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Cinema

Alexandro Jodorowsky tra cinema e fumetto

Il regista Jodorowsky

Premesso che, essendo l’artista eclettico di cui sopra, Jodorowsky si è occupato anche di letteratura, musica, arti figurative e teatro(1), l’ambito che per il momento ci interessa è quello cinematografico. Dopo aver applicato il non-metodo della sua filosofia pànica (in onore del dio Pan) al teatro, Jodorowsky vive tra gli anni ’60 e ’70 un’intensa relazione col mondo del cinema. Nel 1968 confeziona una versione cinematografica della pièce teatrale Fando y Lis di Fernando Arrabal, che collabora alla stesura della sceneggiatura. Il Paese Incantato (questo il titolo con cui l’opera fu distribuita in Italia) viene presentato al Festival del Cinema di Acapulco destando un forte scandalo tutto sommato comprensibile ancor oggi(2): non sono tanto i temi o le immagini (tra cui comunque non mancano scene di sadismo, pedofilia e quant’altro) a mettere a disagio, quanto la sfibrante struttura del film, che procede a rilento tra flashback, recuperi di situazioni concettualmente analoghe e sequenze talmente sature da risultare indecifrabili. Anche il terribile finale necrofilo, pur con il consolatorio happy end ultraterreno, deve aver avuto il suo peso sull’impressione del pubblico. Pur non essendo del tutto suo (partiva, come ricordato, da un’idea di Arrabal), Il Paese Incantato presentava già nelle caratteristiche sopra elencate le costanti principali della produzione cinematografica di Jodorowsky. Va precisato che questa produzione “di” Jodorowsky è tutto sommato solo quella dei primi tre film, poiché i successivi tre sarebbero nati non da una sua profonda esigenza ma dall’interesse di produttori affascinati dall’”artisticità” che la mano di Jodorowsky avrebbe dovuto garantire anche se applicata a soggetti altrui. Dunque, solamente i successivi El Topo (1970) e la Montagna Sacra (1973) sono creazioni interamente attribuibili al regista cileno, che di essi è anche attore protagonista, sarto, coreografo e coautore della colonna sonora.

Sicuramente tra le prime caratteristiche a denunciare la paternità artistica di Jodorowsky è l’apparente esilità o inconcludenza delle trame. Le vicende raccontate nei film sembrano infatti avere varie “false partenze” prima di entrare nel nucleo centrale della storia, che peraltro è piuttosto labile e sfuggente ad una prima visione. Il punto è che le sue opere non sono altro che la riproposta quasi ossessiva di un’unica struttura assurta a livello d’ideologia: il viaggio iniziatico. Le immagini sembrano sfilacciate o addirittura scollegate in quanto rispondono ad una logica formale talmente sequenziale da apparire inesistente. Come nel corso di un’iniziazione esoterica, ciò che conta sono le singole tappe ed i passaggi fra l’una e l’altra sono compendiati sempre nella successiva, fino all’illuminazione finale(3). Strettamente applicato al cinema questo sistema porta all’accumulazione di “nodi diegetici” saturi di elementi simbolici, narrativi e iconografici ed all’eliminazione di ciò che in fondo è implicito e, palesato, distorcerebbe il flusso filmico banalizzandolo e togliendo la carica rivelatrice delle scene “forti”. Si può obiettare a questa tecnica (ignorandone i presupposti programmatico-ideologici) la mancanza di suspense o di quello stupore che (ad esempio) una processione di agnelli squartati avrebbe suscitato dopo una serie di sequenze piatte e “scolastiche”, ma invece proprio l’assenza di scene classiche di raccordo fa risaltare la singolarità di ogni elemento presentato. Il ridondante immaginario allegorico di Jodorowsky non accetta compromessi: poiché non è possibile cogliere sempre tutti gli elementi presentati ed ancor meno il significato ad essi attribuito, l’ermetismo indecifrabile di alcune immagini può generare solo frustrato disturbo o immediata fascinazione. Ma anche se ci sfuggono i rimandi ed il senso profondo di una data immagine (fermo restando che la storia viene comunque compresa nei suoi sviluppi) ci rimane pur sempre la bellezza delle inquadrature.Per cui i film di Jodorowsky non vengono imbastiti “a caso” con scene improvvisate ma sono il frutto di una normale costruzione diegetica, di un’erudita dimostrazione di cultura esoterica e di un ottimo “occhio” registico.

