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Cinema

Le forme dello spazio inosservato (II)

CAPITOLO 4: Reperimento dei materiali e dei film. I film oggetto di analisi: criteri della scelta

Dopo questa necessaria introduzione storica e teorica per capire le origini del cinema underground italiano, si passerà ad un approccio più diretto con i film. Il criterio seguito è quello di procedere all’analisi dei film, e da questa arrivare a tracciare dei profili artistici degli autori ed infine sviluppare degli argomenti e delle riflessioni più ampie.

Questa esigenza è nata dall’osservare come la critica si sia occupata del cinema underground italiano come di un fenomeno prevalentemente sociale e politico, trascurando l’aspetto artistico. In questo modo è anche sfumato l’interesse generale, man mano che venivano a mancare le motivazioni sociali di quel determinato periodo storico. Di questa tendenza si sono lamentati molti autori, primo fra tutti Massimo Bacigalupo, come si è già visto nell’articolo su “Filmcritica” del 1971, richiama l’attenzione proprio sui film rimproverando ai critici il più totale disinteresse.

Questo disinteresse viene scontato oggi, ad esempio, da chiunque voglia approfondire l’argomento magari dopo aver visto per caso uno qualsiasi di questi film. La maggior parte dei film non sono stati depositati in alcun archivio (qualche pellicola è al Museo del Cinema di Torino, e alcune copie in VHS sono visionabili presso la Videoteca del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza”, diretta da Bruno Di Marino), bisogna rintracciare direttamente gli stessi autori sperando che almeno loro siano in possesso delle pellicole originali.

Il problema della conservazione di queste pellicole è infatti fra quelli più pressanti e che destano maggiore preoccupazione.

La scelta dei film da analizzare è stata dettata principalmente dalla possibilità, proprio materiale, di visione e di studio di questi film, poi tra quelli visti, si sono scelti quelli che, da un punto di vista prettamente cinematografico, potessero offrire maggiori possibilità di riflessione.

Si è cercato di far scaturire riflessioni e collegamenti dal film stesso, senza considerare, nella fase iniziale, altro materiale di approfondimento come saggi e critiche dell’epoca. è anche vero che in alcuni casi, come per il film di Guido Lombardi e Anna Lajolo Si prenda una ragazza, una qualunque lì a caso non c’era proprio nessun tipo di materiale scritto se non una scheda frettolosa. Proprio per questo motivo è stato necessario integrare l’analisi del film con una intervista agli autori, che vertesse principalmente sul film. La scarsità di informazioni su Pierfrancesco Bargellini ha motivato, invece, l’intervista ad Adriano Aprà.

L’esigenza di rintracciare materiale che potesse documentare storicamente la presenza dei film ha reso necessario una indagine, più estesa possibile, sulle rassegne dedicate al cinema indipendente italiano. Queste rassegne rappresentano l’unica testimonianza che determinati film, ora andati perduti, sono stati effettivamente in circolazione e in quale periodo. è stata una ricerca preziosa, ad esempio, per ricostruire una cronistoria, anche se approssimativa, dell’attività di Bargellini.

Parte II

Analisi filmologica

CAPITOLO 1: Quasi una tangente di Massimo Bacigalupo

1.1. — Analisi del film

A differenza della maggior parte dei film sperimentali, questo secondo film di Massimo Bacigalupo ha una storia che, anche se non articolata in azioni e intrecci classici, comunque giustifica una struttura narrativa. Si tratta del racconto autobiografico di una giornata dell’autore-protagonista vista proprio attraverso i suoi occhi: la sua stanza, la classe, i compagni, l’incontro con l’amico Harold e l’incontro d’amore con Mara che porterà al tragico epilogo del suicidio di coppia. Un suicidio che non ha una palese motivazione, ma è forse intuibile dal malessere esistenziale manifestato attraverso i brevi dialoghi con Harold e con Mara.

Il film è girato in soggettiva, Bacigalupo, sempre dietro alla macchina da presa, filma la sua ombra, le sue mani e tutto quello su cui posa lo sguardo. La struttura narrativa classica che contiene al suo interno un intreccio o una storia che si costruisce attraverso le azioni dei protagonisti, qui viene sostituita da un indefinito vagare sia fisico, rispetto agli spostamenti (la stanza, la scuola, la strada ecc.), che ricorda la poetica del “pedinamento” di Cesare Zavattini, sia, e soprattutto, dello sguardo. Sembra che il protagonista si guardi intorno, cercando di catturare con lo sguardo un senso alla propria esistenza nel mondo che lo circonda e nelle persone che gli sono vicine, ma l’inutilità di questa ricerca lo spinge al gesto definitivo e risolutorio.

Mi sembra appropriato riportare in questa sede la scheda del film con il commento dell’autore (come fu riportata nel primo catalogo, e successivamente nel secondo, della Cooperativa Cinema Indipendente) per testimoniare come un film sperimentale venisse presentato in un modo che, anche se non può essere giudicato proprio “sperimentale”, ci appare comunque alquanto criptico:

“”Tangente” in quanto s’intende il punto di tangenza equivalente a quello di fuga.

Fuga o “Erhebung” particolare, quella di Paul, discutibile protagonista della vicenda.

Protagonista interno, la cinepresa essendo posta idealmente (?) dietro i suoi occhi.

Seguiamo il viaggio di questo antieroe del “pornotopos” heffnariano a palazzo Venezia, dalle discussioni con gli amici (- la logica non è che una semplificazione gratuita, qualche volta -) al fornello a gas. Vi è anche una ragazza, che rimane “scottata”, incapace com’è di uscire di scena al momento opportuno.

Ma il film parla, spero, da sé. Aggiungerò solo che nel “quasi” del titolo si abbozza un giudizio sommario.

Il racconto occupa più o meno lo spazio di un giorno, quello che doveva vedere Paul “novissimo” e libero negli spazi siderali, e finisce solo col segnare la data del suo suicidio.

Domani lo leggeremo sul giornale.”

Per affrontare l’analisi di un film di Massimo Bacigalupo, e per riuscire a mantenere uno sguardo più distaccato ed attuale possibile, bisogna compiere uno sforzo per accantonare momentaneamente la sua attività di critico, spesso e volentieri rivolta anche a se stesso, di teorico e storico del cinema sperimentale sia in Italia che all’estero. Può risultare, invece, utile leggere le cose scritte da lui più recentemente, nelle quali la grinta battagliera della fine degli anni ’60 e primi anni 70, ha lasciato il posto ad una riflessione distaccata e divertita, dove predomina lo spirito di “quando eravamo giovani” e le riflessioni teoriche e linguistiche sono sostituite da raccontini aneddotici come quello sui quadri di Ezra Pound che appaiono nel film, oppure su quel lungo piano sequenza che ha potuto realizzare solo grazie ad una cinepresa elettrica prestatagli da un amico rapallese.

“I film underground non hanno quasi mai un intreccio, ma la loro storia sì, a giudicare dagli episodi che mi sono tornati in mente.” Con questa frase Bacigalupo giustifica il senso di alcuni interventi e riflessioni a posteriori, che ha avuto l’occasione di effettuare recentemente, dove l’atteggiamento di un autore, che ha sempre cercato di mantenere una posizione di distacco anche durante la sua attività di cineasta sperimentale, si arricchisce anche di aneddoti divertenti che donano al racconto dell’esperienza un’atmosfera più disincantata. L’esperienza della Cooperativa nei suoi ricordi è oramai priva dello spirito originale di contrapposizione al sistema, di rivoluzione, anzi traspare un certo rimpianto per non aver seguito quelle strade che all’epoca sembravano più rigide e istituzionalizzate, quindi da rifuggire, ma che forse si sarebbero rivelate più concrete e meno dispersive.

“Questo dunque l’arco decennale del mio cinema underground, ligure, romano e newyorkese. Cinema sotterraneo, che poi sfumava nel cinema fatto in casa. Per questo non stupisce che esso abbia avuto scarsa eco presso la critica e nelle sale cinematografiche. Anche i pochissimi cultori del genere lo hanno seguito in modo discontinuo, sicché è difficile sapere cosa questa esperienza abbia significato e cosa significhi.”

E per quanto riguarda il suo incontro con gli altri autori sperimentali, avvenuto subito dopo la realizzazione di questo film che portò, tra le altre cose, alla fondazione della Cooperativa Cinema Indipendente: “La cooperativa inevitabilmente incoraggiò gli aspetti più trasgressivi del mio interesse per il cinema, con influsso non sempre positivo.”

Tornando al film Quasi una tangente appare chiaramente che qui la trama è solo un pretesto, che permette però all’autore di sperimentare un linguaggio cinematografico nuovo, quello stesso che avevano usato nei loro film gli autori del New American Cinema Group, Jean Luc Godard, Alain Resnais, Marco Bellocchio, e che Bacigalupo aveva avuto modo di vedere nelle sale cinematografiche o in qualche rassegna.

Rispetto proprio al linguaggio cinematografico usato, bisogna premettere, come prima considerazione, che siamo di fronte ad una tendenza che predilige, piuttosto che la costruzione interna dell’inquadratura e delle immagini “chiuse”, sia l’uso del montaggio di brevi inquadrature, alcune quasi ridotte ad immagini subliminali, che danno spazio al gusto dell’autore per le citazioni, sia il ricorso a lunghi piani sequenza.

Il montaggio di brevi inquadrature viene utilizzato nel film maggiormente per inserire immagini di natura diversa, che servono a descrivere gli ambienti, la stanza, la classe, la strada, ma che anticipano anche l’uso diverso che ne farà Bacigalupo nei film successivi, dove assumono l’aspetto di vere e proprie citazioni. Questo procedimento è adottato soprattutto nella prima parte del film, quella dedicata a descrivere la giornata di Paul e gli ambienti che quotidianamente frequenta.

Nella prima sequenza (si fa riferimento allo schema di analisi del film, nella parte terza), quella introduttiva dedicata ad ambientare la storia, viene ripresa la vista esterna dalla finestra della sua stanza, la facciata del palazzo di fronte, i tralicci di un’impalcatura, la strada sottostante, e vi vengono inserite immagini di quadri, che poi sono protagonisti di un aneddoto che lo stesso Bacigalupo racconterà nel 1994, oppure disegni di forme geometriche.

La sequenza otto è invece dedicata alla descrizione della sua stanza: vengono montate inquadrature con dettagli di riviste, libri, quadri, la copertina del disco “A Love Supreme” di John Coltrane.

La classe viene descritta, sempre ricorrendo al montaggio di immagini diverse, nella sequenza undici, dove le immagini non sono più fisse ma realizzate con un movimento rotatorio della cinepresa intorno al proprio asse: in questo modo vengono riprese la lavagna sulla quale sono scritte formule di trigonometria (appunto sulla tangente), il calendario che riporta la data del 18 ottobre, il crocifisso appeso al muro.

Il gusto per le “citazioni”, in questo film appena accennato, verrà da Bacigalupo maggiormente sviluppato in opere successive. Il film 60 metri per il 31 marzo (1968) è composto da sei episodi che raccontano situazioni e fatti reali, ognuno dei quali legato ad una citazione letteraria e ad una citazione pittorica inserita in sovrimpressione: Pound e Kandinsky nel primo, Brakhage e W.C. Williams nel secondo, Cummings e Botticelli nel terzo, Donne, Bosch e Caravaggio nel quarto, Durrelle e Ernst nel quinto, Katha-Upanishad e Piero della Francesca nel sesto.

Nel secondo film appartenente al Ciclo dell’Eringio, Né Bosco, viene ripreso un brano del Cantico dei Cantici inserito come testo scritto in una inquadratura.

In Migrazione, il terzo film del Ciclo dell’Eringio, i riferimenti sono talmente tanti che Bacigalupo si vede costretto a elencarli sul numero monografico di BN nel capitolo dedicato ad una sua intervista immaginaria (perché scritta da se medesimo), e si tratta di riferimenti tratti da opere di Andreas Wellard, di Alfonso El Sabio, J. S. Bach, Eodoto, un Anonimo del XIV sec., un Anonimo tibetano, K. Stockhausen, Franz Kafka, F. Villon, John Cage, dalla Taittiri Unishad.

Tornando al film Quasi una tangente, la seconda parte è invece riservata allo sviluppo della tragica conclusione, che, già intuita attraverso il dialogo con l’amico Harold durante la prima parte (Paul saluta l’amico dicendo “D’accordo Harold, ci vediamo, salvo imprevisti.”), matura durante l’incontro con Mara (Paul: “Ti sembrerà strano, ma sono stufo di scherzare, stufo di girare nel cerchio”. Mara: “Werther è resuscitato oppure potresti evitare di metterla tanto teatralmente. Usciresti senza nemmeno accorgertene”) e che neanche un pomeriggio d’amore potrà risollevare.

Qui il montaggio veloce viene utilizzato per accrescere la tensione drammatica attraverso un ritmo serrato, come accade nella sequenza ventidue, dove le inquadrature sul volto di Mara, da un’ipotetica atmosfera contemplativa, raggiungono un livello più drammatico, oppure nella sequenza venticinque dove la scena d’amore è descritta da un montaggio velocissimo di inquadrature, sempre di Mara stesa sul letto, che seguono il ritmo dell’assolo di batteria della colonna sonora.

