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Cinema

Le volpi, la satira, il sesso

Il cinema di Russ Meyer

vixen (‘vıksn) (s.): volpe (f.)
(la femmina); (fig.) megera (f.)

Vulpes pilum mutat, non mores.
(Svetonio, Vita di Vespasiano)

Di Russ Meyer sono state dette molte cose, quasi sempre inadeguate a rendere giustizia alle sue capacità registiche e alle sue prerogative autoriali. Spesso sono stati giudizi spocchiosi, e di benpensante disprezzo. Lo si è anche definito, in questo caso giustamente, the king of Nudies. Il titolo gli spetta a buon diritto perché Russ è a tutt’oggi considerato uno dei migliori autori della sex-exploitation e i suoi incassi, a fronte delle spese sostenute per i film più “costosi”, sono enormi, spesso nell’ordine di cento a uno, pur se considerati limitatamente agli introiti del solo anno di uscita.
Girls have to be very buxom
. Meyer occupa un preciso e meritatissimo posto nella storia del cinema, e lo difende in tutta tranquillità, probabilmente in virtù delle note apparizioni di provocanti pin-up nei suoi film: da Lorna Maitland, a Francesca Kitten Natividad, da Erica Gavin, a Uschi Digart, da Tura Satana ad Alaina Capri. Attricette; meglio: attrici-tette, ma non sempre, non solo, certamente non Erica Gavin, non Lorna Maitland, non la Natividad, che sono state “macchine attoriali” perfette per il loro genere, allo stesso modo di Eastwood, Vanessa Del Rio o Schwarzenegger, rispettivamente nel western, nel porno e nel film d’azione.

Certamente sono truppe ben mammellate, queste di Meyer. Seni Up!, sempre imponenti, dominanti, aptica esplicitazione della forza e del diritto femminile alla liberazione sessuale, che allora soprattutto, ma ancor’oggi è sempre il frutto della riconquista (a danno del maschio) d’una dominanza muliebre perduta nella notte dei tempi. Si celebra, nei film di Meyer, il trionfo del seno (la domanda più banale da porsi è se si tratti di carne, ghiandola mammaria, o di silicone, protesi, plastica). Si oppone, questa morbida parte anatomica femminile, oggetto dell’impulso alla suzione, all’ingiustizia maschilista, sociale e sessuale, in modi nuovi che sono essenzialmente sessantottini, di rivolta e conflitto; resiste alla forza di gravità, alle erezioni furibonde e incontenibili di mega-falli, che sono sempre di lattice, surdimensionati, sia che stiano a penzoloni o eretti tra le gambe degli attori, sia che siano gli olisbi di lattice delle vixens con cui colpiscono, si difendono, si penetrano nell’assenza del maschio di cui godere. Si oppone, il seno invitto, all’inutile, incredibile sotto-sviluppo psicologico degli uomini, laddove proprio le poverissime psicologie del maschio, in questi film, non reggono né possono reggere ai ritmi d’un furore uterino dominante che reclama sesso, sempre (si veda, ad esempio, il rapporto letteralmente persecutorio, quasi di schiavitù fisica nei film presi in esame: Vixen, Supervixens, Beneath the Valley of the Ultravixens).

Meyer fa, negli anni ’50-’60, quel cinema di corpi che Ghezzi definisce “elettronici” (visti da me, da voi, ormai esclusivamente in video, dei quali Meyer cura le edizioni e la produzione, detenendo tutti i diritti sui suoi film); corpi che sono pieni, sodi, ballonzolanti della tanta carne; sono quelli di cinetiche bambolone private — loro addirittura più del maschio — d’ogni psicologia, ma che pure rimangono segni impressionanti di intimi scandalosi, di mondi privati attorcinati, delle storie d’allegro, disinibito familiare, delle tipiche corna come dell’omicidio, dello stupro. Sono soprattutto l’icona degli impulsi libertari e universali delle donne nella nuova ottica multirazziale americana: le vixens di Meyer sono di tutte le nazionalità, di ogni colore di pelle e appartenenza religiosa o etnica. I loro corpi sono quelli d’immaginari ingenui, finalmente privati del senso di colpa — si pensi solo alla rappresentazione coraggiosissima dell’incesto di fratello e sorella in Vixen, e correva l’anno del Signore millenovecentosessantotto! -.