Un altro elemento caratteristico della produzione (non solo cinematografica) di Jodorowsky è l’”antimorale” che hanno le sue storie: i finali lasciano spesso l’amaro in bocca non tanto (o non solo) per la drammaticità della conclusione quanto per la sua ambiguità. Lo scopo dei personaggi non viene mai raggiunto pur nell’illusione di immaginarlo sempre più a portata di mano. Il crollo della grande illusione che ha mosso i protagonisti ed il suo ripercuotersi su diversi piani della realtà (anche lo spettatore rimane di sasso nell’apprendere che lo stupendo spettacolo delirante cui ha assistito è “solo” cinema) è l’involontario preludio al distacco che Jodorowsky prenderà dal mondo della celluloide, che ritornerà a frequentare a distanza di anni senza la stessa efficacia e, forse, la stessa convinzione. D’altronde, cosa può osare di più un avanguardista dell’autodistruzione sbeffeggiante della propria stessa poetica?Al suo primo apparire, il cinema di Jodorowsky destò un forte scandalo e, di conseguenza, un grande interesse da parte degli ambienti più vivaci dei primi anni ’70: giovani contestatori, artisti, intellettuali, personaggi quali John Lennon e Andy Warhol. El Topo fu addirittura il primo grande successo del Midnight Theater(4) e rimase in programma all’Elgin di New York con questa formula per oltre sei mesi. Eppure la critica, pur rilevando le potenzialità di questo nuovo regista, lo bollò sin dagli esordi come figlio degenere di un surrealismo buñueliano esasperato. Nella storia del cinema curata da Georges Sadoul(5) si legge: “Altre premesse sono ancora quelle di Alejandro Jodorowsky (con due discutibili film surrealizzanti, Fando y Lis e El Topo)”.
Gianni Rondolino rincara la dose con la sua Storia del Cinema, vol. 2 (UTET, 1976) ed afferma che “[l’influenza dei film di Buñuel] in certi casi appare diretta e non sempre positiva — si vedano soprattutto i film di Fernando Arrabal e quelli di Alejandro Jodorowsky”.

In seguito il fenomeno verrà molto ridimensionato ed i film visti con un certo distacco. In Cinema contemporaneo, Vincenzo Bassoli (a cura di), Lucarini Editore, Jodorowsky verrà semplicemente ignorato e non ne farà menzione né Alessandro Toni (curatore della parte dedicata a Il cinema dell’America Latina dal 1959 ad oggi) né Vittorio Boarini (La neoavanguardia cinematografica). Si guarda insomma a questo “geniaccio” come ad una figura marginale, inutilmente chiassosa e comunque ormai superata. Ecco una rapida carrellata di pareri pressochè unanimi:

Dizionario dei Film, Pino Farinotti (a cura di), Rusconi Editore, 1980 (da segnalare che il breve riassunto dei film non rispetta del tutto la loro trama):

A proposito di El Topo: “Questo lavoro diede a Jodorowsky una fama internazionale. è vero anche che il regista si vale di sequenze al limite dell’orrore per sostenere il suo discorso.”.

A proposito di La Montagna Sacra: “E’ un tipo di cinema surreale e tragicamente ironico. Il regista ha una simpatia esagerata per le scene violente.”.