Nel film vengono usate spesso anche lunghe carrellate, come quella iniziale della sequenza ventidue dove Paul segue Mara in un percorso a zig-zag fra gli alberi di un viale, oppure zoomate e carrellate più brevi che traducono l’interesse ad appropriarsi della dimensione spaziale dell’inquadratura e che, specialmente in questo caso, essendo il film tutto in soggettiva, traducono il movimento del protagonista nel suo spazio, proponendo quindi un’esperienza spaziale giustificata dalle esigenze della narrazione.

Mentre l’interesse per il montaggio deriva direttamente dall’intuizione delle possibilità ritmiche del film e dalla lezione che con i suoi film ha impartito Markopoulos, l’indagine sulle possibilità di creare ed elaborare la dimensione spaziale proviene direttamente dalle suggestioni dei film di Maya Deren.

Esempi emblematici di questa influenza sono due: il primo è il passaggio dalla sequenza nove a quella dieci, dove l’immagine della mano di Paul che si apre e si chiude, inquadrata dall’alto sopra il piano della scrivania della sua stanza, è montata in successione con la stessa mano che compie il medesimo movimento però sul banco di scuola, nell’aula dove viene ambientata la scena. Il secondo non è il montaggio diretto tra due scene ma riguarda la canzone Eve of Distruction, che fa da colonna sonora alle sequenze tredici e quattordici: il brano musicale inizia quando un ragazzo al bar lo seleziona dal juke-box (sequenza 13) ma termina alla fine della sequenza successiva, e nella prima parte della sequenza 15 si vede il protagonista in macchina con l’amico Harold, il quale, finita la canzone, estrae il disco dal mangiadischi installato nell’auto. La canzone segna il passaggio da due dimensioni spaziali differenti, rispetto ad una dimensione temporale unica racchiusa nella durata stessa del brano musicale.

Lo stesso effetto usato in queste due occasioni, era già stato sperimentato da Maya Deren nel film Coreography for Camera, dove ai movimenti continui di danza del ballerino corrisponde un cambiamento di paesaggio sullo sfondo: il ballerino con il suo movimento compie un mutamento spaziale non giustificato da una logica alterazione temporale.

Inoltre nelle sue teorizzazioni Maya Deren, parlando della specificità del linguaggio cinematografico sostiene:

“che lo sviluppo di una specifica forma filmica non consista nell’eliminazione di nessuno degli elementi cui il film ha accesso, ma nel metterli in relazione con le proprie specifiche potenzialità: gli interventi resi possibili dal fatto che si tratta di un’arte che si vale tanto di coordinate spaziali quanto temporali.”

E per di più gli interventi su queste coordinate spazio-temporali da parte della forma filmica possono arrivare a “mettere insieme, in un’unica sequenza temporale immediata, eventi equidistanti, e ottenere mediante tale rapporto la specificità della realtà filmica.”

Il montaggio inteso come l’interruzione della macchina da presa per un tempo indefinito e la sua riattivazione viene usato specificatamente “come tecnica per una metamorfosi (che implica continuità temporale) in una dimensione spaziale.”

Ed è proprio per spiegare questa tecnica che Maya Deren ricorre all’esempio precedentemente citato nel film Coreography for Camera:

“Nel film ballato che ho fatto, il ballerino comincia un ampio movimento — l’abbassamento della sua gamba tesa e sollevata — in una foresta. Questa ripresa viene interrotta al momento in cui la gamba si trova all’altezza della vita ed è immediatamente seguita da un primo piano della gamba che prosegue il movimento — ambientata, questa volta, all’interno di una casa. L’integrità del movimento — il fatto che il tempo del movimento sia continuo e che i due fotogrammi appaiano successivi e ininterrotti nel montaggio — giustappone due aree spaziali che sono, nella realtà, in rapporto fra loro. Invece di interrompere la coerenza drammatica, la mobilità della cinepresa e l’interruzione e la ripresa dell’azione, creano qui una coerenza tanto integra quanto quella del teatro, ma di una qualità totalmente diversa.”

La colonna sonora del film, evidenziata a parte nello schema di analisi riportato nella parte terza, merita una qualche osservazione proprio perché appare molto curato l’inserimento in montaggio dei brani musicali rispetto alle inquadrature. A differenza del film analizzato nel secondo capitolo, Morte all’orecchio di Van Gogh di Pierfrancesco Bargellini, dove l’inserimento di brani musicali, seppure frequente, risultava meno curato rispetto alla composizione delle immagini e delle inquadrature, in Quasi una tangente l’inserimento dei brani musicali rispetta la logica narrativa del film. Esempi di questa coerenza si trovano: nel passaggio tra la seconda e la terza sequenza del film, la seconda sequenza inizia con le inquadrature sulla macchina del gas subito dopo la didascalia di presentazione (“Un film presentato da CINE CLUB FEDIC DEL TIGULLIO / Rapallo”) e con l’assolo di contrabbasso del brano di John Coltrane Psalm (tratto da A Love Supreme), mentre sull’inizio della terza sequenza, che è poi la didascalia con il titolo del film, parte l’assolo di sassofono di Coltrane che continuerà fino alla fine della sequenza dieci dove farà da sottofondo alla lezione di storia, perché in quella successiva la colonna sonora è dedicata solo alla registrazione del discorso di Mussolini che annuncia al popolo l’entrata in guerra, e quindi l’assenza di musica aumenta l’atmosfera drammatica dell’avvenimento storico.

La colonna sonora della sequenza 12 è la registrazione della simulazione di un lancio spaziale, e proprio alla fine, terminato il count-down, inizia il brano Eve of Distruction cantato da Barry Mc Guire, contemporaneamente le immagini mostrano un ragazzo che seleziona proprio questo disco dal juke-box mentre, come già è stato precedentemente osservato, la fine del brano coincide con l’estrazione del disco dal mangiadischi di Harold.

La colonna sonora per l’incontro con Mara è un brano di Thelonius Monk Crepuscule with Nelly, mentre la scena d’amore della sequenza 25 è affidata ad un pezzo di Coleman. Per la scena del suicidio, sequenza 26, ritorna invece il brano di Coltrane già usato nell’introduzione.

Un momento di riflessione spetta anche alla scelta fatta da Bacigalupo di girare tutto il film come se fosse un’unica soggettiva del protagonista.

Questa scelta di nascondere il volto del protagonista è giustificata così da Bacigalupo in un’intervista dell’epoca a Nuccio Lodato:

“Il film nasce da una serie di antitesi: è una dialettica di “sincerità” e partecipazione critica. V’è un nucleo narrativo nel quale protagonista e autore si separano: mentre quello escogita un tentativo di fuga dalla realtà, il regista, in posizione “saggistica” ne rifiuta la vigliaccheria verso il reale, che ritiene invece vada affrontato: e forse la realtà s’affronta solo con l’arte. In questo mio piccolo tentativo “d’ordinare” il disordine (sì, l’istante in cui si discute se preferire “ordine” o disordine è un po’ la chiave) non manca un espediente per coinvolgere il pubblico dato che l’attore per la parte di Paul non lo trovavo, ho scelto la soggettiva senza soluzione di continuità.”

Mentre, in un intervento più recente, questa scelta è giustificata da Bacigalupo frettolosamente e con un po’ di ironia: “… il film sarebbe stato girato in soggettiva. Questo evitava un sacco di impacci e dava via libera al mio gusto per i movimenti di macchina, qualche zoomata molto calcolata.”

Quello che nascondono però queste affermazioni a posteriori è il desiderio di ricorrere alla soggettiva per riproporre l’atteggiamento ingenuo del cineamatore, che si aggira nel suo mondo, nella sua realtà registrando persone e luoghi secondo il suo privilegiato punto di vista. Questo atteggiamento applicato ad un soggetto che è allo stesso tempo: finzione, una messa in scena, e autobiografico, perché rispecchia palesemente le inquietudini esistenziali di un giovane intellettuale, rappresenta una novità o piuttosto un’operazione provocatoria nei confronti delle strutture linguistiche del cinema commerciale.

Un esempio parallelo nella letteratura ci è offerto da Roland Barthes, il quale definisce l’uso della terza persona “una convenzione tipo del romanzo; allo stesso modo l’”egli” segnala e completa il fatto romanzesco; senza la terza persona c’è impotenza a raggiungere il romanzo o volontà di distruggerlo.” La terza persona, come il passato remoto, nel romanzo rassicurano sulla natura del fatto, sulla veridicità della realtà, sfuggendo “al pericolo di un linguaggio indeterminato”. La terza persona contiene in sé l’ambiguità di questa assicurazione di veridicità, che è allo stesso tempo una ambiguità propria del romanzo che, nei confronti della sua funzione di rappresentazione della realtà assegnatagli dalla società borghese, riceve “il compito di mettere la maschera, e nello stesso tempo di indicarla.”

La terza persona identifica la figura dell’attore che recita la realtà, che a sua volta contiene in sé il duplice aspetto di realtà e di finzione. La prima persona ha invece la funzione di “testimonio”, che non è una funzione ambigua e per questo non è una figura tipica del romanzo, anzi si pone come elemento distruttivo della convenzione nel momento in cui riporta il racconto “alla falsa naturalezza di una confidenza”.

L’uso della soggettiva si pone quindi come doppiamente ambiguo, perché mentre sembra sconfiggere l’ambiguità dichiarata della terza persona, riportando l’accadimento come una testimonianza diretta, ne denuncia la falsità perché l’oggetto del film è un racconto di finzione e non un documentario o un cinediario.

1.2. — Diffusione del cinema amatoriale

Il film Quasi una tangente è stato presentato, da un Bacigalupo non ancora diciannovenne, in concorso al Festival di Montecatini nel 1966, dove vinse il primo premio della categoria “soggetti”. Si tratta di un avvenimento di grande importanza, sia perché si tratta dell’unico film sperimentale di quegli anni ad ottenere un premio nazionale, sia perché questo fatto creò allora una grande polemica all’interno dell’ambiente dei cineamatori, ambiente nel quale il film nasce e si diffonde perché prodotto dal Cine Club FEDIC del Tigullio.

Sfogliando il numero 4 di luglio-agosto 1966 della rivista Il Cineamatore, viene alla luce proprio questa atmosfera di tensione tra il positivo giudizio di una giuria coraggiosa e le obiezioni che invece vengono mosse da una parte della critica e del pubblico.

Il giudizio di Guido Cattivelli è così formulato:

“E’ chiaro che la giuria, scegliendo Quasi una tangente, ha voluto dare anche un’indicazione culturale, e precisamente premiare una tipica opera “di rottura”, la cui scrittura modernissima potrà apparire sulle prime scabra e fumosa, ma riletta si rivela coerente espressione di un discorso personale e sofferto.”

Leonardo Autera:

“E’ evidente che egli si è rifatto a quel particolare settore del “New American Cinema” misticamente raccolto intorno alla rivista d’avanguardia “Film Culture”. Eppure Bacigalupo è riuscito a sfrondare quel particolare tipo di cinema, decisamente anticonformista anche sul piano del linguaggio, di alcune pesanti limitazioni, che si possono riassumere nell’eccesso intellettualistico, nella chiave interpretativa spesso troppo ristretta, nell’abbandono a languori di natura troppo intima e particolaristica, per puntare sulla rappresentazione lucida di una angoscia autentica, radicata nel rifiuto al livellamento quale si prospetta in larga misura alla gioventù odierna.”

Guido Cincotti:

“Quasi una tangente è un film di shock, espressione di una posizione personalissima e direi irripetibile: cinema “di autore” se mai ce n’è stato, così strettamente legato alla sua particolare costruzione da non lasciar residui, da non offrire spiragli ad altri possibili esiti formali. […] Bacigalupo tesse un discorso essenziale, costruisce — nell’agitarsi apparentemente caotico delle immagini — una parabola drammatica nell’arco perfetto e profondamente inciso, consegue, con icasticità di segno e rigorosa economia di mezzi, una sorprendente pienezza d’espressione.”

A questo entusiasmo si contrappongono pareri come quello di Giuliano Birindelli che, tra le pagine della stessa rivista, sembra confondere un linguaggio innovativo e di rottura con la trascuratezza tecnica. Infatti egli dice:

“E che dire poi del poco impegno tecnico? Ad esempio nelle sequenze nelle quali il personaggio principale, la macchina da presa, guarda la propria ombra proiettata sull’asfalto, si vede chiaramente il braccio destro che regge la cinepresa. […] In definitiva in questo film non ci sono le pennellate precise che creano il quadro, ma si ha soltanto la sensazione della confusione, del disordine che, a lungo andare, esasperano lo spettatore.”

Invece la lettera di uno spettatore al direttore della rivista, fa capire come questo film sia stato fondamentalmente travisato nelle sue intenzioni. Si tratta infatti di un intervento “contro la tangente” dove viene messo in discussione il fatto che il premio venga conferito al film per l’idea, intendendo l’idea centrale del film quella del suicidio e quindi un atteggiamento negativo dei “giovani d’oggi” nei confronti della realtà, idea malsana, quindi, che con questo premio non si fa che diffondere fra i giovani.

La rivista Il Cineamatore rappresenta un punto di riferimento importante, insieme al festival di Montecatini, per tutta una ampia fascia di cineamatori, che con la diffusione di cineprese di formato “leggero”, soprattutto 8mm e super-8, hanno la possibilità di accedere alla realizzazione di pellicole sia di corto che di lungo metraggio.

