini prende abbastanza stranamente sul serio: il personaggio (interpretato da Laura Betti) della serva che finisce santa, martire, e il personaggio della moglie dell’industriale, che tenta di afferrare il mondo, di dare un senso al mondo attraverso un tipo di erotismo cieco ma non femminile come tradizione storica.

GR: Concluderei, se sei d’accordo, con qualche ricordo della tua collaborazione cinematografica e culturale con Pasolini.

DM: Il lavoro più impegnativo che ho fatto con lui è stata la sceneggiatura de Il fiore delle Mille e una notte. Pasolini aveva molta fretta perché la sceneggiatura doveva essere pronta entro un mese: è stato molto faticoso. E stranamente abbiamo lavorato in parallelo, cioè io ho fatto una metà, lui ha fatto l’altra metà, poi ci incontravamo la sera a vedere il lavoro reciproco, che — per quanto mi riguarda — lui ha modificato abbastanza durante la lavorazione del film. Infatti l’ho rimproverato di aver introdotto qualche modifica alle figure femminili, che io avevo cercato di rendere più dal punto di vista della donna e che lui non ha potuto fare a meno all’ultimo di cambiare. Poi, per esempio, gli ho molto rimproverato quella scena, non so se ti ricordi, della freccia, che io ho trovato bruttissima, anzi molto offensiva. Secondo me non è neanche un’idea sua ma dello scenografo perché è un’idea, così… quasi da barzelletta, no? Ecco, per il resto c’erano degli elementi meno oggettuali del solito nei riguardi delle donne.

GR: Fra gli ultimi film probabilmente è il meno antifemminista.

DM: Il meno antifemminista, sì. Forse si sente un po’ la mia mano, anche se in seguito appunto molte cose sono state cambiate. Comunque questo è il mio lavoro più impegnativo con Pasolini. Poi abbiamo fatto insieme alcun doppiaggi, alcuni — diciamo — adattamenti: Sweet movie, Trash… In realtà il lavoro di tipo pratico lo facevo io, perché lui non aveva tempo. Però mi aiutava a scegliere le voci, mi aiutava a scegliere i personaggi, e poi correggevamo insieme i dialoghi…

GR: Cioè avete fatto la traduzione e curato la parte tecnica…

DM: …e curato il doppiaggio, sì, che è riuscito piuttosto bene proprio perché abbiamo compiuto una scelta scrupolosa delle voci, che non erano quelle del doppiaggio tradizionale, ripugnanti per la loro meccanicità. Abbiamo cercato al contrario delle voci che dessero l’idea di un qualcosa di autentico, di genuino, di umano, ecco…

GR: Le voci originali…

DM: Nel caso di Trash si trattava d’una presa diretta, quindi le voci inglesi non erano affatto convenzionali. Mi riferisco alla convenzione del doppiaggio italiano che viene fatto in 56 giorni mentre gli attori non sanno che cosa vanno a doppiare: il massimo dell’alienazione. Il doppiaggio in Italia avviene così, no? Si chiama un attore, di solito perché partecipa a una certa cooperativa, e dunque spesso neanche adatto al personaggio, viene messo davanti a un testo che non conosce, vede soltanto quei brani che lo riguardano, doppia rapidissimamente — con uno stile ormai meccanico — la sua parte e poi se ne va, prende i soldi, e basta. Noi in realtà eravamo contrari al doppiaggio, ma nel mercato italiano è molto difficile sfuggire…

GR: Tu sei favorevole ai sottotitoli…

DM: Sarei per i sottotitoli, contro il doppiaggio, naturalmente, e anche Pasolini lo era, perché trovo che la lingua originale è molto più efficace. Però finora il mercato italiano ha rifiutato decisamente qualsiasi forma di film con sottotitoli. Adesso forse le cose stanno cambiando. Allora, comunque, noi abbiamo tentato di realizzare un doppiaggio che fosse più umano, un doppiaggio nel quale gli attori fossero consapevoli di ciò che facevano, conoscessero il film, venissero scelti perché veramente adatti a quella parte e non soltanto in base a opportunità di mestiere. Tutto questo con una calma, una attenzione che di solito non si usa.

GR: Siamo al termine dell’intervista. Non so, se vuoi aggiungere qualcosa…

DM: Io vorrei adesso semplicemente dire una cosa che credo sia bene dire: anche se qui parliamo di tutt’altro, delle sue opere, dei suoi film, non bisogna dimenticare che è importantissimo oggi prendere posizione per far capire che non bisogna ucciderlo un’altra volta. Secondo me Pasolini è stato ucciso dall’intolleranza della nostra società profondamente repressiva, falsamente tollerante. E adesso si rischia di ucciderlo un’altra volta, proprio per intolleranza, perché in un certo senso questo ragazzo che l’ha ucciso sta diventando la vittima e lui il colpevole. Questo non deve accadere, bisogna prendere posizione contro ciò che hanno scritto, non so, Filippini su “Repubblica”, e altri. Questa società ha eliminato Pasolini, per mano di quello che vuoi, di un ragazzo inconsapevole, incosciente, immaturo, però oggi sta cercando di eliminarlo di nuovo facendone un colpevole, mentre basta rifiettere un attimo su quello che è stato fatto di questo povero corpo di uomo mite (perché era assolutamente un uomo mite, non sadico) per capire che non può assolutamente passare dalla parte dei colpevoli: la sua unica “colpa” era quella di essere dichiaratamente omosessuale. (Marzo 1976)

Da: AA.VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, già nel n. 7 della rivista letteraria “Salvo imprevisti” (per gentile concessione di Gammalibri/Kaos Edizioni, Milano).

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