Dizionario universale del Cinema, vol. 1, Fernaldo Di Gianmatteo (a cura di), Editori Riuniti, 1984: “The holy Mountain […] dà a Jodorowsky una certa notorietà. La critica, invece, resta più tiepida. Si considerano eccessivi i giochi di prestigio che escono dal cappello di J.: troppe cose, regista, attore, scenografo, musicista, per un uomo solo. La favola à vive di brutalità visive esposte sullo schermo senza ordine apparente, con improvvisazione a volte dilettantesca e una voluta (efficace in qualche momento) mancanza di coerenza logica che costituisce la molla di tutta l’operazione. Giullaresco nello sfruttamento di tutti i mezzi per stupire lo spettatore, J. Affronta a modo suo un discorso politico, senza avere mai il coraggio (o l’interesse) di essere più chiaro. Dunque, operazione scandalistica, sospesa a mezz’aria: irritante, confusa, rumorosa, insolita.”.

Dizionario dei Film 1999, Paolo Mereghetti (a cura di), Baldini & Castoldi, 1998:

Riguardo Il Paese Incantato: “Opera prima del regista, girata con povertà di mezzi ma ricchezza di ispirazione utopica e provocatoria. Comunque sconsigliabile a chi non apprezza i film troppo simbolici.”

Riguardo El Topo: “Cruento e stralunato, il film vuole applicare la vena surreale e mistica di Jodorowsky al filone western […] ma il delirio è troppo personale per coinvolgere lo spettatore.”

Riguardo La Montagna Sacra: “Orgia visiva rutilante, che trova nell’accumulo e nell’eccesso una sua paradossale coerenza. Cascami di surrealismo, esoterismo e controcultura anni Settanta vengono triturati in un caos magari irritante, ma mai più eguagliato.”.

L’epitaffio decisivo per il cinema di Jodorowsky si trova in Storia del Cinema, vol. 3*, Fofi-Morandini-Volpi, Garzanti,1988: “Con Alejandro Jodorowsky siamo poi di fronte al tipico artista maledetto di una società chiusa, che corteggia e provoca con la sua immaginazione lussureggiante da «pittore». […i suoi film…] sono le tappe della sua carriera di artista come narciso. Scene forti di sadismo, torture, mostri, animali esotici, riti cannibalici e necrofili sono nei suoi film, il sostrato a una ricerca mistica della perfezione, dell’alchimia, dell’immortalità, dell’estasi, cioè a un’ «illuminazione panteista» assai di moda negli USA. Questo intento di rito in forma di oltraggio porta più verso «cadaveri squisiti», fatti di scene e oggetti immaginifici e non utili, che non verso le potenzialità di distruzione della morale borghese che il surrealista Buñuel seppe calare in un contesto di sottosviluppo come quello messicano. E il suo esoterismo è ancora un gioco cosmopolita, alieno da ogni «risultato integrativo», se si vuole un nuovo gesto d’indipendenza.”.

Un passaggio forzato

1975: le opere di Jodorowsky fanno parlare di sé, lui ha di conseguenza il suo seguito e può quindi permettersi di fantasticare sui progetti futuri, tra i quali ne mette uno manifestatosi (dice lui) in sogno: la versione cinematografica del romanzo Dune di Frank Herbert(6). Com’è noto, il film verrà realizzato solo dieci anni dopo ma con un altro spirito, un altro regista (David Lynch) e con risultati nell’insieme piuttosto deludenti. Se con La Montagna Sacra Jodorowsky, tra le altre cose, era riuscito a mettere in ridicolo tutto il cinema (quindi anche il suo), con Dune il suo proposito sarebbe stato quello di parlare di redenzione universale, della venuta di un messia collettivo e totale. La scelta di trattare questo tema con uno stile artefatto, barocco e spettacolare si sposa perfettamente con la paradossale filosofia distruttiva che era alla base delle sue prime opere.