Ad incoraggiare la diffusione del cinema amatoriale contribuisce anche lo spirito del cinema underground, specialmente quello americano, che vede proprio nella figura del cineamatore la completa fusione tra vita e attività artistica. A questo proposito Stan Brakhage scrive la sua apologia del cineamatore nel 1967, che verrà pubblicata nel 1971 (in “Film-makers Newsletter” n. 9-10 luglio-agosto 1971) con il titolo di In defense of the “amateur” filmmaker. Brakhage inizia con il definire l’amatore come colui che “lavora a seconda delle proprie necessità (una tendenza tipicamente yankee) e in tal senso si sente “a casa” ovunque lavori. E se fa del cinema, fotografa ciò che ama o di cui in un certo senso ha bisogno” e mette in evidenza proprio come l’arte diventa parte integrante della vita di ogni giorno, e come questa capacità deriva dall’attività di autodidatta dell’artista stesso:

“Perché l’amatore è uno che realmente vive la sua vita — non uno che “compie il suo dovere” — e, in quanto tale, esperisce il proprio lavoro mentre lo svolge, invece che andare a scuola a impararlo per poter poi passare il resto della sua vita impegnato solo a svolgerlo doverosamente.”

L’opera del cineamatore diventa espressione d’amore proprio perché egli elegge ad oggetti della sua opera quegli oggetti d’amore della propria esistenza. Questa aperta manifestazione d’amore genera nell’artista un certo imbarazzo che cerca di superare con la ricerca formale:

“E quando un cineamatore si sente vulnerabile […] comincia a nascondere quello sguardo semplice dietro una complessità di trucchi fotografici e abilità inscenate, a dare ai suoi “film familiari” una sorta di vernice, un levigato e impenetrabile “nascondiglio” […]. Effettivamente quest’ultima tendenza è in ultima analisi una delle qualità più tenere dell’amatore; ma anche, come ogni altra autodifesa, è di ostacolo a un’esperienza e una conoscenza più approfondite dell’individuo e dei suoi film, e, a dire il vero, di tutto il medium del cinema d’amatore.”

Sempre secondo Brakhage l’atto di filmare, come nel cinema hollywoodiano non è altro che un rituale che celebra la memoria di massa, nel caso del cineamatore diventa un’esperienza dettata esclusivamente dalle esigenze della memoria personale di essere salvaguardata dal pericolo dell’oblio, si libera quindi da qualsiasi obbligo nei confronti della società:

“Quando un amatore fotografa scene di un viaggio, di un party, o di altre speciali occasioni, e specie quando sta fotografando i propri figli, sta innanzitutto cercando di far presa sul tempo, e, in ultima analisi, sta tentando di sconfiggere la morte.”

È per questo motivo che Brakhage chiama Songs i suoi brevi film dove riprende esclusivamente fatti ed eventi della sua vita familiare e le sue esperienze e ricordi di viaggio, “poiché sono per me la musica visiva registrata della mia vita interiore e esteriore, le melodie “fissate”, la memoria filmica della mia vita.”

1.3. — Filmografia dell’autore

1964-65 Lilan 9’ 8 mm 24 fts colore sonoro su pista magnetica

1966 Quasi una tangente 37’ 8 mm 24 fts bn sonoro su pista magnetica

1967 Ariel Loquitur 50’ 8 mm 24 fts bn & colore muto

1968 Un dittico e un intervento:

60 metri per il 31 marzo 15’ 8 mm 18 fts bn muto

Versus 14’ 16 mm 24 fts bn muto

Her 3’ 16 mm 24 fts colore muto (contributo al film collettivo C.C.I.)

1968-69 Lettere due da 4’ 8 mm una in bn e una a colori

1969-70 Fiore d’eringio:

I — The Last Summer 30’ 8 mm 18 fts colore sonoro su pista magnetica

II — Né bosco (una conversazione) 20’ 16 mm 24 fts bn muto

III — Migrazione 60’ 16 mm bn sonoro su pista ottica

IV — Coda 15’ 16 mm bn sonoro su pista ottica

1972-73 Warming Up 40’ 16 mm colore sonoro su pista ottica

1975-82 Cartoline dall’America 25’ 16 mm

CAPITOLO 2: Morte all’orecchio di Van Gogh di Pierfrancesco Bargellini

Parlare di Pierfrancesco Bargellini e dei suoi film risulta una impresa veramente ardua, infatti, nonostante rappresenta una delle figure più significative dell’underground italiano, si hanno a disposizione pochissimi documenti sulla sua attività non essendo mai stato chiosatore di se stesso come ad esempio lo sono stati Bacigalupo e Leonardi, anche l’apparato critico a disposizione è molto scarno.

Proprio per questo è stato necessario partire da una intervista ad Adriano Aprà come fonte principale di informazione, intervista presente nella parte terza della tesi, e alla quale si rimanda.

Questo capitolo è dedicato prevalentemente all’analisi del film.

2.1. — Analisi del film

Questo film è diviso in tre parti: coda iniziale, primo tempo, secondo tempo. è composto da immagini, da testi scritti, alcuni dei quali riprodotti come didascalia, altri recitati, e da musiche di genere diverso. Tutti questi elementi vanno a formare un quadro complesso e articolato non semplicemente della realtà secondo il punto di vista dell’autore, ma proprio del suo mondo, una dimensione creata da simbologie personali che ne fanno un universo compiuto.

Un universo fatto da elementi visivi e sonori, che si susseguono e si sovrappongono, tanto che per poterli individuare è stato necessario compiere un’operazione di scomposizione e di analisi delle varie sequenze. Le sequenze in cui è stato suddiviso il film sono costituite da una componente visiva ed alcune volte, ma non sempre, una componente sonora. Data la varietà e la apparente non omogeneità, ognuna di esse viene analizzata singolarmente, come fosse una particella a sé stante, e solo in un secondo tempo si cercherà di ricostruire un rapporto tra di loro. è da precisare che la divisione operata tiene conto non soltanto dell’omogeneità del soggetto visivo ma anche della presenza o meno di un commento sonoro.

È da escludere che Bargellini costruisca le sue immagini per trasmettere qualcosa, una sua idea o una sua visione della realtà, le sue immagini non sono quindi messaggi, ma potremmo definirle “esercizi di visione”. Egli più di una volta afferma il carattere sperimentale del suo lavoro, nel senso più proprio del termine, i suo film sono infatti un modo per avvicinarsi al mezzo cinematografico, un modo per osservare ed appropriarsi della realtà che ci circonda. Appropriarsi, perché non basta solo osservare per capire il senso di ciò che vediamo. Bargellini non ci fa semplicemente vedere la realtà come lui la vede, ma se ne appropria e ne costruisce una diversa, veramente sua. Dapprima egli individua diversi elementi, come la natura, l’erotismo, la folla, il mondo del consumismo e della pubblicità, per poi riproporli “purificati” dal loro contesto originario e mescolati tra di loro, spesso materialmente sovrapposti, proprio per mezzo della sovrimpressione, per andare a comporre un universo fatto solo da questi elementi.

La numerazione si riferisce alla tabella, nella parte terza, che riporta le sequenze indicando il loro contenuto visivo, i movimenti di macchina e le inquadrature, e la componente sonora.

1. — Il film si apre con l’arrivo di un treno in una stazione. Si tratta di un unico piano-sequenza, l’inquadratura è fissa: i binari non sono ripresi perpendicolarmente ma diagonalmente, per creare un effetto prospettico, dove le linee tracciate dai binari vuoti vanno verso un ideale punto di fuga collocato all’orizzonte. Ad una inquadratura fissa si contrappone quindi una struttura interna dinamica, perché le linee idealmente convergenti all’orizzonte anticipano uno spostamento verso lo spettatore, che vediamo verificarsi subito dopo con l’arrivo del treno. I passeggeri salgono e scendono dal treno, poi un fischio annuncia la partenza del convoglio. Tra i passeggeri in primo piano si riconosce anche Marco Melani.

Si tratta di un esplicito riferimento al treno inquadrato dai fratelli Lumière nella stazione di La Ciotat. Mentre il riferimento originario era tanto carico di dinamismo da provocare non solo lo stupore del pubblico — un pubblico speciale quello che è stato testimone della nascita dell’evento cinematografico -, ma anche la paura, l’immagine di Bargellini non contiene alcun tipo di dinamismo o di energia. Nel movimento del treno che avanza e in quello dei passeggeri che salgono e scendono dai vagoni, ritroviamo la assoluta immobilità emotiva, questo treno non è per niente diverso da tanti altri già visti molte volte in altrettante stazioni. Insieme alla banalità del quotidiano ci viene presentata la palese ammissione del fallimento o, più semplicemente, della impossibilità di presentare la realtà secondo un punto di vista artistico. Mentre nella prima parte della sequenza, quella dell’arrivo del treno, vediamo sia le immagini che il relativo sonoro in presa diretta dei rumori che si sentono nella stazione, la descrizione della partenza del treno è affidata solo alla componente sonora: lo schermo è completamente buio, che il treno sta partendo lo intuiamo solo dal fischio e dai rumori.

2. — Con lo schermo buio inizia anche la sequenza successiva. Qui però al centro dell’inquadratura si apre un riquadro attraverso il quale si vede una bocca che recita i versi della poesia di Allen Ginsberg che dà il titolo a questo film, vengono recitati da una bocca visibile da un riquadro aperto al centro dello schermo completamente nero: “[…] Oggi Detroit ha prodotto un milione di automobili fatte di gomma vegetale e di fantasmi. / Ma io cammino e cammino e con me cammina l’Oriente e l’Africa tutta cammina / e prima o poi il Nord America camminerà / poiché se noi abbiam cacciato dalle nostre soglie l’angelo cinese questi ci caccerà dalla porta d’oro del Futuro / nessuno ha avuto pietà del Tanganika / Einstein veniva schernito per la sua politica celeste / Bertrand Russell cacciato da New York per aver fornicato / e Chaplin l’immortale allontanato da queste rive con la rosa fra i denti / e una segreta congiura della Chiesa cattolica nelle latrine del congresso ha rifiutato anticoncettivi alle incessanti masse dell’India. […]”

La potenza di questi versi, che riescono ad esprimere l’urlo di protesta del poeta, portavoce della disperazione di popoli per le ingiustizie e i soprusi subiti, per l’inconsapevolezza del mondo occidentale accecato dalla ricerca di ricchezza nell’ottica della produzione, viene rafforzata dalla particolare costruzione dell’inquadratura, tanto da meritare alcune considerazioni. Non appare un soggetto enunciante, la bocca e le parole non appartengono a nessuno che possa essere individuato e quindi riconoscibile; ma è anche vero che questi versi non provengono da un fuori campo anonimo, la cui voce potrebbe appartenere ugualmente a qualsiasi persona, in questo caso sarebbe esterna all’inquadratura e potrebbe avere l’effetto di uno sfondo sonoro, anzi si tratta dell’unica voce in campo dell’intero film. Si potrebbe ipotizzare che la voce e la bocca sono quelle dell’autore, ma non avendone la certezza rimane un’ipotesi priva di rilevanza. è però importante considerare la carica emotiva di questa scena, infatti la bocca parla attraverso un’apertura nel nero assoluto catturando così tutta l’attenzione dello spettatore su quel punto al centro dello schermo e sui versi recitati, la cui potenza scaturisce direttamente dal film, e non da qualcuno che li recita nel film, fanno parte del film stesso.

3. — Alcune persone sono sedute a tavola, riprese dall’alto, l’immagine è accelerata e la voce fuori campo dice: “Io rappresento… Bene, se lo dicessi non avrei più alcun segreto da conservare. Qualche volta è poco. Qualche altra volta è poco. Qualche giorno è ancora più poco”. La titubanza di questa frase, il voler dire qualcosa per fermarsi subito dopo, il ripensamento, tradiscono, più che l’insicurezza dell’autore, piuttosto l’intenzione di una poetica non espressa perché non esprimibile. Quello che è certo è che l’autore c’è, sia come soggetto enunciante sia nella sua funzione artistica. La frase incompiuta “Io rappresento…” esprime proprio questo, ed è ancora più efficace nella sua incompletezza, infatti se avesse detto cosa si accingeva a rappresentare, “l’oggetto della rappresentazione” avrebbe catturato l’attenzione dello spettatore rispetto “al soggetto rappresentante” e alla sua “funzione rappresentativa”.

4. — Articolo di cronaca sull’avvenuto ferimento di Andy Warhol. Inquadratura fissa sul testo di un articolo di giornale che descrive l’avvenimento. In questo caso il messaggio è affidato non al sonoro ma ad un testo scritto, usato come una didascalia.

Utilizzando la sola immagine della pagina di giornale, Bargellini sembra voler attirare l’attenzione sul mezzo di comunicazione usato, ossia sulla sua funzione nella società: la stampa, la pagina di giornale come una finestra sul mondo.

Si tratta di un ennesimo riferimento alla cultura americana della Beat generation e della Pop art.

5. — Ad una prima sequenza di inquadrature accelerate che riprendono una strada di città di notte, si vedono automobili e luci al neon, segue una seconda che riprende delle persone intorno ad un tavolo sul terrazzo, e più in generale le persone che si riescono ad intravedere dalle finestre dei palazzi di fronte. Il fatto di riprendere tutto quello che era visibile affacciandosi dalla finestra di casa (quindi le persone, le facciate di altri palazzi e tutto quello che si intravede dalle finestre, le strade e le automobili) con inquadrature sempre dall’alto, a volte oblique altre volte frontali, è una costante nel cinema di Bargellini, come si vedrà meglio in seguito.