Quei corpi rappresentano i desideri socialmente pervasivi e condivisi da un’intera società posta ai margini provinciali di quella urbana e capitalista, comunque rimossi dal pensiero puritano. In tal senso, il poliziotto fascistoide di Supervixens è la massima espressione d’un potere che per Meyer è sempre impotente seppur desiderante, sempre ipocrita e violento perché, appunto, impedito nella maschera di cui si avvale nell’esercizio di se stesso. Non abbisognano di psicologie, le “volpi” di Meyer. Perché sono, senza bisogno d’un cogito. Ed è la loro foga, il loro movimento, il loro continuo accoppiarsi, nell’entusiastico ballo a stantuffo sul corpo del maschio, ripreso da sotto il letto, dal basso attraverso la rete del letto senza materasso, o attraverso le spalliere, che permette loro d’essere, d’essere messe in scena.

Un ricordo. Durante una manifestazione triestina organizzata in occasione del Centenario della nascita del cinema, laddove si videro nello stesso giorno e nello stesso teatro ben cento film, in una delle postazioni più nascoste e meno anonime scorreva Vixen (1968). Notai, in quell’occasione, che in nessuna delle altre stazioni del percorso — spesso “sacro”, fatto di capolavori, di classici, di kolossal — fosse possibile osservare un tale assembramento di spettatori, di uomini e donne tanto entusiasti. Passava una delle scene più forti di Vixen, forse la scena più provocante ed erotica mai girata da Russ Meyer, quella dell’approccio e del rapporto saffico tra Erica Gavin (Vixen, la protagonista insaziabile del film) e una sua amichetta bionda e assai burrosa, morbida, bisognosa d’aiuto, ubriaca perché il marito non la desidera e la tradisce… Alla fine della scena, un applauso fragoroso, fischi, olé, che mai Wilder, o Renoir, o Welles avrebbero potuto incassare, certamente non con lo stesso entusiasmo di tutti, indifferentemente dalla provenienza davvero eterogenea degli spettatori. Ci ho riflettuto a lungo, eppure il nocciolo di quella bellezza, di quell’arte, ancora sfugge. Il film, pur realizzato trent’anni prima, certo conservava e conserva l’attualità e la freschezza dell’opera datata, ma non passata. Il motivo di questo piacere, mi pare sia scontato ormai, è nel sapiente formalismo meyeriano. La forma/le forme dei film di Meyer sono modernissime.

Immagine articolo Fucine Mute

Passa il tempo ma i suoi film rimangono godibili, divertenti, agili. L’attenzione alla fotografia, alle luci, al montaggio, sono sempre degne di massima nota. L’opera di Meyer solletica, (ec)cita altro cinema — Don Siegel per Finders Keepers,…,Corman in Motorpsycho o Faster Pussycat! Kill! Kill! —, fa parodia, satira politica ferocissima — basta ricordare la tirata immortale del comunista/terrorista in Vixen, o l’ossessionato nazismo incarnato nel delirante e verboso pervertito signor Schwartz, in Up!, un sadomasochista con baffetti che ascolta Wagner e si fa sodomizzare, puttaniere interracial e arrogante padrone prima d’esser divorato da un piraña nella vasca da bagno. Sono tutte ulteriori connotazioni sessuali, queste, comuni alla stessa terribile visione della politica e del potere, che sono intesi da Meyer come mezzo per il raggiungimento dell’unico fine, quello dettato e simbolizzato da inquadrature oblique dei palazzi del Potere, dei monumenti che lo celebrano. Anche il preventivato ridimensionamento dell’attrattiva erotica che sappiamo effetto della datazione, ovvero il normale invecchiamento d’un B-movie anni ’70 — come accade di certo per un film italiano degli stessi anni, con le Ubalde, le Jennifer, le infermiere, liceali, zie, tutta roba ad uso e soddisfazione di una generazione di spettatori rassegnati quando addirittura non completamente obnubilati — non è mai un problema delle pellicole di Meyer, che rimangono piccoli gioielli di ritmo e ironia, grottesco, eros solare, a momenti di puro cinema.