Dopo La Montagna Sacra si poteva dunque fare ancora qualcosa di nuovo e provocatorio (il finale previsto per Dune avrebbe in qualche modo sancito l’unione tra la realtà, ulteriormente “vera” in quanto penetrata dal messia, ed il cinema, “falso” ma padre di questo messia). E invece non si fece un bel niente. Il progetto fu boicottato da Hollywood(7) e Jodorowsky sarebbe tornato dietro la macchina da presa solo nel 1979, con un’opera su commissione, Tusk, di scarso valore (o almeno così dicono quelli che l’hanno vista. Comunque, il fatto che in Italia non fu nemmeno distribuita è indicativo al riguardo). Del progetto Dune non rimane però solo l’amaro in bocca: il team creativo voluto da Jodorowsky avrebbe portato nuova linfa vitale al cinema, in particolar modo a quello fantascientifico; basti pensare alla nuova visione dell’”alieno” proposta da  Hans Rudi Giger o al nuovo rigore narrativo (caratterizzato da un forte realismo) che permea le sceneggiature di Dan O’Bannon. Ma il risultato più significativo di questa esperienza sarà per Jodorowsky il riavvicinamento al mondo del fumetto, complice il visualizer di Dune, Jean Moebius Giraud.

Lo sceneggiatore Jodorowsky

Immagine articolo Fucine MuteAlexandro Jodorowsky ama i fumetti da sempre; pare sia stato uno dei più grandi collezionisti in America Latina. Prima ancora di lanciarsi nel cinema, si dedicò alle strisce ed alla letteratura disegnata. Su un quotidiano messicano pubblica le Fabulas Panicas, storie interamente realizzate da lui anche per la parte grafica, e con la collaborazione di Manuel Moro dà vita ad Annibal 5, una sorta di supereroe tecno-ecologico. Alcune della Fabulas Panicas sono giunte anche in Europa (pubblicate su qualche preistorico numero della rivista francese L’Echo des Savanes) mentre Annibal 5 non ha lasciato i confini nazionali (8).

L’attività cinematografica intrapresa alla fine degli anni ’60 lo allontanerà temporaneamente dal mondo del fumetto, cui farà però dei gustosi omaggi nei suoi film di cui il migliore è sicuramente il dissacrante Captain Captain against the Peruvian Monsters, supereroe “alla Kirby” utilizzato per fini propagandistici da Sel, una dei sette potenti della Montagna Sacra. La pausa forzata di Dune si rivela proficua per Jodorowsky in quanto conosce di persona il geniale Jean Moebius Giraud.
Nato nel 1938, Jean Giraud è una delle colonne portanti del fumetto mondiale e, se non proprio il padre, uno dei massimi esponenti del fumetto moderno e di quello postmoderno. Maestro indiscusso dell’espressività coniugata al realismo ed alla cura del dettaglio, è ancora oggi un esempio per un’infinità di esordienti e di colleghi. La sua opera più importante è la saga del tenente Blueberry, scritta inizialmente da Jean-Michel Charlier. Ma Giraud ha un alter ego: con lo pseudonimo di Moebius firma infatti prima delle storie umoristiche surreali e poi improbabili avventure fantascientifiche basate sulla pura astrazione. Su Giraud/Moebius è stato già detto tutto ed il contrario di tutto e non è il caso di soffermarci ad intraprendere un’analisi che, vista la sua sterminata produzione, sarebbe per forza di cose incompleta (oltre al fatto che la comprensione delle opere dell’ultimo Moebius necessita dell’adesione ad una certa filosofia di vita). Basti dire che, nel bene e nel male, egli è a tutt’oggi uno dei massimi Maestri del fumetto e l’influenza che ha avuto il suo immaginario si estende anche ad altri ambiti.