La seconda parte della scena, quella dove si vedono le persone sedute intorno ad un tavolo, è accompagnata da un commento sonoro, una voce fuori campo dice: “Siamo riuniti tutti qui, Andy Warhol, The Velvet Underground, il poeta Gerard Malanga, dietro Ed Sanders che dirige il complesso rock and roll dei Fugs. E là c’è Tuli Kupfelberg, anche lui poeta e cantante dei Fugs. Quello con i capelli lunghi che scrive è Peter Orlovsky, il poeta, che anche sa cantare i mantra indiani, e quello dietro è suo fratello che è stato quattordici anni in manicomio e è un’attrazione del nostro movimento. E questo è Jonas Mekas della Cooperativa dei Film Makers, quello che ha fatto uscire film come…”. In un primo momento potrebbe sembrare la descrizione delle persone sedute al tavolo di cui vediamo le immagini, ma poi facendo attenzione ci accorgiamo che non c’è alcuna corrispondenza tra l’immagine e le persone descritte dalla voci fuori campo, infatti sicuramente quella che ci viene descritta è una fotografia di gruppo che non vediamo in nessuna scena del film.

Questa separazione tra la componente sonora e la componente visiva non è altro che una provocazione stilistica, una delle tante che gli autori del cinema sperimentale proponevano, sia per provocare nello spettatore un effetto di straniamento, sia per effettuare una vera e propria operazione di rottura e di distacco nei confronti del cinema classico e delle sue convenzioni linguistiche e stilistiche.

Dal punto di vista del contenuto questa sequenza ci fa affacciare sul mondo dell’America Beat, in tutte le sue espressioni, dalla poesia, alla musica, al cinema.

6. — Questa sequenza è il risultato del montaggio alternato di diverse sequenze: scene del film Cittadino dello spazio, didascalie del medesimo film, l’immagine della pellicola che scorre nel proiettore davanti all’obiettivo, due teste di uomini riprese da dietro, la curiosa scena di un uomo che si agita davanti alla macchina da presa mostrando un paio di forbici ed una pistola. Quello che sembra più plausibile per cercare di interpretare questa alternanza di elementi così diversi, è che si tratti di una ricostruzione del meccanismo della visione cinematografica, con la moltiplicazione dei punti di vista. Infatti, normalmente, pensando alla visione di un film siamo portati a considerare come unico possibile il punto di vista dello spettatore che seduto in sala si gode lo spettacolo. Bargellini invece descrive tutto un sistema di intreccio dei vari punti di vista come se fossero sguardi capaci di tracciare dei vettori che si incrociano tra di loro. La sequenza delle scene del film (rappresentazione data dall’immagine) e delle didascalie (rappresentazione data dal testo scritto, che nel caso del film muto sostituisce la componente sonora), sono frutto dello sguardo dello spettatore, del suo punto di vista. Ma quello dello spettatore non è che il punto di vista privilegiato, il più scontato forse, ma non il solo. Bargellini intreccia a questo “vettore” privilegiato anche quello che dallo schermo torna indietro verso il proiettore, mostrando così la pellicola che scorre, e quello del proiettore che si trova dietro agli spettatori, inquadrandoli così solo di spalle, senza mostrarci i loro volti.

Per completare questo sistema di sguardi che si rincorrono e si incrociano, l’autore inserisce un elemento di disturbo: la scena dell’uomo che si agita. Il meccanismo della visione del film, e comunque della visione in generale, viene rielaborato prima amplificando la portata di tale meccanismo, quindi inserendo un elemento estraneo, che potrebbe essere visto anche come la causa di questo stravolgimento del sistema della visione che fino ad ora era un sistema lineare univoco. Questo gioco di sguardi che confondono l’identità tra film e spettatore si trova anche nel film immediatamente successivo a questo, Un ottofilm di Pierfrancesco Bargellini. Ce lo racconta così Bacigalupo:

“Nella prima parte del film egli manipola tecnicamente le immagini di masturbazione e concupiscenza come in tutta la trilogia, senza esito; poi sottopone se stesso immediatamente alla manipolazione filmica, cosa che non era accaduta nei film precedenti, e v’è un punto in cui ci guarda dallo schermo e per un momento non è chiaro chi è il film e chi lo spettatore: da qui un’identificazione, sicché l’immagine seguente, che torna al colore, è soggettiva di Piefrancesco Bargellini, dopo il fix, e nostra: una parete con un fascio di luce.”

7. — Sequenza composta interamente da successione di schermi colorati, rosso, verde, blu e bianco, dove la breve durata di ogni colore provoca l’effetto di lampeggiamento. La luce è la materia prima su cui si basa il prodotto filmico, ed è proprio la manipolazione fisica di questa materia il motivo ispiratore più importante dell’autore. Egli dice: “il cinema è luce”, ed è la luce che crea in queste immagini.

All’interno di questa sequenza di schermi colorati si intravedono per brevi istanti immagini di nudi di donna. Questo tipo di immagine, che per il momento viene appena accennata, in seguito verrà riproposta con più insistenza. Con queste brevissime sequenze viene introdotto l’elemento erotico, che sappiamo proprio del cinema di Bargellini.

In questo caso si tratta di un erotismo che si trasmette solo attraverso la visione, mentre l’azione non trova spazio né viene ispirata da queste immagini. Il fatto stesso che esse ci vengano riproposte per così breve tempo e in modo poco chiaro, poco visibile, oltre ad ottenere un effetto di sorpresa ci incuriosisce e ci spinge proprio a “guardare meglio”, ad assumere insomma un atteggiamento voyeuristico. Così come apparirà anche più chiaramente in altre sequenze successive, in questo caso l’erotismo nasce e si consuma attraverso la visione.

8. — Sullo schermo nero appaiono segni bianchi, che ci fanno pensare ai film astratti degli autori dell’avanguardia. Qui la colonna sonora è affidata alla musica elettronica.

9. — Di nuovo scene erotiche montate insieme in sovrimpressione.

10. — A questo punto inizia il primo tempo del film. Compare la firma dell’autore: “un film di P. Bargellini” alla quale segue un breve episodio che racconta solo tramite le immagini l’incontro tra una prostituta e il suo cliente.

Questo incontro viene descritto osservando prima la prostituta, poi il cliente che in automobile percorre una strada, fino a scorgere la figura della donna in attesa sul bordo. Sono due sequenze distinte e non montate come ci si potrebbe aspettare secondo la classica legge del montaggio alternato. La prima sequenza è dedicata ad una dettagliata descrizione visiva della donna. Più inquadrature ne rivelano i particolari dell’abbigliamento, del trucco, indugiando sulle gambe e sul viso. La descrizione passa poi alla gestualità, ai movimenti, compiuti per ingannare il tempo mentre aspetta. La donna si ritocca il trucco, fuma un sigaretta, beve con movimenti lenti e annoiati dai quali si intuisce che si tratta di azioni che vengono compiute per abitudine.

La seconda sequenza, quella che dovrebbe descrivere il cliente, è tutta dedicata alla vettura che avanza, si vede sia l’automobile che percorre la strada, sia la soggettiva del pilota sulla strada che gli scorre davanti, fino a quando scorge la donna, si ferma, la fa salire, ripartono insieme. La particolarità di queste due sequenze è che quella che mostra la donna, non fa altro che descrivere, come già accennato, l’attesa, quindi lo scorrere del tempo, mentre quella dell’uomo descrive un percorso che lo porterà fino alla donna, quindi il movimento nello spazio. Senza soffermarci in particolari disquisizioni teoriche, possiamo dedurre che questo episodio oltre a raccontare l’incontro di un uomo e una donna nella esplicita ricerca del rapporto sessuale, racconta anche l’incontro delle due coordinate spazio — tempo che fanno parte dell’immagine cinematografica.

11. — Questa e le successive sequenze sono dedicate alla contemplazione della natura. In questa vediamo il tramonto su uno specchio d’acqua e diverse inquadrature del sole.

12. — Dalla natura si passa alla realtà umana: questa sequenza è data dal montaggio di scene erotiche con immagini di un supermercato visto dall’esterno, da una vetrina.

Le sequenze del supermercato introducono due nuovi elementi: quello della folla, una folla irrequieta che ritroveremo per le strade, nei negozi, sulla riva del mare, e che sta ad indicare proprio il fatto che viviamo in una società di persone ordinata da determinate regole. Il secondo elemento è quello del supermercato come simbolo del consumismo di massa.

13. e 14. — Ritorno alla natura, inquadratura sul cielo nuvoloso e sulla luna.

15. — Nell’ultima sequenza dedicata alla natura si riscontra un cambiamento di atteggiamento, infatti rispetto a quello delle precedenti sequenze che era puramente contemplativo, questa contiene dei risvolti drammatici. La scena è preceduta dal titolo “morte di un’ape”, cosa che evidenzia già il suo intento narrativo. L’ape è ripresa mentre vola tra l’erba di un prato e mentre cammina sul terreno, poi improvvisamente, nella sequenza successiva la vediamo prima agonizzante e poi morta, inerme su di una foglia. La drammaticità dell’episodio è dovuta principalmente al fatto che la morte non è annunciata da qualche indizio, ma arriva così all’improvviso, senza alcun motivo; il contrasto tra le prime scene, dove il volo dell’insetto trasmette un sentimento di innocente spensieratezza, e la scena dell’agonia, è ancora più accentuato dall’accompagnamento musicale, l’allegro del Concerto in re min. di Albinoni, che con la sua melodia gioiosa accompagna anche la morte dell’ape.

Il tema dell’agonia di un animale verrà riproposto nel breve film Stricnina (girato nel 1969 e stampato nel 1973 grazie al contributo finanziario del Filmstudio 70) nel quale Bargellini filma la morte del proprio cane. Sia Stricnina che la sequenza della morte dell’ape sono un esplicito omaggio a Stan Brakhage che in Sirius Remembered (1959) aveva filmato la morte del suo cane Sirius.

16. — Dopo quella della prostituta [10], in questa sequenza e nelle successive ritorna il tema dell’unione sessuale tra la donna e l’uomo.

In particolare questa sequenza ha una struttura molto schematica, direi geometrica, come fosse la dimostrazione di un teorema: sono tre inquadrature successive, la prima sul seno nudo di una donna, non vediamo il volto ma solo la parte del corpo dal collo alla vita, la seconda sul petto nudo di un uomo, la terza un primissimo piano di un pene durante l’eiaculazione. Un po’ come dire: “uno più uno uguale due”.

17. e 18. — Queste due sequenze vanno a formare un unico episodio, ma sono state divise per la non omogeneità degli elementi che le compongono, infatti se i personaggi e la scena sono gli stessi, cambia il tipo di inquadratura, e mentre nella prima parte c’è il commento musicale, nella seconda parte questo è totalmente assente. Ancora una volta viene affrontato il tema del rapporto sessuale, anche se non in maniera esplicita come nel precedente, in questo caso viene rappresentato metaforicamente. Nella prima sequenza abbiamo lo schermo diviso a metà, nella parte sinistra c’è un uomo che si taglia le unghie dei piedi e nella parte destra una donna che compie la stessa azione. I due sono Marco Melani, amico fraterno di Bargellini, e la sua ragazza, Lydia Barbaglia. Nella seconda sequenza vediamo i due personaggi riuniti in un’unica inquadratura: la donna taglia le unghie all’uomo. Tra queste due inquadrature viene inserita la scena erotica già precedentemente vista. Il risultato di questo rituale è che l’uomo ha le unghie smaltate come quelle di una donna. L’inquadratura finale li vede insieme seduti uno dietro all’altro entrambi con lo sguardo rivolto verso la macchina da presa.

C’è da osservare che, mentre in precedenza era stato sottolineato il fatto che le sequenze erotiche sono una rappresentazione dell’erotismo che nasce e si consuma nella visione, qui siamo di fronte al caso in cui l’erotismo si manifesta come unione fisica tra uomo e donna: il gesto, l’atto sessuale prendono il posto dell’atteggiamento passivo del voyeur. Il sesso non è più proposto come visione, anche se rielaborata dall’occhio partecipe di un singolo individuo, ma come atto che avviene tra due persone.

19. — Dettaglio del volto di una donna raffigurata in un cartellone pubblicitario. Ecco, come abbiamo già accennato, la presenza dell’elemento della pubblicità, qui introdotto dalla figura femminile, oggetto del desiderio per definizione e simbolo erotico per eccellenza. Il gigantesco cartellone pubblicitario non svolge la funzione di rappresentare un elemento della realtà, in questo caso la donna, ma esibisce la “sua” donna. La pubblicità quindi non strumento di rappresentazione della realtà, piuttosto come motore capace di costruirne un’altra.

Il secondo tempo del film è costituito da sequenze meno isolabili e meno compiute delle precedenti, delle quali si era riusciti ad individuare caratteri propri, e in alcuni casi addirittura era stato possibile rintracciare una struttura episodica. Qui più che definire degli episodi, le sequenze assumono l’aspetto di vere e proprie visioni. Ritornano con più insistenza le scene erotiche (quelle dedicate appunto all’erotismo visionario), ma soprattutto trovano maggiore spazio le immagini girate per le vie della città, tra la folla, quelle di vetrine di negozi e di cartelloni pubblicitari.