I corpi meyeriani sono esplicitazione di costanti epocali, quasi topologiche, non solo sessuali. Percorrono correndo, urlando, nuotando, lottando, l’ambiente provinciale americano (che è tutto mentale) e ne sono parte, bidimensionalmente, come in un fumetto — pur nelle volumetrie espanse del loro corpo. Ma il mondo, nei film di Meyer, ha solo piatta superficie, sembra fare unicamente da sfondo, anonimamente, per poi essere, quasi inevitabilmente, l’unico protagonista delle storie o, almeno, primo deuteragonista dei loro personaggi. L’intorno degli esistenti è sempre il nulla, il bosco, la cittadina, talvolta il Canada (peggio ancora, perché nell’immaginario comune il Canada è, in assoluto, la terra di infiniti vuoti di civiltà, di terre libere, di rocce boschi e fiumi della wilderness), insomma sempre la provincia-provincia, alla Erskine Caldwell, tra la Route 66 e il deserto, tra le frequenze radio per camionisti di Radio Dio, e le stazioni Superoil 69, tra le insegne Texaco, lo sceriffo, il poliziotto o il ranger (“l’uomo dietro la divisa”, con la pistola, che soprassiede alla multa o all’arresto in cambio della prestazione sessuale), la Pepsi-Cola, i pick-up arancioni e gialli, le case prefabbricate, i motel squallidi e coloratissimi e i localacci dello shimmering improvvisato per boscaioli deficienti e bestiali (tra i quali, Russ stesso fa capolino, all’improvviso, mentre incita allo stupro). Insomma, il Mondo Zero, unica cifra geomorfologica possibile e adatta a descrivere una cosa come, faccio un esempio, Mondo Topless.

Questi corpi sono nudi, sono terrific torsos, peluria, nel deserto, nel fiume (che non manca mai, serpente, ma anche eterno femminino acqueo), sulle alture, magari sul picco della montagna particolarmente a punta, o tra gli alberi delle montagne, o nella spazzatura tra le carcasse d’auto, dove regna una grassa e nera regina di Saba (June Mack in Beneath the Valley…, che ci dice: “No job too big… no job too small…”). Sogno, tra le risate, di possesso, di rivalsa e quindi di violenza atta al sesso, di gioia e pienezza, insomma. Sono corpi, quelli della Natividad o della Gavin, di super-dee, anzi d’idee. SuperAnjelica, SuperHaji, SuperLorna, SuperSoul, SuperEula, ecc. sono tutte “super” perché escono dall’universo parallelo delle fantasie pruriginose e inconfessabili, magari quello innocente e adolescenziale delle donnine disegnate da Al Capp, al quale Meyer dichiara di ispirarsi (si pensi solo, ad esempio, alla citazione di Stupefayin’ Jones nel personaggio di The Catalyst-Haji, in Good Morning… and Goodbye! del 1967).

Così, nell’amore per i simboli che sono in questi luoghi e corpi che illustrano il nulla nordamericano, capita che vari gruppi musicali degli ultimi anni firmino i propri dischi e le proprie band con il titolo d’un film di Meyer (“Motorpsyco”) o di qualcuna delle sue attrici più celebri (“Tura Satana”). C’è dunque qualcos’altro, che riguarda specificatamente il linguaggio, la cifra stilistica, il medium stesso. Meyer non è mai solo cinematits. Per fare bei film non basta esibire sullo schermo delle grosse tette.
Nato in California, a San Leandro, nel 1922, Russ Meyer è stato, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’occhio cinematografico di Patton, col 166° Battaglione del Genio. Dal suo lavoro nasce un archivio fotografico militare tra i più importanti. Dopo la guerra, all’inizio degli anni ’50, nasce il genere nudie-cutie, dove “la facevano da padroni le nudità femminili ed il voyeurismo maschile, sostenuti da intrecci evanescenti che, sospesi tra surrealtà e sogno, erano in pratica la versione in celluloide dei desideri inespressi del maschio americano medio” (Diva Cine Sex Star. Our Beloved Sex Stars of the 1950s, 1960s & 1970s, a cura di R. Morrocchi e S. Piselli, Glittering Images, 1994 Firenze). Meyer, che per mestiere è stato, prima che regista, fotografo di modelle e spogliarelliste (anche per “Playboy”), gira nel 1957 il suo primo film dedicato allo show d’una delle più famose e scandalose vedette dello strip americano: Tempest Storm.