Jodorowsky e Moebius (questa la personalità di Giraud richiesta per Dune) si incontrano, come dicevamo, durante la preparazione del film. I compiti del disegnatore riguardano la visualizzazione dei personaggi e dei loro costumi e la realizzazione dello storyboard, cioè di quelle immagini che, vagamente simili proprio ad un fumetto, fanno da ponte tra la sceneggiatura scritta e la messa in scena. Già dal volume La Memoria del Futuro (Edizioni Orient Express, 1984) si capisce come questo lavoro sia poi servito da base per alcune immagini della futura saga dell’Incal. Il primo parto importante della coppia Jodorowsky-Moebius è la storia sperimentale Les Yeux du Chat, realizzata con una tecnica non nuovissima ma decisamente più funzionale di quanto si era dimostrata in precedenza. In una delle opere di transizione dalla comicità alla fantascienza, Le Bandard Fou (Il Fallico Folle), Moebius aveva già pensato di utilizzare anche l’economia globale del volume e non solo quella delle singole tavole prese da sole. La pagina destra e quella sinistra raccontano cioè due storie (chiamiamole così per comodità) diverse ed il lettore viene volutamente spaesato e, soprattutto, fatto assistere a uno spettacolo di “fumetto totale” in cui la narrazione si affida anche alla forma fisica del volume che ha in mano. Gli Occhi del Gatto è strutturato in modo tale che le pagine sinistre ospitano sia un’illustrazione ridotta con il soggetto narrante visto sempre dalla stessa inquadratura (cioè la “macchina da presa” è alle sue spalle) sia quel poco di “parlato” che presenta la storia. Sulle pagine destre campeggiano invece delle meravigliose illustrazioni quasi a piena pagina che integrano la storia e i dialoghi. Si tratta insomma di vero fumetto, poiché la lettura delle sole didascalie ci “racconta” ben poco della storia narrata mentre scorrere le pagine dispari basta ad individuare tutti i punti culminanti ed i colpi di scena della vicenda pur se sono posti sullo stesso piano delle immagini di raccordo. Si cominciano già a delineare le premesse per l’ipotesi esposta all’inizio: cinema e fumetto in Jodorowsky possono usare la stessa grammatica anche se mai parleranno la stessa lingua. Ma prima di addentrarci in quest’argomento è doveroso dare uno sguardo al post-Dune ed alla ripercussione che ha avuto sul mondo dei fumetti.

Dopo Les Yeux du Chat la collaborazione fra i due autori continua e questa volta produce frutti dal sapore estremamente classico. Le Avventure di John Difool è una serie concepita come tantissimi altri cicli “alla francese”: ci sono le abituali didascalie, il numero di pagine è vincolato dall’allestimento dei volumi, la storia è ricca di azione e colpi di scena. Moebius pulisce il suo tratto e raggiunge una semplicità quasi da ligne claire (ma con più espressività e meno rigore)(9) mentre Jodorowsky fa suoi (praticamente parodiandoli affettuosamente) alcuni elementi classici dei fumetti: oltre alle didascalie, ci sono dei gustosissimi “prossimamente” alla fine degli episodi ed ogni volume termina con un crescendo di tensione per gli sviluppi successivi. Oggi la saga dell’Incal si è estesa fino a comprendere altre quattro serie spin off e a Le Avventure di John Difool hanno fatto seguito nell’ordine Prima dell’Incal (con Janjetov ai disegni), La Casta dei Meta-Baroni (Gimenez), I Tecnopadri (ancora Janjetov) e Megalex (Beltran). Si tratta insomma negli esiti editoriali di una classica serie di successo come ce ne sono molte nel mercato d’oltralpe e, proprio come le migliori di esse (Blueberry, Le Sette Vite dello Sparviero, Spirou, ecc…) ha il suo principale punto di forza nell’aver saputo creare un intero universo coerente che si autoalimenta e che il lettore ha imparato a considerare, pur se fittizio, credibile e familiare.
Nell’ideare questo universo, Jodorowsky dimostra quanto l’esperienza di Dune lo abbia segnato. Oltre al già ricordato recupero di alcune immagini dello storyboard di Moebius, altre idee ed altre intuizioni vanno a confluire nel fumetto: si tratta di suggestioni sviluppate autonomamente, contributi di altri collaboratori al film ed elementi analoghi al romanzo di Herbert.
Dei primi casi (cioè le idee originali per il film che poi sono state dirottate nei fumetti) il più evidente è la ripresa della straordinaria fecondazione di Lady Jessica da parte del Duca Leto, trasposta pari pari nel ciclo dei Meta-Baroni. Cambiano i protagonisti (Lady Jessica è ora la sacerdotessa Shabda-Oud Honorata e invece del Duca Atreides c’è il primo Meta-Barone, Othon von Salza) ma la situazione è identica: un uomo castrato feconda la sua donna con una goccia del proprio sangue e nel rappresentare questa scena Gimenez si dimostra molto fedele alla versione ipotizzata da Jodorowsky per il grande schermo(10).
Tra gli elementi presi a prestito dalle altre persone che aveva riunito Jodorowsky, il più importante per l’ambientazione della saga dell’Incal è l’idea della città-pozzo, concepita originariamente da Dan O’Bannon. L’idea non fui sviluppata per il progetto di Dune, o almeno non ne viene fatta menzione da nessuna parte, ma venne creata apposta per una breve storia a fumetti (ulteriore strascico positivo dell’incompiuta esperienza Dune) disegnata da Moebius, in cui O’Bannon applicava il crudo stile hard boiled ad un’ambientazione fantascientifica: The Long Tomorrow (1976). La suggestiva immagine di una megalopoli che si sviluppa in orizzontale(11) deve aver colpito moltissimo Jodorowsky, che ne fa un perno centrale della sua saga dell’Incal, con l’aggiunta del temibile lago d’acido sul fondo.

