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Scrittura

Traduzioni di Raffaella Marzano

Immagine articolo Fucine Mute

L’Arcano di Pristina

1.

Dura come tutto ciò contro cui lottiamo

la loro soluzione: un millepiedi

gigantesco nella mente cibernetica.

E il mio povero amico kosovaro?

Polvere su una strada spazzata dal vento.

Dove le urla dei morenti,

dove la ragione è pari al potere in mani folli,

come ci è possibile, come possiamo, volere?

le nostre voci fatte a pezzi,

sparse l’una dentro l’altra

e così sorde alla pioggia di bombe

sganciate sui cristi di allah crocifissi.

Essi scuotono il mio corpo, accartocciano le mie forme.

Linee, linee, linee da casa alla

mancanza di casa. Missili che cadono

proprio attraverso i tetti del pensiero

facendolo scoppiare riducendolo a scheletro.

Il silenzio di un fiume messo al muro

e fucilato.

Pagnotte lanciate come briciole

verso mani che si agitano.

Eri così colta, eri un dominio.

E tali orrori sono stati rivolti a te.

Ora drogata, piramidizzata,

morente per lo squallore che non è povertà

– squallore e schifo,

in ginocchio –

inondata da invasori stranieri.

Quando una volta pensavi

al Kosovo, pensavi: incontaminato,

ora il mirino delle bombe è l’unica visione d’insieme

e il personale diventa

nazista nelle gonadi del dio

morto impazzito, ricreato

dalle nostre dita che eseguono gli ordini,

il pulsante delle bombe sia il suo nome.

Vi vedo uscire a fiotti da Pristina.

Che ironia: quei bunker paranoidi

lungo la linea del tuo confine,

Nilbania, diventeranno rifugio

per i senza tetto. O Kosovo,

sei dovunque e in nessun luogo ora,

cadi nella nostra morte fatta di fosse,

cadi fra noi smembrato,

prendendo posto nel martirio

eterno.

Coloro che hanno il potere delle bombe,

che possono obbligarci ad aggrapparci alla sopravvivenza

dopo aver demolito la nostra esistenza,

avendo da tempo innestato la seconda pelle

dove la ferrea volontà e l’indifferenza

vanno mano nella mano

seguono furtivamente il millennio,

il destino che hanno scelto per noi: diaspora

dura come tutto ciò contro cui lottiamo.

2.

Questa notte, perché questa notte

è più che buio, questa

notte tecnologica che ormai dura tutto il giorno?

Esplosioni di bombe e fiamme sulla

faccia del mondo,

dolorose file di rifugiati,

e scorte di anòdino sulla punta delle dita:

il peso di notte di un nuovo libro,

il tocco di piuma di un a braccio che cinge la vita

a primavera.

Ma l’essere morto negli occhi

che cresce nel cuore che batte verso la notte,

il torpore dall’essere nelle cose

dalle quali ci si era allontanati,

la fine che non arriva, ma già

si presenta come la presenza

dell’inevitabile notte, petalo dopo petalo

si sfoglia — il fondo stesso di ogni istante

cade: anni, vite.

Anche il tuo fondo fiorisce

nel mio palmo mentre percorriamo questa

strada planetaria nella guerra del Kosovo

tanto vicino ai nostri volti il vuoto ci accompagna

silenziosamente, orribilmente.

Interi popoli che non valgono più

di un fertilizzante, morendo sussurrano:

“Andate via. Non voglio più sentire l’inglese.”

Il loro sangue su di noi, le loro braccia che si tendono

in cerca di pane.

La mucca sta sul giovane morto

che non volle scappare proprio per lei.

Il cavallo in fiamme.

La pecora ormai cenere.

In questa notte resa prioritaria da una generazione

di istanze distratte, appagamento

della seconda coscienza:

il duro, crudele, intrattabile

immobile in movimento,

anche noi costretti ad indossare la pelle di insensibili

al dolore di un popolo gettato via

Hello

nelle fosse comuni

Hello

sotto inconcepibile indegnità

Hello

“Ma noi stiamo in piedi sui ponti con i segnali di bersaglio

dipinti sul petto questa notte

nella notte di questa apocalisse

tecnologica, ci avvolgiamo il collo

con sciarpe di sfida contro il nodo scorsoio

lanciato intorno al collo del mondo.

Il mio nome scivola nel nome di quello

che mi sta accanto — monumentale dignità di questo

definente atto di anonimità, coraggio

e indignazione.

Viscere alte sopra la testa si stanno aprendo

con i loro carichi di merda da terre di merda,

quel fascio di vanagloriosi che non sono altro,

come la merda che tengono accesa

nelle bocche,

la merda di morte nelle bombe

che quegli stronzi hanno rafforzato

nello scoppio di ciò che era

ancora calmo, ora non più

Hello

su ciò che era ancora possibile

Hello

sulla gioia piena di significato intorno a un litro

di vino fatto in casa

Hello

Ora beviamo sangue, strisciamo con i cani

ci rannicchiamo con le teste rotte, ricordiamo

le porte attraverso le quali entrava il sole

mai più la luce gentile

né l’albero vicino al quale la mucca e la pecora

sedevano nell’ombra estiva, e il ruscello –

O ruscello, chi ha potuto assassinarti così

senza pietà insanguinarti completamente

riempiendoti di corpi,

O cielo, come potremo guardarti di nuovo

eccetto che nella sfida di questa notte

che è stata lanciata in ognuno, poverissima.