Prodotto da Peter A. DeCenzie, proprietario di teatri del burlesque (genere non del tutto lontano dal cinema di Meyer), il filmetto s’intitola French Peep Show. Due anni dopo, la velocissima consacrazione: The Immoral Mr. Teas si basa sulla storia bizzarra ma non originalissima d’un uomo che, dopo la visita dal dentista, scopre d’avere i poteri che gli consentono la visione ai raggi X dei corpi sotto le vesti delle donne (una sorta di Vedo nudo, insomma). Costato 24000 dollari, il film ne guadagna circa un milione. Con Eve and the Handyman, 65 minuti di film a colori sulla moglie Eve (poi morta in circostanze tragiche, in un incidente aereo alle Canarie), Erotica (1961), Wild Gals of the Naked West (1961), Europe in the Raw! (1963), Heavenly Bodies (1963), e il bellissimo Lorna (1964, ispirato, in qualche maniera, a Riso amaro e a Caldwell), Meyer sembra poter addirittura ambire ad una produzione più sostanziosa e importante, che arriva con Fanny Hill: Memoirs of a Woman of Pleasure (1964). Il film, tratto dal noto e scandaloso romanzo “Fanny Hill” di John Cleland, ha la produzione di Famous Players di Albert Zugsmith, che fu anche il regista che portò a termine il film dopo che Meyer abbandonò l’operazione. Seguono, tra il ’65 e il ’68, Mudhoney (tratto da “Streets Paved with Gold” di R. F. Locke, con una “nomenclatura faulkneriana” dei personaggi, scrive Franco La Polla), il mitico roughie su les enragés de la moto, titolo canadese del film noto come Motorpsycho!, e poi Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1966), con Tura Satana, Haji e Lori Williams che fanno parte delle assassine di uomini in gang motorizzata.

Immagine articolo Fucine MuteDopo Mondo Topless (1966, pseudodocumentario su go-go girls e spogliarelliste varie), Common-Law Cabin (1967, con Babette Bardot), Good Morning… and Goodbye! (1967, con Alaina Capri) e Finders Keepers, Lovers Weepers (1968), arriva Vixen, la “volpe” e, per estensione gergale del significato, la “ninfomane”. Il film, costato 70.000 dollari circa, ne guadagna quasi 8 milioni, ponendosi evidentemente tra i blockbuster di sempre per l’adult movie. Brevemente (perché il film è famoso, tanto da esser venduto anche in edicola):

Un pilota d’aereoplano che porta turisti di qua e di là dal confine trascura Vixen, la mogliettina vivace che si concede più d’una scappatella con gli amici e le amiche di lui. Lei finisce quasi violentata da un ragazzo di colore, che è in fuga sulle moto col fratello di lei. Lo irretisce con ammiccamenti pesanti, poi lo respinge. Prenderà, invece, il fratello, sotto la doccia. Il pilota sventa un tentato dirottamento su Cuba dell’attivista comunista grazie all’aiuto del disertore di colore, il quale prima crede all’agit-prop terrorista, per poi sentirsi insultare pesantemente per il colore della sua pelle. Vixen e il pilota, dopo la disavventura, tornano ad amarsi e desiderarsi. Ma lei, quando incontra la nuova coppia di amici, sgrana gli occhi per la voluttà.