I debiti che Jodorowsky ha nei confronti del romanzo di Herbert sono infine molti, ma si limitano solo a dei particolari, non a temi o situazioni fondamentali per la storia. C’è un ovvio riferimento agli uomini-computer che Herbert chiama “mentat” nei “mentrek” di Jodorowsky. L’unico appartenente dichiarato a questa casta nel ciclo dell’Incal è Campogrigio(12) e non verrà mai spiegato nello specifico quali siano le mansioni o le capacità di questi uomini. Si tratta insomma di un piccolo rimando a Dune che serve a calare la storia in una data atmosfera, a costruirle attorno una sorta di mitologia autoreferenziale. Praticamente la stessa identica funzione che svolge la setta delle “sacerdotesse-puttane” Shabda-Oud, che rimanda direttamente a quella del Bene Gesserit cui apparteneva la Lady Jessica del romanzo. Gli esempi potrebbero continuare ma questa “eredità” di Dune non è servita ad altro che a fornire un terreno fertile per la crescita di un organismo che si è presto reso autonomo dal modello di partenza.
Dopo questa doverosa parentesi sull’influenza che l’esperienza cinematografica mancata di Jodorowsky ha esercitato su quella fumettistica, è il momento di vedere come il cineasta-sceneggiatore ha reso possibile la permeabilità tra i linguaggi di questi due mondi.

La Montagna Sacra e Gli Occhi del Gatto: un confronto

Senza voler appesantire questa analisi di riferimenti bibliografici, è comunque opportuno delineare un panorama minimo di opinioni riguardanti il rapporto tra cinema e fumetto. è opinione sin troppo diffusa che, quando non proprio lo stesso linguaggio, il fumetto abbia preso dal cinema molti elementi tra cui l’investitura del compito di “intrattenere” le masse e la scelta di alcune inquadrature cui il fumetto non sarebbe mai potuto arrivare autonomamente. Se è indiscutibile la diffusione che il medium ha avuto fin dal suo primo apparire (i primi fumetti erano stampati sui quotidiani) e che lo ha accompagnato fino a pochi decenni fa, la desolante situazione attuale fa pensare più ad una moda ormai esaurita che non ad una forma di spettacolo cui si dà ormai dignità d’arte qual è il cinema. La disaffezione del grande pubblico per la letteratura disegnata (fenomeno più o meno evidente, che ormai sembra risparmiare solo il Giappone), o almeno per quella maggior parte delle opere che non cavalchino la tigre di una moda passeggera, è un altro argomento su cui si può discutere a lungo senza mai arrivare ad una soluzione chiara e definitiva: siamo proprio sicuri che televisione e videogiochi siano i principali responsabili della crisi del fumetto? La televisione, anche se con una diffusione inferiore rispetto ad oggi, c’era già alla fine degli anni ’60, quando Horror dovette chiudere per lo “scarso” venduto di oltre 20000 copie. Per intenderci, una diffusione del genere oggi rappresenta il fatidico punto di pareggio per molte testate popolari e sarebbe un miracolo per la riviste d’autore di qualche anno fa (che difatti non esistono più). Resta comunque il fatto che le vendite sono sempre più calate e, tra i tanti fattori di questo calo, anche le nuove forme d’intrattenimento più immediate devono aver avuto il loro peso. Se in Francia i volumi di Van Hamme o di Hermann vendono quasi dieci volte quello che in Italia vende Lanciostory, si può dire che ormai nel mostro paese il fumetto è un fenomeno d’élite