Una breve descrizione di queste sequenze è utile per mettere in evidenza quei motivi ricorrenti che le accomunano e che molto probabilmente abbiamo già incontrato nel primo tempo.

20. — Il secondo tempo del film inizia con una sequenza di immagini di folla e traffico nella città e in sovrimpressione quelle della folla sulla riva del mare, montate con scene erotiche. Torna l’elemento della folla, mescolato questa volta a quello dell’erotismo. Di nuovo immagini di strade affollate in sovrimpressione con scritte e insegne pubblicitarie. L’accompagnamento musicale è qui costituito da un brano di musica classica di cui non sono riuscita ad individuare l’origine.

21. — Montaggio di scene girate in un supermercato con immagini erotiche virate in rosso, mentre una voce fuori campo parla in francese, probabilmente si tratta di una registrazione radiofonica.

22. — Sequenza di vetrine che espongono abbigliamento femminile.

23. — Lunga sequenza di immagini di una vetrina che espone parrucche, come se fossero tante teste senza volto, con accompagnamento musicale.

24. — Il ritratto di Edgar Allan Poe viene inserito nella sequenza precedente, in modo da venire confuso in mezzo alle teste anonime che spuntano dalle vetrine, ma è l’unica testa in mezzo a tante ad avere un volto.

25. — Una sequenza mostra prima una donna in strada con dei bambini, poi una donna affacciata al balcone, come se fossero riprese da qualcuno affacciato alla finestra. Tutto questo mentre la voce fuori campo recita: “Quello che sta succedendo oggi è… viviamo nell’epoca dello spazio, nei giorni della fantascienza come prevedeva Bob Rogers che è stato un eroe del futuro. Le profezie di Marinetti, specialmente le più fantastiche si stanno avverando. Fabbriche appese al cielo dai fili di fumo delle ciminiere. Perciò la gente dappertutto cerca con ogni mezzo, con LSD o yoga di tenersi su. Così ciò che accadrà nel futuro sarà che la consapevolezza dell’uomo si trasformerà per adattarsi alle modificazioni ecologiche. Vedete, qui dove camminiamo è tutta pietra e cemento mentre gli uomini sono nati per gli alberi, l’erba, la materia organica vivente sulla superficie della terra ed invece tutto ciò è stato spazzato via. Oggi la parte più importante della gente vive immersa nel presente. Quello che è successo nel passato, lo ripeto, è storia. Quello che succede adesso è oggi, e oggi è tutto ciò che conta.” La fonte di questo discorso non è stata individuata.

26. — La facciata di un palazzo. La canzone “Summertime” fa da colonna sonora.

27. — Montaggio di una scena erotica, inquadrature di un supermercato e schermo virato in rosso, mentre il commento sonoro è lasciato ai rumori della automobili in strada.

28. — Brevi immagini di scene erotiche alcune delle quali virate in rosso e un bambino che guarda dentro un oggetto non ben visibile, ma che potrebbe essere una cinepresa.

29. — Inquadratura fissa sull’ingresso del supermercato “Standa”, mentre la voce fuori campo recita: “… che suscita gioia astratta, ma dopotutto una stazione di benzina è in realtà solo un tubo che viene fuori dal serbatoio dove c’è la benzina e se fosse veramente così occuperebbe poco spazio e non avrebbe nessun interesse visivo. Ma così come sono fatte le stazioni di benzina diventeranno realmente un monumento alla vendita della benzina. E tutte queste cose stanno diventando altari alla vendita dei beni al pubblico, ai consumatori. Quello che una volta era competenza della Chiesa, una cosa del genere… L’apoteosi dei santi e così via è diventata l’apoteosi dei prodotti dei beni di consumo e questo ha influenzato tutta la nostra cultura “. Non è stato rintracciato il riferimento preciso, ma il tema che viene citato, ci fa pensare che si possa trattare, probabilmente, di un testo di David Riesman.

30. — Inquadrature di persone nei negozi, mentre si sente una voce fuori campo che parla in americano, probabilmente si tratta di stralci di trasmissioni o spot televisivi.

31. — Scena tratta da un filmino erotico: una commessa all’interno di un negozio si spoglia con la scusa di vendere i suoi indumenti al cliente.

32. — Donna che prende il sole nel suo balcone, la stessa inquadratura della sequenza 26, mentre il commento musicale è affidato al brano “You are my destiny”.

33. — Angolo di strada ripreso dall’alto di una finestra e proiettato in maniera accelerata.

34. — Scena erotica virata in rosso, mentre ritorna la voce fuori campo americana.

35. — La stessa scena della sequenza 28 dove un bambino guarda dentro l’obiettivo di una cinepresa.

36. — L’immagine finale è quella di un bicchiere di vetro pieno d’acqua nella quale si sta sciogliendo una pasticca effervescente, mentre una voce (quella dell’autore con tutta probabilità) dice: “Giusto o sbagliato non lo so… la mia sensazione personale… non mi piacciono i prodotti chimici.”

Secondo Adriano Aprà questo finale rappresenta l’opposto contenuto delle altre immagini del film, le immagini, cioè, di una realtà appiattita dai mezzi di comunicazione di massa, la pubblicità la televisione assolvono alle funzioni di diffusione e di informazione, privando le immagini di qualsiasi impulso vitale ed ottenendo, in questo modo, delle immagini inerti. Al contrario tutta questa vitalità inespressa viene tradotta nell’energia prodotta dalla pastiglia effervescente che, pur essendo rinchiusa nel bicchiere, non viene occultata dalla trasparenza del vetro.

2.2. — I temi del film

Da questa analisi del film è emersa soprattutto la ricorrenza di alcuni temi che il regista ha citato in quanto appartenenti al suo mondo, sia quello reale sia quello visionario.

Nel film c’è, tra le altre cose, un omaggio al cinema: si inizia dalle origini nella prima sequenza, che come abbiamo visto si ispira al film dei fratelli Lumière, per proseguire con il cinema popolare, rappresentato dalle immagini del film Cittadino dello spazio, un classico del cinema di fantascienza degli anni ’50, fino ad arrivare al cinema d’autore con la citazione della prostituta pasoliniana nel film Uccellacci e uccellini.

L’America è un altro ricorrente riferimento culturale, in particolare a quella cultura che la poesia dei beatnik avevano portato fin in Europa, nella quale erano costanti il desiderio di libertà di espressione e di misticismo. Ma soprattutto il riferimento era alla ventata di novità che aveva portato il cinema underground americano, strettamente legato ad essa.

È importante sottolineare come Bargellini sia uno di quegli autori del cinema sperimentale italiano, con la coda dell’occhio rivolta all’esperienza americana e a quella del New American Cinema. Confessa infatti: “[…] ho visto poco dell’underground americano, ma ho letto molto, e quindi… me lo immagino.”

Oltre ai riferimenti culturali, la presenza della realtà che lo circonda è una componente che invade l’opera di Bargellini e questo film in particolare. La realtà nella sua armonia, quella della natura che ispira solo contemplazione, anche nella manifestazione tragica della morte, e nella disarmonia e confusione, quella degli uomini. La realtà umana viene considerata dal regista nel suo duplice aspetto di vita e morte, private però della loro valenza drammatica: l’erotismo e l’unione dei corpi traducono il desiderio, cioè l’energia vitale: le immagini della pubblicità e del consumismo, quelle stesse che trasformano gli oggetti e le persone in prodotti, privano la realtà della sua componente vitale; anche l’immagine di una bella donna su un cartellone pubblicitario perde la connotazione di oggetto del desiderio, diventa immagine inerte di esso.

Queste immagini sono state il soggetto del primo film di Bargellini Questo film è dedicato a David Riesman e s’intitolerà “capolavoro” del 1967, interamente composto da immagini fisse prese da riviste, mentre il suono proviene direttamente dalla radio e dalla televisione. Egli stesso ce lo spiega così:

“Il film è un tentativo di riportare al livello di pura denotazione, o di dare una diversa connotazione, ad immagini fortemente connotate ed ormai talmente guardate da essere insignificanti o, che è lo stesso, troppo cariche di significato.”

A questo punto non possiamo omettere almeno un accenno all’influenza che ha esercitato su Bargellini l’opera di David Riesman, sociologo americano le cui teorie hanno iniziato a circolare fin dagli anni ’50, visto che è esplicita materia del primo film e ne troviamo delle citazioni anche in Morte all’orecchio di Van Gogh. Come dice lo stesso autore: “Il punto di partenza è David Riesman, la storia e la civiltà di massa.”

Riesman ha studiato l’evoluzione della società in relazione allo sviluppo demografico e al progressivo arricchimento della popolazione. Egli distingue tre fasi attraverso tre tipi di personalità dell’individuo regolate dai fattori sociali:

Diretta dalla tradizione: “la persona diretta dalla tradizione, come è stato detto, difficilmente si considera un individuo” e “sente urgere su di sé la sua cultura come unità”, sente il dovere di comportarsi in modo che le persone che lo circondano riconoscano il suo comportamento confacente a quello stabilito dalla tradizione.

Autodiretta: questo tipo di personalità ha interiorizzato delle regole di comportamento dettate inizialmente dai genitori e, successivamente, da figure autoritarie che possono rassomigliarvi. Di conseguenza i suoi comportamenti non sono regolati direttamente dall’esterno ma dall’interno della propria personalità. Questo soggetto ha filtrato e fatto propri impulsi esterni che ora usa autopilotandosi.

La persona eterodiretta è quella che prevale degli Stati Uniti e nelle società avanzate che hanno visto un grande sviluppo economico e hanno subito di conseguenza un significativo calo demografico. “Ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’uomo.”

L’analisi condotta su questi modelli sociali è tutta tesa verso la modernità, verso il divenire moderno della società ma soprattutto dell’individuo. Riesman non compie una critica nei confronti della società moderna, si limita ad analizzarla come dato di fatto.

Sicuramente l’opera del sociologo americano ha avuto molto successo proprio perché accolta in un ambiente culturale come quello degli anni ’60, dove le sue teorie sono state sfruttate nell’ambito della contestazione alla società capitalistica.

2.3. — Sperimentazione e visionarietà nel linguaggio di Bargellini

Bargellini è uno degli autori del cinema sperimentale italiano più sensibile alla componente tecnica del fare cinema, insieme a Paolo Gioli e ad Alberto Grifi. Mentre però il primo mantiene un approccio di tipo fotografico, lavorando sempre in bianco e nero e si concentra sulle possibilità della pellicola e dei risultati della stampa, ottenendo delle immagini tecnicamente perfette, ma prive di ogni valenza emotiva, e il secondo concentra le sue ricerche sulle possibilità ottiche del mezzo, studiando le possibili deformazioni che può subire la realtà una volta ripresa da una telecamera tramite l’intervento dell’uomo, quella di Bargellini è un’esperienza più completa. Dal punto di vista tecnico le sue ricerche sono concentrate sull’aspetto chimico della pellicola, come ha chiaramente detto Aprà (nell’intervista riportata nella parte terza) Bargellini era un chimico e cercava di applicare le sue conoscenze intervenendo sui processi chimici di sviluppo della pellicola. Questa ricerca non si ferma all’aspetto formale, ma tende all’esperienza estrema dei limiti, cercando di superarne la definizione. Bargellini infatti supera il concetto di bianco e nero e colore riuscendo ad ottenere immagini con emergenze di colore dalla pellicola in bianco e nero, e di conseguenza, per la particolarità del procedimento di sviluppo della pellicola e assoluta imprevedibilità dei risultati ottenuti, supera anche il limite-concetto della riproducibilità di tale esperienza. Queste tensioni vengono riproposte anche nei suoi temi preferiti, infatti il sesso è sempre presentato nel duplice aspetto di eros e thanatos. Inoltre il suo sguardo può essere ossessivo e voyeuristico quando si sofferma sui passanti, sulla gente che “spia” dalla finestra (come la bambina del film Plan-séquences per una bambina che riprende per tre anni consecutivi dalla finestra di casa), ma poetico e visionario quando si sofferma sui prodotti della società dei consumi e sui suoi miti, come abbiamo visto in maniera dettagliata nel film Morte all’orecchio di Van Gogh.

Questo tipo di visionarietà può essere assimilata a quella di Stan Brakhage, il quale, come Bargellini probabilmente, usa i “trucchi” cinematografici per riportare nell’immagine una visione che l’obiettivo non era riuscito a catturare nella pellicola. Per spiegare questa pratica, egli racconta così un episodio:

“Per esempio, quando ho ripreso la nascita dei miei figli ho visto che con le primi immissioni di respiro tutto il loro corpo era soffuso dei colori dell’arcobaleno — ma il tipo di pellicola registrava solo la diffusione di macchie rossastre su tutta la superficie della pelle. […] Non avendo modo di provare se questa visione di arcobaleni di pelle alla nascita fosse una mia allucinazione o una realtà esistente ma troppo sottile per la riproduzione fotografica, mi sentii libero, mentre montavo il film della terza nascita, di dipingere anche, su ogni fotogramma 16mm, uno alla volta, tutte le visioni dell’occhio della mia mente e di inframezzare ai fotogrammi della nascita alcune immagini che mi ero ricordato mentre guardavo il parto.”

L’immagine proposta è quindi il frutto della visione dell’occhio della mente e non di quello fisico. Chiaramente per riproporre questa registrazione mentale sia Brakhage che Bargellini sono costretti ad intervenire direttamente sulla pellicola, facendo affiorare delle immagini che non era stato possibile semplicemente “registrare”.