In “Russ Meyer: la realtà al grado esclamativo”, contenuto nell’ultimo “L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana” (1999, Lindau, Torino) Franco La Polla afferma che il “sensazionalismo di Meyer — ormai possiamo dirlo con certezza — è fatto di ben altro che non il solito mito del seno voluminoso o del nudo integrale”. La Polla pone la propria attenzione sulla coerenza e sulla coordinazione narrativa dei suoi film. Meyer è iperrealista, dice il docente bolognese di letteratura angloamericana. Il suo cinema è frutto di viva coscienza autoriale, e l’accentuato spirito caricaturale di Meyer “non è nei segni”, prosegue, ma nella performance stessa, solo secondariamente nelle caratterizzazioni dei corpi che, sia ben inteso, non sono solamente quelli femminili, ma soprattutto quelli maschili (fatti di grinte insopportabili o volti stupidi e ben sbarbati, di muscoli possenti e barbe incolte). È con Supervixens (1975), film che viene dopo quelli realizzati da Meyer per la prima major della sua carriera, la 20th Century Fox — che poi sono due, Beneath the Valley of the Dolls, con la Gavin, Haji e una sconosciuta Pam Grier, in parodia a Valley of the Dolls di Mark Robson; e The Seven Minutes, tratto dal lavoro omonimo di Irving Wallace — che il nostro raggiunge la cristallina qualità di scrittura cinematografica che lo contraddistingue. In Supervixens Meyer racconta la morte di SuperAnjelica, e i fatti che ne derivano.

SuperAnjelica ha voglia, il suo uomo, Clint Ramsey, non c’è, perché lavora da Martin Bormann. Pretende che lasci il posto per avere soddisfazione. SuperAnjelica è gelosissima, così quando sente che Clint sta servendo SuperLorna, s’infuria. Litigano ferocemente, e si picchiano. Interviene un poliziotto, che fa delle avances a SuperAnjelica. Lei le accoglie di buon grado. Dopo l’approccio sessuale fallito con il poliziotto, perché questi è un pervertito impotente, SuperAnjelica è costretta a difendersi da lui, e si chiude in bagno, per sfuggire all’ira sadica del criminale in divisa. Il cop la picchia a sangue nella vasca e poi getta la radio nell’acqua, lasciandola morta folgorata, tra il sangue e le scariche elettriche. Clint, il ragazzo di SuperAnjelica, viene accusato dell’omicidio. Nessuno lo difende, tanto meno le donnine che gli fanno il filo e che lui snobba, perché fedelissimo. È costretto, quindi, alla fuga precipitosa, anche con l’autostop. Mentre chiede un passaggio, si ferma una coppia survoltata che cerca di coinvolgerlo in un giochino a tre. Clint si rifiuta, viene pestato, derubato e abbandonato in mezzo alla strada. Viene soccorso da un vecchio contadino che lo aiuta e lo porta alla propria fattoria. Qui Clint se la deve vedere con la giovane moglie austriaca del vecchio. Addetta alla mungitura delle vacche, la fanciulla, tra prati e granai, sul tetto e l’altalena, tra fienili e le galline, rivela il suo enorme seno e la voglia sconfinata, e nonostante le resistenze di Clint, cerca e trova la scopata. Clint poi scappa, evitando la vendetta dell’arzillo fattore che per poco non lo centra, dopo il poderoso lancio da record d’un forcone, a mo’ di giavellotto. Incontra SuperEula, coloured sordomuta e ballerina che apprezza le corse in macchina con le tette all’aria, tra le dune. Il padre di lei — che è un bianco — è gelosissimo. Anche qui Clint non trova pace, ed è costretto alla fuga. Intanto lo spirito di SuperAnjelica si danna iracondo e desideroso, lassù, mentre si agita nudo sul picco della montagna. Clint incontra Vixen, alla stazione di benzina “Supervixen’s cars”. Trova un lavoro e il nuovo amore. Ma il pericolo incombe su di loro. Il poliziotto che ha commesso l’omicidio incontra Clint, e lo riconosce. Dopo aver ottenuto l’amicizia dei due giovani, il poliziotto attira Clint nella trappola. Rapisce Vixen, la lega su un’altura, e getta candelotti di dinamite al giovane che sprezzante del pericolo si lancia a salvarla. Dopo innumerevoli peripezie, la vicenda si conclude. Il poliziotto si ritrova un candelotto di dinamite polacca difettosa tra le gambe: salta così in aria, regalando a Clint, Vixen e allo spirito di SuperAnjelica la giusta vendetta e la pace nell’amore.