Per quel che riguarda le “inquadrature cinematografiche” di alcune tavole bisogna dire che, in realtà non è mai stato chiarito fino in fondo quale elemento specifico del cinema sarebbe stato ripreso dal fumetto. Probabilmente ci si riferisce al particolare dinamismo che ha una scena girata da una particolare angolazione. Eppure le inquadrature ardite esistono dagli albori del fumetto e costituiscono una delle specificità del suo linguaggio. Già Richard Felton Outcault nel suo Yellow Kid (13) disegnava immagini deformate e dinamiche pur se racchiuse in quello che potremmo definire un normale campo lungo. La vetta dell’espressività del fumetto classico è senz’altro lo Spirit di Will Eisner, che abbondava di scelte “estreme” quali insistite e manifeste soggettive (dagli esiti ben più spettacolari della Lady in the Lake di Montgomery, film in cui quasi tutte le inquadrature sono soggettive). Insomma, quelle che vengono definite, riferendosi ai fumetti, “inquadrature cinematografiche” sono risposte a dei problemi di rappresentazione che anche il cinema ha dovuto risolvere, ed ha risolto con i propri mezzi specifici. Senza dubbio il fumetto deve più alla cartellonistica di inizio secolo che non al cinematografo.
Tornando a Jodorowsky dopo questa breve panoramica (non esaustiva per forza di cose) è stupefacente notare come molte sequenze di The Holy Mountain e tutto Les Yeux du Chat usino lo stesso meccanismo per raccontare una storia e suscitare delle emozioni.

Innanzitutto, la prima parte della Montagna Sacra è totalmente priva di dialoghi e ciò rende più facile l’accostamento di quelle sequenze mute a delle tavole disegnate. Dall’altro versante, Gli Occhi del Gatto è costruito basandosi principalmente sul rapporto integrativo delle tavole che ospitano un’unica vignetta e che ricordano da vicino dei fotogrammi ingranditi. Praticamente entrambe le opere rinunciano a un elemento distintivo del linguaggio cui appartengono e come “motore” per far avanzare la vicenda utilizzano la sola sequenzialità. Nonostante i buoni propositi di cui sopra non posso evitare un rimando bibliografico che, nella sua schematicità, chiarisce bene qual è l’essenza dell’operazione compiuta. A pagina 208 del suo La Significazione nel Cinema (Bompiani, 1975), Christian Metz delinea uno schema dei tratti sensoriali che determinano ogni singolo linguaggio e quelli in comune tra cinema e fumetto sono l’immagine multipla (pur se di natura diversa) e le tracce scritte. Potrebbe sembrare troppo facile, visti i diversi sviluppi di questi tratti, usare questa coincidenza per portare avanti il nostro discorso, ma non è così: vediamo perché. Poco importa se all’interno delle inquadrature della Montagna Sacra le figure sono, inevitabilmente, in movimento: lo spettatore ricostruisce il senso della situazione presentata dall’accostamento delle sequenze, non da come i personaggi agiscono in esse (ulteriore dote del cineasta Jodorowsky è aver saputo evitare una rappresentazione di stampo teatrale). E non è rilevante neppure il fatto che Gli Occhi del Gatto abbia, a differenza del film, delle tracce scritte poiché, come notavamo prima, la vicenda può essere compresa anche basandosi solo sulle pagine destre. Tutte le informazioni pertinenti allo svolgersi della storia sono contenute, o quanto meno suggerite, dalla breve esposizione di alcune scene o da un rapido sguardo alle vignette. I dettagli che dividono i due lavori sono, appunto, dettagli e sono dovuti alle questioni produttive che dividono i due linguaggi, non a quelle poetiche. Un lungometraggio composto dalla messa in sequenza di figure immobili totalmente privo di sonoro non può esistere e difatti neppure Man Ray o Marcel Duchamp si sono spinti così lontano, e loro non dovevano nemmeno fare i conti con produttori e budget. Sul versante del fumetto, bisogna rassegnarsi all’idea che neppure un talento come Jean Giraud può far capire solo con uno sguardo che, per esempio, Chihuahua Pearl era la moglie dell’uomo che valeva 500.000 dollari (e difatti ci sono i dialoghi di Charlier a chiarirlo)(14).