O poeta, conficca la tua penna nel pane

e pugnalalo come il coltello di questa notte

ha dato inizio all’infinita pugnalata

del popolo del mondo,

pugnala e dì che c’è solo il giro

non compiuto del corso finale del destino,

che il nulla a cui tutto questo ammonterà

questa volta non potrà essere percepito

e apostrofato dopo, che questa notte

è la notte diversa,

questo nulla

è per sempre.

Hello

3.

E come

dovrebbe dirlo?

No, lei deve parlare d’altro,

della retata degli abitanti del villaggio,

i loro assassinii davanti ai suoi occhi,

gli alberi in fiamme,

il ragliare dei muli, le criniere dei cavalli

che bruciano fino ad arrivare all’inferno.

(Aiutala, Shanda,

con la tua lingua la vittima

forzata della più oscura

mente-serpente dell’uomo che ancora serpeggia

davanti al cazzo eretto della canna del fucile,

che fa il saluto nazista alle stupide

bombe intelligenti; aiutala a raccontare

del taglio sulla sua faccia,

dei brandelli strappati

del pudico tentativo di coprirsi,

dell’essere stata buttata

a terra tremante, braccia

tenute giù da braccia, gambe aperte e

tenute giù e, sotto gli occhi

della madre e del padre,

uno dopo l’altro, maschere nere

che la fendono…

Resta con lo sguardo urlante

ai bordi del campo,

rifugiata libera e distrutta,

che non può tornare

– il vero inferno dello stupro –

che non può tornare:

Iqbala Laverda, 24 anni,

che non si è mai arresa alla sua apertura

sebbene squarciata,

forzata con una leva,

infilzata con i loro bastoni,

un brivido da toccare,

sorella a uno sputo,

il muro dentro di lei ancora più spesso

contro il filo spinato del campo

e davanti a lei fin dove il suo sguardo

arriva verso est:

migliaia, milioni chini,

teste che vanno su e giù.

La tua lingua, Shanda, che all’improvviso

spunta dalla sua bocca,

lecca la zuppa calda

nella sua scodella d’alluminio,

voi due come un unico paradigma

delle schedate, allineate,

battute, fatte a pezzi,

depredate, sconvolte e saccheggiate

nell’essenza del rifiuto.

Quanto hai visto, ragazza kosovara,

quanto hai visto?

Abbastanza per farti fare un giro

nel vortice della morte.

Chi incontreremo lì, ragazza kosovara,

chi volerà con noi mentre giriamo?

Non chi, ma brandelli di corpi che amarono

e cani e cavalli in fiamme.

Quando finirà, ragazza kosovara,

quando si placherà la tempesta.

Mai. Tormenteremo gli anni

fino a che si arrenderanno, e non smetteremo.

Ma ragazza kosovara, loro avanzavano, noi difendevamo

perché stai seduta così amareggiata?

Rimango alla culla di terra del mio bambino morto

come un’inutile bambinaia.

Mi chiedi cosa ho visto lì

come se non lo sapessi.

Queste mani ai fianchi sono tutto ciò che sentirai.

Adesso vai, vai, vai.

4.

I becchini

sono al culmine della loro attività nelle città di confine.

Flaka, che è morta a un anno.

Una stele di legno, una stele di legno,

un pezzo di caramella sulle sue piccole ossa.

Isuf, 10 anni, morto da poco.

Iliaz Hoxa, dopo la tortura e il dramma,

non aveva più dell’adolescenza il trauma.

Una mano callosa, quella di suo padre,

si muove sul suo volto in senso orario,

la tomba improvvisata in direzione de La Mecca.

Thunkk, thunkk, thunkk fanno le vanghe

dei becchini giorno e notte.

La loro bandiera è internazionale ora.

Pali di legno alla testa e ai piedi.

E per i nomi, un ragazzino che mescola inchiostro

in una bottiglia di coca-cola decapitata.

O bambino già con un’intera vita

negli occhi, e la morte così vicina

da non farti conoscere altro.

Quanto velocemente sei passato dal latte al caffè amaro

a questo fiasco di vino

rubato a un soldato morto.

E una pistola nei calzoni vicino all’anca.

Nella campagna intorno quelli come te.

Infanzia che debolmente torna a

vestiti stesi ondeggianti nella brezza,

un sole immacolato in un limpido cielo azzurro

e un coro di canzoni popolari intrecciate

con la trama del giorno, è come un film muto.

Niente specchi. Niente per mostrare

le tue scarpette sporche, la maglietta

sul tuo corpo affamato, la spirale

che ti è cresciuta dentro, il sogghigno

agli angoli della bocca.

“Non sono neppure quello che state cercando

di ricordare. Ridatemi indietro il rastrello,

la vanga, il mulo. Vi sentiamo ascoltare

ma sentite solo ciò che è vecchio. Vecchie maniere,

vecchia lingua, vecchia gente che romanticizza

troppo la guerra, da una parte o dall’altra.

Non ho mai conosciuto altro che guerra.

Non l’ho scelto io.”

Ritorno a ieri anche se domani

nasce Lenin. Non si va avanti.

Sono spinto indietro dagli spari.

Bombe seminate intorno Columbine. Corpi

che cadono, cadono, giovani corpi morti

non così a caso.

Kosovari che fuggono, studenti messi in fuga

attraverso la lezione di storia dell’anniversario

della nascita di Hitler.

Colpiti alla nuca

nel villaggio di Pec, a Columbine

o dall’alto

Una volta conoscevo una ragazza chiamata Columbine

sensibile come carta fatta a mano

sulla quale qualsiasi poesia vorrebbe essere composta.

Indietreggiare di due passi senza averne fatto

neanche uno in avanti, da leone o da formica.

Una volta conoscevo una città chiamata Pristina.

Immagine articolo Fucine Mute

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