La trama, come si nota facilmente, si articola nel susseguirsi di episodi sulle disavventure a sfondo sessuale di Clint, specie di Justine sadiana al maschile, costretto com’è a tradire la propria “virtù” per soddisfare il pazzo bisogno delle supervixens che incontra sul proprio cammino di riabilitazione e di ricerca della giustizia d’amore (che pur c’è, in un mondo di moto sessual-peristaltico come quello meyeriano). Il film, è chiaro, poggia tutto sul divertito e scanzonato ammiccare al dialettico rapporto tra simboli sessuali in conflitto perenne. Le improvvise messe a fuoco, i primi piani su grosse candele che vengono utilizzate come mazze, per colpire (nella scena drammatica e grottesca dell’impotenza del poliziotto), i coltelli con cui si sfondano le porte chiuse (evidente metafora dello stupro), il serpente che morde un uomo costringe la sua donna a succhiarne il veleno (come in una celebre scena di Motorpsycho!), i forconi che volano, i cactus (nell’episodio di SuperEula, perché è cosa assai spinosa, se un padre incazzato ti sorprende con la figlia concupita); e poi, ancora, i sogni, le visioni, quelle d’altalene, delle pompe di benzina, dei bunker a forma di mammella; quelle oniriche di SuperAnjelica che suona il piano nuda sulle rotaie della ferrovia, dove le traversine sono inquadrate a tagliare trasversalmente il quadro, in corrispondenza della direzione espressa da una bottiglia in un cestello sopra il piano, per determinare nell’inquadratura successiva, con un perfetto montaggio formale, in raccordo tonale e di direzione, la penna sul capo di lei, piegata a segnare la stessa linea, lo stesso vettore-membro sullo schermo: tutto questo, tutti questi simboli, queste metafore, queste metonimie sono frutto e sostanza del sapere tecnico di Meyer che attraverso di queste e in queste si sustanzia.

Ancora (e qui la scena è a dir poco entusiasmante, per la sua freschezza ed efficacia fumettistica) fanno ben sghignazzare quei candelotti di dinamite che prima stanno tra le gambe della vittima, nell’episodio conclusivo di lotta di Supervixens, per poi ritrovarsi proprio in mano all’assassino col faccione inebetito per l’esser di fronte ad una miccia dispettosa che si credeva spenta e che, invece, brucia sino alla detonazione. Per Meyer, questi sono candelotti esplosivi che stanno ad indicare latenze represse, nonostante le arie e i modi da duro del poliziotto e l’armamentario rilucente di pelle, manganello, Rayban e cromature, tipiche del macho ma non troppo. Ma al di là di queste cose, è proprio la forza del montaggio meyeriano, delle accelerazioni improvvise, del ritmo imposto alla rappresentazione dominante del sesso a tenerci incollati al film e alle follie di Meyer, e a precorrere tutto un futuro linguaggio che sarà del videoclip.

Immagine articolo Fucine MuteTutti i film di Russ Meyer sono costruiti con la voce fuoricampo d’un narratore o d’una narratrice — per tutti, la Natividad di Up! che dice d’esser coro greco, a saldare la trama nella rima, come nuda divinità del bosco — che serve a commentare quasi in sermone, declamando, a riassumere o ad anticipare le vicende, a dar loro continuità, a costruire la cornice altrimenti difficile, noiosa. Il limite di Meyer è proprio qui. I suoi film non riescono mai ad essere struttura omogenea, compatta, ma sono essenzialmente il collage di gag che sappiamo, di episodi, di situazioni piccanti segnate da didascalie che ci danno la scansione puramente cronologica dei fatti. Di Meyer, inoltre, è tutto da studiare il registro metacinematografico, e l’apparato di citazione. Nei suoi film s’intrecciano coloriture noir, gore (in Up! le scene di morte a colpi d’ascia, o con la motosega, sembrano quelle di The Texas Chainsaw Massacre di Hooper, realizzato due anni prima); si riprendono i fumetti, abbiamo detto, magari anche quello trasgressivo di John Willie, “Gwendoline”, opera di sapore lesbista e transgender, poi trasportata pure in cinema nel 1984; si dà ironico rilievo alla texture della colonna sonora, con gli inserti sonori e allusivi, i rumori e le musichette extradiegetiche, che so, di trombe di cavalleggeri western alla carica prima dell’assalto alla femmina.