Il cinema ed il fumetto si fanno sempre più vicini perché entrambi si spogliano delle convenzioni con cui si presentano abitualmente: la profondità di campo viene usata rarissimamente in The Holy Mountain e il normale trattamento della tavola con la divisione in vignette è del tutto assente in Les Yeux du Chat. I fattori estetici vengono sostituiti da quelli funzionali ed in entrambi i casi viene dato libero sfogo alle velleità d’illustratori di Jodorowsky (che riempie le inquadrature di riferimenti e citazioni) e Moebius (che oltre ai retini usa un fitto tratteggio). Tirando le somme, si può dire che entrambe le opere riescano a stabilire un contatto con il loro fruitore nella maniera più semplice ed efficace. In entrambi i casi lo spettatore/lettore viene sedotto dalla curiosità per questa inconsueta ed attraente forma di trasgressione iconoclasta per poi venir condotto in una sorta di Stationendrama che non richiede altro che le immagini per essere compreso. Sarà pure superfluo, scontato o banale ribadirlo, ma solo con un calibrato ed accorto uso della messa in sequenza si può stabilire un contatto tra cinema e fumetto. è inutile cercare di avvicinare un linguaggio all’altro affidandosi ai prestiti che possono intercorrere tra i due, e le uniche influenze possono essere di tipo tematico o iconico, non certo linguistico.

Piccola nota conclusiva sul citazionismo di Jodorowsky

Jodorowsky è, come dicevamo, un appassionato lettore di fumetti e, evidentemente, anche un grande conoscitore del settore. Probabilmente è già stata notata da qualcuno, ma un’analogia che può sfuggire pur se palese è quella tra il costume indossato da Tanatah, custode dell’Incal nero, e quello di uno dei Phantom all’italiana, Amok (che, guarda caso, è anche il nome dell’organizzazione terroristica guidata da Tanatah) di Cesare Solini e Antonio Canale. Un omaggio che la dice lunga sulla cultura fumettistica del creatore dell’Incal, se si considera che il personaggio citato fu creato più di 50 anni fa ed anche in Italia pochi lo ricordano!

Alexandro Jodorowsky (classe 1929) è una delle figure di artista eclettico tra le più interessanti del ventesimo secolo. Formatosi alla scuola di mimo di Marcel Marceau e partecipe (quando non proprio fondatore) di esperienze avanguardiste in diversi campi, ha avuto modo nell’ultimo ventennio di imporre il marchio inconfondibile della sua poetica anche al mondo del fumetto. Pare quasi un controsenso parlare di una poetica specifica molto forte quando questa è costituita principalmente da citazioni, rimandi culturali ed amplificazioni esasperate dell’estetica di altri Autori o movimenti, eppure i suoi soggetti e le sue regie denunciano senza possibilità d’errore la loro paternità.
La forte personalità e le grandi capacità di Jodorowsky hanno permesso inoltre la realizzazione di quella che, praticamente solo nel suo caso, non si è rivelata un’utopia: la fusione tra il linguaggio del cinema e quello del fumetto.

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