Il cinema disperso (in quanto la maggior parte dei suoi film sono attualmente dispersi o in fase di restauro) di Bargellini è quindi, nelle sue multiformi qualità, un cinema di alchimie, di visioni e di sguardi, che definire semplicemente sperimentale equivarrebbe ad oscurare ulteriormente una memoria già sbiadita.

2.4. — Filmografia dell’autore

1966.
La striscia, (febbraio marzo) 15’ 8 mm bn 18 fts sonoro su pista magnetica
… vogliate gradire questo semplice bouquet di parentesi appena sbocciate ((())), (maggio-giugno) 35’ 8 mm bn 18 fts sonoro su pista magnetica

1967.
Questo film è dedicato a David Riesman e s’intitolerà Capolavoro, (maggio) 40’ 8 mm bn & c 18 fts sonoro su pista magnetica

1965-68.
Fraction of Temporary Periods (I parte) ovvero Plans-séquences per una bambina, 28’30″ 8 mm bn 18fts sonoro su pista magnetica

1968.
Saluto, (gennaio) 3’30″ 16 mm bn 18 fts sonoro su pista magnetica
Tempo-Tempio-Ritratto, (febbraio) 4’41″ 16 mm c 24 fts muto
360° di Cinediario, 22’ 8 mm bn 18 fts muto
Macrozoom, (luglio) 3’41″ 16 mm colore 24 fts muto
Water-Closet ovvero attesa ad una defecazione, (agosto) 2’11″ 16mm bn 24 fts muto
Baraccone, (agosto, stesso giorno del film precedente) 3’30″ 16 mm bn 24 fts muto
Morte all’orecchio di Van Gogh, (agosto-settembre) 65’ (coda iniziale 21’; I tempo 22’; II tempo 23’) 8 mm c 24 fts sonoro su pista magnetica

1969.
Fractions of Temporary Periods (II parte): Due ore pomeridiane della bambina, (gennaio) 21’ 8 mm bn 18 fts sonoro su pista magnetica
Trasferimento di modulazione (febbraio) 9’ 16 mm panortocromatico 24 fts muto
Abbandonate ogni illusione, preparatevi alla lotta, (primavera) 40’ 16 mm bn & c 24 fts sonoro su pista ottica (scritto e diretto in collaborazione con Stefano Beccastrini e Marco Melani, prodotto dal PCI di San Giovanni Valdarno).
Nelda, (6 agosto) 3’ 16 mm bn 24 fts muto
Un ottofilm di Pierfrancesco Bargellini — prima parte di “La grande esibizione magica”, (agosto) 32’ 8 mm c 24 fts muto

1968-70.
Relazione filmata, 13’ 8 mm c 24 fts sonoro su pista magnetica

1970.
Zukie, (gennaio) 21’ 16 mm c 24 fts sonoro su pista ottica
Gasoline (marzo) 14’ 16 mm bn 24 fts muto
Bacino Casa del Lupo o Di Antonio, Massimo e Piero, 16’ 16 mm bn sonoro su pista ottica (in collaborazione con Massimo Bacigalupo e Tonino De Bernardi)
Erinnerung an die Zukunft, 16 mm bn & c sonoro su pista ottica (incompiuto)

1970-71.
Oracolo, 6’ 8 mm c muto

1971.
Due silenzi e un’armonica — seconda parte di “La grande esibizione magica”, (aprile) 30’ 8 mm bn & c 18 fts muto

1969-73.
Stricnina, 7’ 16 mm c 24 fts muto

1975.
Dove incominciano le gambe — terza parte di “La grande esibizione magica”, 30’ 8 mm c muto

CAPITOLO 3: Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso di Guido Lombardi e Anna Lajolo

3.1. — Analisi del film

Questo film è composto da tre parti che si alternano tra di loro secondo lo schema riportato nella parte terza. Bisogna premettere che, didascalie a parte (parte A), il film è composto solo da materiale già filmato, non dagli autori, e rielaborato.

La prima parte (A) è formata da didascalie che riportano per intero il capitolo LVIII del libro Il giuoco dell’oca di Edoardo Sanguineti:

“Si prende una ragazza, una qualunque, lì a caso. Si mette la ragazza, lì di fronte a noi, nuda, seduta sopra uno sgabello di legno, con la faccia tutta in ombra, le ginocchia in piena luce, le mani sui fianchi. Si tagliano i piedi. Si butta un resto di tempio ionico, lì sopra la ragazza, a colori, con tre colonne e un architrave, con il cielo azzurro e le nuvolette bianche. L’architrave va di storto, giù dalla spalla sinistra, sotto la mammella destra. Poi salta in là, all’altra del gomito, sopra il braccio destro. Poi si volta la ragazza di fianco, in piedi con le braccia in lato. Si taglia la testa. Si tagliano le braccia, lì in alto. Si tagliano le cosce. Si butta uno strumento a fiato, lì sopra la pelle, alla ragazza. Si butta, per esempio, un corno inglese. La pelle della ragazza, lì di fianco, è una radura nella boscaglia, con qualche raro ciuffo d’erba, con un corno inglese. Poi si fa di meglio. Si dice alla ragazza che deve girarsi tutta, lei, lì di schiena, in piedi. Si taglia tutto quello che c’è, dalle ginocchia in giù, di dietro. Si vedono tutti i capelli neri, così, alla ragazza. Si vede anche una sua treccia che pende, lì fino a mezza schiena, a lei, appunto. Si vede la sua mano destra che spunta lì da sinistra, lì dalla schiena, di lato, dall’avambraccio sinistro. Le sue unghie sono laccate di rosso, il suo anulare ha un anello, il suo pollice guarda in alto. Si butta una testa di donna che si affaccia da una tenda. La donna sposta la tenda con le mani, si fa avanti con la testa, con i capelli ricciuti, di rame. Poi la donna si tira indietro, la ragazza si chiude la sua schiena. Poi si dice alla ragazza che lei deve sedersi, ancora lì di schiena, lì per terra, con la testa piegata forte in avanti. Uno si corica sopra il pavimento, allora. Vede la schiena nuda, vede le gambe che spuntano appena, lì ai lati, che se ne vanno di là in prospettiva. Si buttano due che guardano il tramonto, un uomo e una donna, sulla riva del marre, voltati in là, verso il mare con il vento che soffia dentro i capelli della donna.”

Si tratta della descrizione di una seduta presso lo studio di un fotografo, che grazie al linguaggio crudo e immediato e all’ossessività nella descrizione dei particolari, sembra la descrizione del sezionamento operato, anche se da una macchina fotografica, sul corpo di una ragazza e della successiva ricomposizione secondo un’ottica artistica, aggiungendo particolari estranei come “un resto di tempio ionico”, “un corno inglese”, “due che guardano il tramonto”.

La seconda parte (B) è costituita da una serie di spezzoni del film Blow-up di Michelangelo Antonioni, nei quali si riconosce il volto del protagonista, il fotografo interpretato dall’attore David Hammings. Le sequenze non sono chiaramente visibili perché hanno subito una rielaborazione, che ci viene descritta da Guido Lombardi nella conversazione riportata nella parte terza (alla quale si rimanda per capire tutto il procedimento) e che ha fatto sì che ogni fotogramma della pellicola originale venisse diviso in quattro e, così frammentato, disperso nella sequenza.

La terza parte (C) è un filmino in 8 mm. che riprende una famiglia durante il pranzo di Natale. Vengono inquadrati i partecipanti e la stanza, soffermandosi sul presepio. Si tratta di un filmino familiare sottratto (anche per questo si rimanda alla conversazione citata) da Guido Lombardi in un studio fotografico. Non conosciamo quindi la sua provenienza e le persone che vi compaiono sono assolutamente sconosciute.

Le tre sequenze vengono montate tra loro secondo un principio di alternanza e di durata casuale.

Questa struttura estremamente semplice nasconde un significato molto più complesso, che a me sembra possa identificarsi con la riflessione teorica degli autori sul cinema e sul loro modo di esprimersi.

3.2. — Collocazione di questo film nell’opera degli autori

Il film è tra i meno conosciuti della filmografia degli autori, ma rappresenta un momento importante nella loro storia artistica, si pone, infatti, come confine tra due momenti artistici.

La loro formazione culturale ci viene raccontata come un viaggio, nell’intervento a due voci Svanì il jazz e apparvero i porno-maoisti pubblicato nel volume Tuoni prima del maggio.

Una storia fatta di viaggi, alla ricerca di un mondo delle immagini che potesse avvicinare al cinema, che veniva visto come un traguardo irraggiungibile dalla provincia di Genova (dove viveva Guido) o da Torino (la città di Anna), da dove “Roma era più lontana di New York.”. Guido ha vissuto un anno a Chicago spostandosi spesso per gli Stati Uniti, un’esperienza questa che lo ha anche aiutato a maturare una certa sensibilità per le immagini:

“Un anno negli Stati Uniti, agli inizi dei sessanta, mi ha fatto scoprire che bastava guardare le cose, persone, realtà in un certo modo, staccarle ritagliarle del tutto per trasformale in un infinito campionario di immagini. L’America, da una città all’altra, da costa a costa, appariva ai miei occhi come un set continuo.”

Si è nutrito di musica jazz, della letteratura della beat generation, dei grandi film della storia del cinema.

Dopo l’America Roma sembra essere più vicina, così Guido si trasferisce nella capitale, frequenta un corso di cinematografia e conosce Anna. Anna viene da Torino e, dopo aver lavorato per cinque anni alla Fiat (esperienza inevitabile), diventa collaboratrice dell’Unità per la cronaca cinematografica.

La loro avventura cinematografica inizia nel 1967 quando partono per il Messico. Qui realizzano tre documentari socio antropologici prodotti da Gian Vittorio Baldi, I Tarahumara, Viva Francia e viva Messico, Città Felice.

La prima tappa del loro percorso artistico, insieme a questa esperienza di esploratori, è segnata dalla sperimentazione linguistica, dalla ricerca di possibilità di un linguaggio cinematografico fuori dalle connotazioni del cinema commerciale ed autoriale. Fanno parte di questo momento i film realizzati nel 1968: Tigullio unito, A Corpo, Sviluppo n. 2, Luxor Garden. Qui ritroviamo una pressante esigenza di sperimentazione linguistica che si traduce in una ricognizione sulle possibilità del mezzo espressivo e, anche, nell’intervento tecnico sulla pellicola. Sviluppo n. 2 in particolare è un film completamente astratto, dove le forme della realtà si confondono nella loro essenza di luce e di sfumature nel “grigio”. A corpo è un film dedicato al corpo e ad immagini rituali ad esso connesse: vi sono inserite anche immagini di corpi dilaniati dalla guerra riprese da riviste del tempo. Il film termina con l’immagine della bandiera americana che brucia sull’asfalto davanti all’ambasciata americana in Via Veneto a Roma. Si tratta chiaramente di una manifestazione di protesta politica e si inserisce bene nel clima culturale di contestazione di quegli anni. Questa scena è stata realizzata nella clandestinità, nel senso che stendere una bandiera e dargli fuoco nel pieno centro di Roma non è che sia cosa che si possa fare in tutta tranquillità, è stata improvvisata sul momento, cercando di cogliere di sorpresa le forze dell’ordine. Questa modalità richiama la componente della casualità, e la stessa casualità ha regolato l’inserimento del filmino familiare in Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, che come ha raccontato Guido Lombardi (vedi intervista) è stato rubato dallo studio di un fotografo. Oltre all’elemento di trasgressione nelle modalità di realizzazione, i due film hanno in comune il tema del corpo, centrale dal punto di vista contenutistico, nel primo, mentre in Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, è riferito allo smembramento operato dal fotografo nelle pagine del romanzo di Sanguineti.

Il secondo momento del loro percorso artistico vede spostare il loro interesse sull’ambiente che li circonda, sulla componente umana e sul tessuto sociale. Il desiderio di incidere la realtà attraverso il mezzo cinematografico diventa sempre più forte. D’altronde non sono i soli ad aver avuto questa svolta nel loro percorso artistico, vedremo più avanti come anche Alfredo Leonardi ha seguito la stessa strada, proprio perché in quegli anni il cinema indipendente aveva quell’elasticità indispensabile a diventare strumento della “controinformazione” al servizio delle classi sociali più deboli, il proletariato, e si faceva portatore di una funzione meramente sociale.

L’interesse nei confronti dell’aspetto umano della realtà che li circonda è già presente, anche se non palesemente, in Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, anzi è proprio oggetto di questa analisi dimostrare come questo film se nella forma appartiene alla prima fase del percorso artistico dei due autori, quella più sperimentale, nei contenuti anticipa la seconda, quella che ha poi caratterizzato tutti i loro film successivi.

Il passaggio a questa seconda fase è avvento come una presa di coscienza degli autori stessi, che lo inaugurano girando una serie di film programmaticamente intitolati con le lettere dell’alfabeto: A, B, C — La casa del fuoco, D — Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini del nascente mondo o che avessero temperatura diversa, & — Là il cielo e la terra si univano, là le quattro stagioni si ricongiungevano, là il vento e la pioggia si incontravano. Un’evoluzione cosciente e programmata nella sua continuità.