Beneath The Valley of the Ultravixens (1979) è l’ultimo film realizzato da Russ Meyer. Presenta un cast di tutto rispetto, con la Natividad (Lavonia), Anne Marie (Eufaula Roop), Ken Kerr (Lamar Shedd), June Mack (Junk Yard Sal), Lola Langusta / la Natividad (la spogliarellista), Henry Rouland (Martin Borman), Ushi Digart (SuperSoul) e Mary Gavin (The Very Big Blonde). La produzione, la fotografia, il montaggio, la regia sono di Russ.

Una bionda gioca al tennis elettronico, vestita di rete bianca. Il tizio che è con lei, Borman, suona il piano. Lui rimane nudo con le scarpe da ginnastica, si distende in una bara, si fa coprire con un lenzuolo. Occhieggia da sotto. Lei si dimena sopra di lui. I due fanno l’amore.

Immagine articolo Fucine MuteInizia così, Beneath the Valley…, con una scena davvero grottesca, con il sesso consumato nella bara; parte poi l’incredibile sequenza a costruire il primo spazio mentale del film: vediamo la Mercedes, la pianola, la televisione col tennis elettronico, gli occhi bistrati d’una bionda, gli occhi voraci di lui, l’erezione nella bara, le catene, i crocefissi, poi gli occhi strabuzzati, i seni immani, le scarpe, le rotelle del tavolo che vanno su e giù. E la cittadina. Qui Meyer dispiega la carta geografica. Ci mostra Radio Dio, dove lavora Eufaula Roop, “100.000 watts of faith healing power…”, voce e corpo strabiliante di Ann Marie, on the air per il bene dell’anima e la salvezza della città. È, ovviamente, una piccola città degli Stati Uniti quella che sta beneath the valley. Certo qui è dove tutti cooperano per il bene reciproco — ed infatti si vedono tutti i personaggi della storia che hanno il loro bel da fare (o farsi) — “dando così un nuovo significato alla parola democrazia”. Vediamo Lola Langusta, abile disegnatrice di fronte all’oggetto da ritrarre (!), il commesso viaggiatore Semper Fidelis, Martin Borman, l’enorme Junk Yard Sal e i suoi due collaboratori; e poi Lamar Shedd (Ken Kerr), Flovilla Thatch, la fiammeggiante infermiera d’aiuto al medico. Poi le immagini industriali, i cruscotti delle automobili, le radio, tutta la plastica possibile, il metallo, le insegne, a descrivere i materiali di questo mondo, la sua vera sostanza, la sua anima vuota. In un luogo simile, cosa volete si faccia? Si scopa, dunque, e quindi vediamo capezzoli, pube, riccioli, culo, colori vivissimi, giallo, verde, blu. Vediamo una donna che si accarezza. Una sigaretta, un vibratore, la crema. Poi lingua, gemiti.

Di là, lui continua a far di conto, a lavorare. Lavonia vuole far l’amore, e cerca di attirare l’attenzione. Il rumore del vibratore lo disturba, e lui lo distrugge. Ma Lavonia non si arrende, perché sa come farlo impazzire. Lamar ha, tuttavia, un’unica passione, quella per il rapporto anale: inferocito, si toglie lo sfizio. Lavonia, tra il latte che si è versata sul seno e i fiori della carta da parati, decide di mollarlo. Sferra un pugno all’amante e scappa sul furgoncino. La topologia meyeriana è come al solito quella della Pop Art, della lacca sulle unghie, della plastica, del deserto e delle insegne della General Electric. Eufaula cita la Bibbia, con l’accompagnamento dell’organo: “Anch’io ero cieco, ma adesso vedo”. E si vede, eccome, se si vede! Un montaggio incredibile c’introduce ai fuochi d’artificio del commesso viaggiatore, con la sua valigietta e il bric-à-brac che vende.

Semper Fidelis va a trovare Lavonia, che si pettina la peluria. La donna, bellissima, s’infila le ciabatte di peluche, e ascolta Fidelis che vuole venderle il valorizzatore toracico, proprio a lei, che certo non ne ha bisogno. I suoi libri sono del tenore di Spanish Made Simple, sulla ginnastica che favorisce il sesso. Quando Lavonia muove le tette si sentono le campane delle mucche: siamo all’antipasto della solita galoppata con orgasmo ululato. Intanto Junk Yard Sal attende Lamar. Aspetta che abbia finito di lavorare, perché appena avrà finito, dovrà concedersi — altrimenti finisce licenziato. “Quel che è debole si rinforzi”. L’esperienza è tale che dalle bocche dei gaudenti escono liquidi verdi e bianchi.

Anche qui a saldare gli episodi c’è il narratore. Lola Langusta (sempre la Natividad) è la ballerina, la “exotica numero uno”. Anche qui, la ballerina cerca di eccitare Lamar ballando il proprio numero, ma lui è stanco e demoralizzato.

Allora gli infila una pillola nella birra, che quando trabocca e finisce per terra fa il buco. Lola ha legato Lamar. La rete del letto è senza materasso (il narratore fa un buco e spia i due). Le evoluzioni di Lavonia, giocando un calzino infilato a mo’ di condom sull’attrezzo di Lamar, hanno dell’incredibile. Lo masturba coi piedi, salta, urla, ride, gode, usa il calzino pieno come fosse una fionda. Lamar, mezzo nudo, scappa dal tetto.

Anche qui, le inquadrature dall’alto ci mostrano il teatro dello stupro invertito, nel patchwork di colori, di tela, di collage di azzurri, rosa, verdi e gialli. La macchina da presa di Meyer sembra indiavolata.

Quando Lamar rientra a casa, trova Lavonia con l’amante di turno. La colluttazione finisce con una lampadina (!) sotto i testicoli dell’intruso. Lavonia e Lamar vanno dal medico, il quale capisce che il problema è Lavonia: “Lei soffre d’entusiasmo”. Ma le cose si mettono, anche qui, in maniera strana. L’entusiasmo contagia l’infermiera e il medico: la donna gioca con Lavonia, mentre il dottore vuole farsi Lamar.

La scena è divertentissima. Shedd si nasconde in un armadio. Così mentre le due donne godono nella stanza accanto, il dottore cerca di fare breccia con un piede di porco, poi con un martellone, a fucilate, con una sega elettrica, frignando, supplicando, minacciando, in un’escalation tutta fumettistica di violenza. Di là, l’amoresenza difficoltà, e di somma soddisfazione, tanto che Lavonia ha la bava rosa. Va avanti così fino alla fine, Beneath the Valley…, tra scene indimenticabili — quella di Radio Dio, con il terrificante accoppiamento di Eufaula che gode e urla al microfono, mentre è in onda, “La troveremo, l’autoconsapevolezza!”, o “Scala la montagna ancora una volta!”. Oppure la scena conclusiva dell’orgia dei colleghi di Lamar, nell’immondizia, modulata con quella del nazi Borman (la colonna sonora è Wagner, ovviamente) che scopa sul cucuzzolo della montagna, dentro la solita bara, e senza i denti, che ha perso in guerra. Meyer si vede all’improvviso, col suo viso sorridente ed abbronzato; ed in effetti il suo cinema pirotecnico è tutto qui, anzi, nella frase che Eufaula dice appassionata: “Oh Marty, è meglio senza i denti!”.

La dentiera dell’uomo, tra coperchio e feretro, tiene aperto lo spiraglio, per respirare.


Grazie dell’autografo, Russ!

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