Tra questi film C e D hanno segnato particolarmente la filmografia dei due autori, e come sarà detto in seguito hanno offerto il pretesto a Guido Lombardi per dichiarazioni teoriche sul cinema, sulla realtà e sul modo di presentarla al pubblico. Sono comunque i due film che hanno girato di più tra i festival e sono quindi i più conosciuti. C — La casa del fuoco è il ritratto di Michele Volpi il posteggiatore abusivo di Via Appia Nuova, un ritratto che, partendo da uno stile realista, si abbandona poi alla visionarietà di una immagine-sogno, quella di un banchetto opulento al quale viene invitato a partecipare il nostro personaggio. Il tutto con la voce fuori campo che legge brani del Regolamento per gli operai e persone di servizio del 23 gennaio 1829 del regno Sardo-piemontese. Naturalmente la storia non è quella del personaggio-individuo, ma esso diventa rappresentante-allegoria della categoria dei lavoratori, ai quali viene offerto sotto forma di evento eccezionale quello che invece spetterebbe loro di diritto.

In D — Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini del nascente mondo o che avessero temperatura diversa, viene rappresentato il mondo contadino, nel suo duplice aspetto di mondo reale e irreale, dove il contadino Sebastiano parla, sullo sfondo dei campi, del suo lavoro e di una realtà disgregata dal processo di urbanizzazione, ma allo stesso tempo recita i versi del primo e secondo libro delle Georgiche di Virgilio. Mentre sulle immagini di un interno borghese una voce fuori campo legge il saggio di Peter Schneider Immaginazione artistica nel tardo capitalismo e rivoluzione culturale.

3.3 — Il passaggio al video e l’esperienza di Videobase

A questo punto il passaggio al video è praticamente automatico. La diffusione di questo nuovo mezzo coincise con l’esigenza di utilizzare strumenti più maneggevoli ed economici rispetto alla macchina da presa e alla pellicola.

Guido Lombardi ed Anna Lajolo hanno conosciuto Alfredo Leonardi durante il periodo di attività della Cooperativa del Cinema Indipendente, un’esperienza che però non aveva dato spazio al desiderio di proiettarsi nella realtà sociale. Sarà proprio in Leonardi che troveranno un valido compagno con cui condividere questa esigenza. Infatti ricorda Guido Lombardi:

“Nella Cooperativa del Cinema Indipendente, che raggruppava i filmakers di allora, il sorgere di preoccupazioni politiche non era visto di buon occhio. D’altra parte politicizzarsi non significava, per me, fare necessariamente dell’ideologia, ma prendere atto dell’esistenza di una realtà esterna. Per la maggior parte degli autori underground di allora l’unica realtà era invece quella interiore.”

Il cinema si apre alla realtà, alla gente, da cinema sperimentale diventa cinema popolare, al servizio del popolo. La politica si apre, quindi, come strada per chi vuole affacciarsi nel mondo circostante e intervenirvi in qualche modo, dando voce a quegli strati sociali della popolazione che non hanno spazi a disposizione per esprimere i propri problemi, il proprio disagio.

“Essere di parte. Era per noi una scelta di campo, un modo di porsi a contatto con una realtà senza stravolgerla, definita da fisionomie oggi appannate, proletariato e sottoproletariato. Si correva il rischio della faziosità, ma tutto a carte scoperte. Di fronte a una televisione pubblica e in seguito commerciale che si travestiva e si traveste comunque di imparzialità.”

Questo impegno politico si traduce nella costituzione nel 1971 del gruppo a tre chiamato Videobase, dove la funzione di monitoraggio della realtà assume quella funzione propria dei circuiti alternativi che veniva chiamata “controinformazione”, e che poi si inseriva nel contesto delle lotte dei collettivi di base. I lavori venivano commissionati e talvolta finanziati dagli stessi collettivi oppure dai Servizi Sperimentali della RAI.

Come ha tenuto più volte a precisare Anna Lajolo durante la conversazione avuta recentemente (riportata nella parte terza) questo passaggio dalla sperimentazione linguistica all’interesse politico-sociale presuppone un altro tipo di sperimentazione, questa volta nelle modalità di realizzazione. Il video permetteva un approccio più diretto con la gente che si andava a riprendere, e soprattutto si stava sullo stesso piano, proprio in senso sociale, non c’era prevaricazione di chi riprendeva sui soggetti che venivano ripresi. Questo timore della prevaricazione trova conferma nel rifiuto del punto di vista autoriale, del sistema che regola la creazione artistica e la sua diffusione. Parlando del film E nua ca simu a forza du mundu in un’intervista pubblicata su Filmcritica, Anna Lajolo dice:

“Questo film sarebbe stato molto diverso se fosse il risultato del lavoro di un singolo regista che fa, crediamo inevitabilmente, il suo discorso di autore, anche se connotato politicamente. Noi abbiamo rifiutato questo atteggiamento che difende l’individualismo e conserva un mito tipico del cinema, e intendiamo continuare a lavorare in questo modo collettivo.”

Il discorso sul lavoro collettivo che trova terreno fertile all’interno del ristretto gruppo di Videobase non è stato possibile all’interno di una organizzazione come quella della Cooperativa del Cinema Indipendente. Ritroviamo nelle parole di Anna Lajolo un’ennesima conferma di come, all’interno di questa organizzazione nata per agevolare la diffusione del cinema indipendente, i componenti non abbiano trovato occasione di coesione artistica.

“… Però a questo punto mi accorgo che continuando questo discorso su che cosa è stata e che cosa è la Cooperativa Cinema Indipendente farebbe sì che noi non si parli più come un gruppo che ha lavorato insieme, bisognerebbe allora fare un discorso individuale e personale per quello che riguarda i nostri problemi privati insomma i nostri lavori precedenti, e non so se a voi interessa e a noi interessa, perché sarebbe di nuovo un’altra contraddizione, cioè verremmo di nuovo a parlare di ognuno di noi uno per volta, che forse sarebbe bene evitare perché se no non si fa un passo avanti…”

All’interno della Cooperativa quindi non aveva senso parlare di lavoro collettivo, sembrerebbe in nessun ambito, e i singoli autori sono costretti a ribadire la loro individualità, i loro percorsi artistici personali.

3.4. — Riferimenti culturali

Come appare evidente i film dei due autori hanno una matrice teorica ed ideologica molto forte, che è preponderante rispetto alla tendenza di sperimentazione tecnica e di visionarietà comune ad altri registi dell’underground. La loro poetica si trova ben inserita nell’ambiente culturale italiano degli anni ’50 e ’60, tanto che una rapida panoramica in questo ambiente ci fa ritrovare nelle teorie del Gruppo 63, per quanto riguarda la letteratura, e nell’opera di Michelangelo Antonioni, per quanto riguarda il cinema, molti punti in comune non solo con la loro opera in generale, ma proprio con il film Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, oggetto di questa analisi.

Il problema del rapporto tra l’autore e la realtà, che ha interessato Anna Lajolo e come si vedrà in seguito è stato trattato anche da Guido Lombardi in alcuni suoi saggi, è anche il nodo centrale di tutto il dibattito che si è creato dagli anni ’50 ai primi anni ’60 intorno ai movimenti di neo avanguardia nell’ambiente culturale italiano, un aspetto questo che ho già trattato nella prima parte. Soprattutto le teorie che riguardano il romanzo sperimentale hanno molti punti di contatto con il cinema di Guido Lombardi e Anna Lajolo e, considerando anche il diretto collegamento che hanno essi stessi creato tra il loro film e il romanzo di Sanguineti Il giuoco dell’oca, è possibile rintracciare un comune atteggiamento nel trattamento della realtà nell’opera e nella trasfigurazione di questa realtà in una dimensione mitica.

Edoardo Sanguineti nel suo saggio Il trattamento del materiale verbale nei testi narrativi della nuova avanguardia parla proprio delle possibilità che ha l’autore che si appresta a scrivere un romanzo, cioè che si dedica all’attività del narrare. L’oggetto della narrazione può essere trattato come irreale, arrivando a cogliere la “dimensione non verbale delle cose”, quella originaria, e riconducendo quindi l’oggetto a pensieri e parole, secondo un processo che vuole proporre, ad esempio, i pensieri del protagonista (in questo caso l’”io narrante” proposto come quello del personaggio), come fossero quelli dell’autore, il quale, a sua volta, nasconde la propria identità dietro quella del personaggio. Questa fusione di identità enuncianti comporta che la realtà (in questo caso identificata nel pensiero) non può essere provata concretamente ed assume quindi la qualità di irrealtà.

Una seconda soluzione è quella di narrare il fatto nelle sue possibilità, questo presuppone il vedere un’azione o un accadimento come una sola delle possibili azioni o dei possibili accadimenti.

Tra i due estremi dell’irreale nella sua totale mancanza di realtà e di possibilità nella sua saturazione di più realtà, si colloca il desiderio di un autore di voler narrare la realtà e di cercare un espediente per sanare questa difficoltà. Sanguineti propone come soluzione quella della fabula, l’unico modello di narrazione che riesca a coniugare il vero e il falso, ed in particolare quella fabula che è calata nella dimensione del sogno. La fabula onirica non conosce il problema del contrasto tra vero e falso e “può tentare, quando lo voglia, di risalire verso un’esatta percezione narrativa, ritentando à rebours la filogenesi del romanzo, e procedendo dal sogno alla fiaba, e dalla fiaba al mito.”

Questo percorso a ritroso a tappe, che porta direttamente dal romanzo al mito, trova origine negli studi filosofici che hanno cercato di coniugare il mito con la storia. Bachofen, con i suoi studi sui simboli presenti nei reperti archeologici, rintraccia in questi simboli l’unione del sacro e della storia nel mito; il mito, a sua volta, contiene in sé dei simboli che vanno ad identificare l’aspetto trascendente della storia. A questa teoria si ricollega Eliade che definisce i miti come “ierofanie”, ossia rivelazioni del sacro, e in esse riconosce le manifestazioni della realtà che ritornano nella storia nella loro forma archetipica. L’archetipo è una realtà che sfugge di per sé alla comprensione umana e l’uomo vi può arrivare solo attraverso il mito: “Esso è rifugio profondo, la stanza segreta, ove lo spirito attinge la propria realtà e conosce le forme perenni capaci di armonia tra oggettivo e soggettivo.”

È a questa profonda verità che vuole arrivare anche Sanguineti, rintracciando nel romanzo una forma di narrazione che, attraverso il sogno, riesce a raggiungere quella dimensione mitica che rende possibile riappropriarsi dei propri archetipi, quindi della realtà nella sua più profonda dimensione umana.

Nei suoi romanzi i materiali narrativi vengono smembrati in singoli elementi che però tra di loro non si collegano in maniera logica, ma secondo il totale disconoscimento delle regole narrative spazio-temporali, attuando di conseguenza lo “svuotamento semantico” della parola, e soprattutto la sua connotazione ideologica. Nel primo romanzo Capriccio Italiano gli elementi sono costituiti da 111 tessere o carte da gioco che individuano personaggi e situazioni reali ma poi, partendo da uno spunto autobiografico, si snodano come in un sogno, e l’immersione in questo sogno per Sanguineti “diventa la via per la conquista della luce della coscienza, della vita.”

Ne Il giuoco dell’oca viene riproposta la stessa struttura, si ripete la divisione in CXI capitoli, che qui vanno ad identificare le caselle del percorso del gioco, e dove ognuna contiene al suo interno una immagine della realtà. Il percorso da una casella all’altra è idealmente affidato alle regole del gioco, alla casualità di un lancio di dadi. La realtà della società capitalistica ci viene riproposta nella sua impossibilità di unità mitica.

“Il romanzo, nell’impossibilità di ordinare e classificare un reale esterno alla scrittura, si limita alla citazione caotica e sgangherata di segni, immagini sbiadite e atonali di realtà inafferrabili che si sovrappongono, si incrociano e, infine, si sfumano in un ritmo accelerato.”

3.5. — Scritti teorici di Guido Lombardi

Considerata l’idea presente dietro alle opera di avanguardia del Gruppo 63, e più in particolare in quelle di Edoardo Sanguineti, si vedrà come la stessa tensione teorica è presente anche nell’opera di Guido Lombardi e Anna Lajolo, soprattutto attraverso la lettura dei saggi pubblicati da Guido Lombardi su riviste di cinema nel periodo tra fine anni ’60 e metà anni ‘70.

Si tratta di una riflessione sul modo di porsi come autore nei confronti della realtà, ma soprattutto di come il cinema può penetrare il mondo, la realtà, l’uomo e rappresentarli. Una riflessione basata sulla critica di un certo modo superficiale di fare cinema e sulla consapevolezza dei mezzi che il cinema ha per rinnovarsi.

Gli interventi di Guido Lombardi riguardano un nuovo modo di intendere il cinema, e di come questo nuovo cinema interagisca con la realtà in generale e con la dimensione umana in particolare.

La macchina da presa non è un filtro o uno specchio, ma stabilisce un nuovo rapporto con l’entità umana. Il ricorso al mito di Narciso serve a spiegare proprio questo rapporto che ora si deve rinnovare, ma che nell’antichità era già presente e risolto proprio nelle figure mitiche. Narciso per l’appunto è il mito che contiene in sé la duplicità tra soggetto, Narciso stesso, e l’oggetto, la sua immagine riflessa nell’acqua. è chiaro che per l’uomo moderno non è più possibile l’identificazione con il mito, se non come mezzo per una ricerca dell’origine. Infatti la società moderna ha banalizzato l’immagine mitica, o più precisamente, come scrive Lombardi:

“Nel momento in cui la mitologia dell’immagine è giunta alla banalizzazione perdendo la stupefazione dell’acqua e i misteri della pazzia speculare, è possibile materializzarsi davanti alla macchina da presa, autodichiararsi come essere umano in quell’essenza generica sua propria che caratterizza qualsiasi manifestazione diretta di sé.”

Di fronte alla perdita di questa possibilità del mito di rappresentare senza scissione la soggettività e l’oggettività, l’uomo moderno si trova davanti a due alternative: l’autorappresentazione o l’autodissolvimento, dando in questo modo una inclinazione nichilista alla riflessione. Comunque il giusto equilibrio che deve trovare il cinema nei confronti della realtà si trova tra i due opposti che vanno a limitare il campo di riflessione: “A due estremi stanno chi si autofilma identico e descrive la propria identità e chi proietta nel nero dell’aria grandi visioni di luce materializzata.”

L’autofilmarsi identico è un po’ come dare una “visione immediata”, ma siccome “il mito speculare della visione e della lettura immediata impedisce di conoscere” rappresenta non solo un approccio di tipo naturalistico, che offre una visione assolutamente oggettiva e per questo limitata e limitante per lo spettatore, ma la visione immediata rappresenta anche la falsa apparenza, ossia la strumentalizzazione del mito da parte della società moderna (chiaramente ci si riferisce alla società capitalistica) che lo trasforma in feticcio.

L’altra tendenza rappresenta quella della visione assolutamente soggettiva, dove la preoccupazione maggiore dell’autore è quella di presentare il suo punto di vista, con il suo modo di vedere la realtà, che è poi il suo linguaggio. Questa predisposizione per il linguaggio provoca di conseguenza la totale perdita di significato dell’oggetto. Non c’è più possibilità di riconoscere il riferimento alla realtà. Il rischio è di realizzare dei film tecnologici “la cui immaginazione è la completa perdita della stessa in quanto è assorbita da un mito strutturale sottostante automatico.”

Nel momento in cui la visione cinematografica rimanda un’immagine, questa non deve essere quindi la visione oggettiva della realtà in quanto quello che si aspetta da un film sperimentale non è certo una visione immediata. Neanche però una perdita assoluta di significato o una sostituzione della tecnica al significato.

Tra i due opposti si colloca il cinema dell’immaginario, che è anche quello capace di rendere figure mitiche, dove si perde il punto di vista dell’autore in favore della visione “mitica” dello spettatore.

L’immaginario cinematografico si realizza nel momento in cui il film penetra la realtà creando quello squilibrio necessario a mettere in crisi le oggettivazioni.

In un altro saggio risultano più chiare le riflessioni sul rapporto tra cinema e realtà e soprattutto sulla genesi dell’immaginario. Infatti ne Lo spazio inosservato Guido Lombardi dice: “Fare cinema consiste, a quel punto, nel definire le idee sull’uomo e non sull’estetica. Come modo di vedere che si attua in forme molto più oggettive di qualsiasi altra arte.”

Ed ancora:

“Come trasformazioni della realtà in immagini e delle immagini in realtà, il cinema “inizia” da una cosa vista, guardata semplicemente per vedere, ma che contiene in sé la possibilità di una trasformazione, di un’altra esistenza nella vitalità dell’immaginazione che continua la realtà.”

La funzione del cinema nei confronti della realtà è quella quindi di creare una particolare vitalità, che scaturisce dalla realtà solo nel momento in cui si impara a fare esperienza di quegli stralci di realtà che si collocano nello spazio inosservato (come dice appunto il titolo del saggio). Lo spazio inosservato è dato dagli interstizi che si trovano tra le righe di quello che viene normalmente narrato o rappresentato, “è la composizione di immagini mancanti, inesistenti, alcune brevi parti mancanti dell’esistenza” che vanno a costruire una realtà che potrebbe definirsi proprio viva, pulsante, lontana comunque da qualsiasi rappresentazione stereotipata.

Il cinema realizza quindi una visione della realtà non oggettiva ed unica, ma da un oggetto reale, preso come referente, il cinema può costruire più realtà, anzi le inventa. Attraverso di esso ecco che diventa possibile passare dalla osservazione della realtà, alla sua invenzione e quindi anche alla sua immaginazione. L’immaginario non è quindi qualcosa che si trova lontano dal mondo reale, ma semplicemente un modo di vederlo e, soprattutto, di conoscerlo. “L’immaginazione oltre che duplicazione è rivendicazione, trova al momento le parti mancanti alla realtà, ne fa una visione.”

La svolta ideologica che Lombardi dà a tutta la sua teoria sta sia, come abbiamo già accennato, nella critica della società capitalistica o borghese, che ha privato di significato l’immagine mitica e che ha, per usare una sua bellissima definizione, perso “la stupefazione dell’acqua”, sia nel ridare quello spazio, che lui definisce “inosservato”, a coloro i quali se lo sono visto sottrarre dalla classe borghese, cioè alle masse.

“Solo un cinema popolare può pensare a realizzare questa sostituzione e ricomposizione dello spazio. Realizzare la totalità e estinguere la rappresentazione. Solo una cinematografia che procede in un processo concreto, una tecnica che, analizzandole, trasformi le sue componenti materiali, potrà costruire altre immagini, altri suoni e sostituire il “paesaggio”, la realtà politica.”

Questo concetto presuppone quindi un uso particolare della macchina da presa che non è falsamente neutrale come nel cinema borghese. Solo lo sfruttato può raggiungere questo nuovo rapporto con la macchina da presa, perché egli non deve fingersi, non deve rappresentarsi, ma attraverso di essa può smaterializzarsi per riapparire nella sua globalità.

Dal colloquio avuto con gli autori (inserito nella terza parte, a cui si rimanda) tra le altre cose è emerso l’autoriconoscimento (anche se non sempre cosciente) alla loro predisposizione ad affrontare quelle realtà che avessero la caratteristica di microcosmi, da poter leggere ed interpretare sia come metafore della realtà più complessa, sia come soluzioni per lenire quella sofferenza derivante dalla apparente inconciliabilità tra la realtà e la poesia, tra il desiderio di denunciare la realtà e quello di esprimere il sentimento poetico.

Come ha chiaramente dichiarato Guido Lombardi:

“… siamo attratti dal leggendario, dalla dimensione leggendaria, nel senso che malgrado noi ci siamo sempre buttati nella realtà, cinema-verità, antropologia culturale, abbiamo bisogno della gente. Però in fondo, come questi scritti fanno capire, c’è una specie di sofferenza, la necessità di mettere qualcosa di più che non sia solo la mera realtà, quello che vedi, quello che accade. Il mito e la leggenda durano nel tempo, mentre la realtà non dura niente, nell’attimo successivo è già passata. Invece il mito e la leggenda, anche se poi non sono neanche tanto ben visti dal razionalismo di sinistra, però la riscopriamo sempre perché altrimenti non ci sarebbe niente da ricordare, niente che ti spinge, ti emoziona che ti fa pensare all’utopia, al sogno.”

Il film Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso rappresenta quindi un punto di svolta, ma anche un momento ambiguo, dove le tensioni tra il desiderio di sperimentare sulle immagini per provare le possibilità del mezzo cinematografico, e la sperimentazione sull’osservazione della realtà umana per cercare di estrarre da essa il senso più profondo, raggiungono il massimo livello.

3.5. — Filmografia degli autori

1967.
 I Tarahumara, 15’ 16 mm. (con Caroline Laure e Franco Lecca)
Xochimilco, 15’ 16 mm. (con Caroline Laure e Franco Lecca)
Città Felice, 15’ 16 mm. (con Caroline Laure e Franco Lecca)
Viva Francia viva Messico, 15’ 16 mm. (con Caroline Laure e Franco Lecca)

1968.
Tigullio unito, 30’ 16 mm. bn
A Corpo, 14’ 8 mm c muto (GL)
Sviluppo n. 2, 20’ 8 mm bn muto(GL)
Luxor Garden, 50’ 8 mm bn sonoro su pista magnetica (GL)

1969.
Si prenda una ragazza, una qualunque, lì a caso, 12’ 16 mm bn muto (GL)
A, 3’ 16 mm c muto
B, 10’ 16 mm bn muto
C — La casa del fuoco, 25’ 16 mm bn sonoro su pista ottica

1970.
D — Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini del nascente mondo o che avessero temperatura diversa, 40’ 16 mm bn sonoro su pista ottica
Vogliamo una casa subito, 40’ 16 mm. (con Alfredo Leonardi e Paola Scarnati)
La casa è un diritto non un privilegio, 15’ 16 mm. (con Alfredo Leonardi e Paola Scarnati)

1971.
E nua ca simu a forza du mundu, 65’ 16 mm bn (con Alfredo Leonardi) per la RAI
Loro dicono che fumo non ne fanno, 13’ (con Alfredo Leonardi)

1972.
Valpreda è innocente, la strage è di stato, video, ¼ pollice, 50’
Il fitto dei padroni non lo paghiamo più, 35’, video (Videobase)
La nostra lotta è l’autoriduzione, la nostra forza è l’organizzazione, 15’, video
Sotto le stelle, sotto il tendone, 70’ video (con Alfredo Leonardi) per la RAI
& — Là il cielo e la terra si univano, là le quattro stagioni si ricongiungevano, là il vento e la pioggia si incontravano, 75’ 16 mm bn

1973.
Materiali Teatro-Scuola, 50’ video
Carcere in Italia, 60’ video (Videobase)
Quartieri popolari di Roma, 50’ video (Videobase)
Policlinico in lotta, 60’ video (Videobase)

1974.
Lotta di classe alla Fiat, 75’ video (Videobase)
Omsa sud, dopo un anno di lotta, 50’ video (Videobase)

1975.
Lottando la vita, 104’ video (Videobase)
I blues cronache del sentimento politico, 70’

1976.
Materiali lotta per la scuola della Magliana, video su 2 bobine ½ pollice (mai montato)

1974-77.
L’isola dell’isola, 85’ video (con Alfredo Leonardi) per la RAI

1979.
Il lavoro contro la vita, due puntate 49’ e 58’ video (con Alfredo Leonardi) per la RAI
I tabarchini, 30’ 16 mm. per la RAI
La casa dei lupi di mare, 30’ video per la RAI

1980.
Genova capitale dell’energia, 30’ 16 mm. per la RAI
Alla ricerca di Cereghino cantastorie girovaghi, 30’ 16 mm. per la RAI
Una valle campione, la Fontanabuona, due per 30’ 16 mm. per la RAI
L’ultima ondata su Ventimiglia, 30’ video per la RAI
Sestri Ponente, 30’ video per la RAI
Il giro del vento, 30’ video per la RAI

1981.
Prisli musica dalle rovine, 30’ video per la RAI
La volpe dagli occhi bianchi, 30’ video per la RAI
Portofino un parco in fondo al mare, 30’ video per la RAI
La Val Graveglia e il prof. Plomteux, 30’ video per la RAI
Concerto per la terra l’albero il torrente, due per 30’ video per la RAI
Due amici e un cane sulle colline dei ravioli, 30’ video per la RAI

1983.
Serie “Storie scritte su foglie di basilico”, otto puntate per la RAI:
La sedia più leggera del mondo, 30’ video
Un mestiere per il mare, due per 30’ video
Orchidea, 30’ video
Due amici e un cane nel mare della buridda, 30’ video
La ballata della miniera, 30’ video
Un messaggio dal ghiacciaio, due per 30’ video

1985.
Per la serie “I misteri della provincia”, otto puntate per la RAI:
Il denaro, 30’ video
L’emigrazione, 30’ video
Il lavoro, 30’ video
Il turismo, 30’ video
Il divertimento, 30’ video
L’amore, 30’ video
I miti, 30’ video
I personaggi: poeti e filosofi, 30’ video
Un treno nel cuore del sud, due puntate 63’ e 55’

1986.
Silenzio … si sogna, due per 55’ video per la RAI

1987.
Dietro l’iride, 17’17″ video (con Gianfranco Barracello)

1988.
Per una sana alimentazione, cinque puntate per 30’ video per la RAI
Acrobata clandestino, 15’ video

1989.
Il cinema è una bomba “Da Ferrania a Cinecittà”, 50’ video per la RAI
Fraintesi dall’incantevole, 11’30″ video (con Gianfranco Baruchello)

1990.
Quando il giallo si dissolve, 14’30″ video (con Gianfranco Baruchello)
Un lieve rossore nel tempo, 13’5″ video (con Gianfranco Baruchello)
Quell’episodio dell’immaginazione che chiamiamo la realtà, 12’24″ video (con Gianfranco Baruchello)

1991.
68-91, 11’12″ video (con Gianfranco Baruchello)

1992.
Tristan da Cunha. L’isola in capo al mondo, 45’ video per la RAI
South Atlantic, 11’20″ video per la RAI

1994.
L’isola di Robinson Crusoe, 26’ video per la RAI
I Picaflorese di Juan Fernandez, 26’ video per la RAI

1995.
Fernando de Noronha. Tartarughe in corsa, 26’ video per la RAI
Fernando de Noronha. Un parco a numero chiuso, 26’ v. per la RAI

1996.
L’isola degli ammutinati del Bounty, 25’ video per la RAI
Pitcairn e Oeno isole dei mari del sud, 25’ video per la RAI

Anna Lajolo e Guido Lombardi dal 1982 realizzano i video della compagnia teatrale “Zattera di Babele”.

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