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Cinema

Cinema e mass-media

Che il cinema appartenga ai mass-media è un fatto tanto ovvio da non avere bisogno di dimostrazioni: le sue origini come fenomeno da presentare nelle fiere fanno sì che ben presto, già negli anni Trenta quando, si combatte, e si vince, la battaglia per riconoscere al nuovo mezzo di espressione la dignità di arte, c’è chi si rende conto dell’importanza del suo essere insieme industria culturale. Vorrei ricordare prima di tutti Erwin Panofsky, che nel suo unico, ma fondamentale contributo sul cinema (Stile e mezzo nel cinema) lo definisce “arte popolare autentica” che ha, sola fra tutte le arti, la caratteristica di non essere derivazione dalla cosiddetta “arte colta” e che, soprattutto, è importante in quanto insieme all’architettura e al “design” è l’unica arte visiva ad avere un reale contatto col pubblico. Quando Panofsky scrive, nel ’47 ma in prima versione nel 1934, che la vera importanza del cinema riguarda la formazione delle opinioni, del gusto, del linguaggio, dei costumi e del comportamento di un pubblico che comprende più del 60% della popolazione terrestre, c’è già l’intuizione del problema che sarà poi più ampiamente dibattuto col sempre maggiore affermarsi di quelli che verranno chiamati, nella società industriale, appunto i “mass-media”.

Panofsky del resto non faceva che prendere atto di una situazione storicamente ormai consolidata: la sua intelligenza consiste “non tanto nel riconoscere l’incidenza del cinema sui pubblici di tutto il mondo, ma piuttosto, nel rendersi conto di come questo sia un fatto di cultura, che va dunque considerato almeno allo stesso modo dei problemi storico-artistici ai quali egli era professionalmente dedito.

Nel ’47 infatti il cinema, in particolare quello di Hollywood, viveva uno dei periodi di suo massimo splendore, anche e soprattutto dal punto di vista commerciale e dunque come fenomeno della comunicazione di massa Ma erano quasi trent’anni che si verificavano gli effetti ricordati dal Panofsky: era dalla fine degli anni Dieci, circa, che il cinema era entrato potentemente nella vita della gente, diventando non semplicemente uno spettacolo, né soltanto un fatto artistico, ma un vero e proprio fenomeno di costume.

Ciò in gran parte anche a causa dello “star system” sul quale il cinema si era molto presto, basato, cioè sul verificarsi e potenziarsi del fenomeno del divismo. Il successo del cinema e in particolare l’estendersi del divismo cinematografico ne determinano, almeno per un certo, periodo, l’egemonia su altri Media; anzi fanno sì che il film non sia soltanto quell’opera audiovisiva, quell’insieme di immagini e di suoni impressi su pellicola e tecnicamente riproducibili, ma sia qualcosa di più complesso e indefinito grazie a una serie di aspetti massmediologici collaterali.

Cercherò di spiegarmi meglio: nell’immaginario collettivo un film, l’idea di un film, era anche determinata dalla rilettura e dalla rappresentazione di chi ne aveva disegnato i manifesti pubblicitari (ad esempio quelli di Ballester, di cui abbiamo fatto una mostra a Parma); (e dico “era” soltanto perché oggi la situazione è un po’ cambiata, l’egemonia a livello massmediologico è passata dal cinema alla televisione). Le immagini del film sulle strade, specie se rielaborate, contribuivano ad orientarne la lettura. In Ballester ad esempio troviamo, ancora prima che nascesse il cinema a colori, una precisa scansione di colori che corrisponde ad una differenziazione di generi di racconto: ad esempio tinte pastello per le commedie, rossi e tinte tutte accese per western e avventurosi; verde marcio e ocra per i polizieschi. Ma c’erano anche i fotoromanzi, con inquadrature tratte dal film: ricordo una serie che, si chiamava “I grandi fotoromanzi d’amore” nella quale apparivano titoli come Il ponte di Waterloo, dal film di Le Roy, o La valle del destino, dal film di Tay Garnett; e la storia de La voce nella tempesta, desunta dalle immagini del film di Wyler, aveva ben poco a che fare con quella originaria della Bronte, col romanzo “Cime tempestose”: era infatti una rilettura del film compiuta in base ai canoni della narrazione del fotoromanzo. Eppure anche questa aveva, agli effetti del film, la sua importanza: poteva infatti essere, a certi livelli di cultura, una chiave interpretativa del testo filmico.

Non parliamo poi dei rotocalchi e delle vicende private degli attori: questo è un fenomeno ancora attuale e che si lega alla caratteristica propria del divismo cinematografico, che è quella di legare attore e personaggi a tal punto che per il pubblico l’attore continua a vivere i suoi personaggi anche nella vita privata. Ed ecco allora che, su schemi riconducibili a quelli della fiaba (come notavamo nel ’72 nel lavoro di gruppo all’Università di Parma “La bella addormentata”, indagine sui settimanali italiani di allora) i principi e le principesse del mondo del cinema sono, protagonista nelle puntate dei rotocalchi di storie che in parte nascono da quelle parallele vissute nella finzione dello spettacolo, e in parte tendono ad orientarle, o meglio ne orientano la lettura del pubblico. Il caso più ovvio, e più scopertamente pubblicitario, è quello, ripetuto centinaia di volte, che suggerisce un rapporto amoroso tra i partner di un film: la confusione tra realtà e finzione viene assunta in questo caso come motivo, primario di richiamo, come elemento valido a garantire la vendita del prodotto. Ma anche quando non si ricorre a questa soluzione la personalità divistica riproposta dal rotocalco avrà sempre una relazione molto stretta con quella dei personaggi interpretati dall’attore più che con l’attore stesso.

Non vanno certo dimenticate, tra i Media importanti per il cinema, la radio e la televisione: la prima, con partecipazione di attori cinematografici a trasmissioni e spettacoli, con la diffusione di colonne sonore, con la citazione diretta dei film, magari in trasmissioni apposite, svolge più che altro sempre una funzione pubblicitaria nei confronti del mezzo-cinema, mantenendo dunque, possiamo dire, un ruolo subalterno. Altra cosa è naturalmente, dalle sue origini, la televisione, che si pone invece, specie nei primi anni, in posizione di antagonismo nei confronti del cinema. Ciò non toglie che possa svolgere anch’essa lo stesso tipo di pubblicità svolto dalla radio, con partecipazione di attori a spettacoli in corrispondenza al lancio di loro film, o, anche qui, con apposite trasmissioni di tipo fondamentalmente pubblicitario (penso a “Il girasole” e a cose del genere, tutte degli anni Cinquanta o, primi Sessanta); ma è importante notare che con il rovesciamento di rapporto fra i due Media, col sempre piùmassiccio prevalere della televisione nei confronti del cinema, cambia anche l’immagine di questo in TV. La televisione, che del vecchio cinema si alimenta e che il nuovo cinema a volte produce, può permettersi dì pubblicizzare anche quello prodotto, in sua concorrenza senza nessuna mascheratura di tipo culturale, o con mascherature molto deboli (penso a trasmissioni come “Dolly”), rendendo il cinema insieme più presente e piùmercificato, equiparato agli altri prodotti continuamente proposti dagli inserti pubblicitari. Quello che è venuto a mancare, insomma, rispetto al modo in cui il cinema veniva proposto quando ancora era piùforte, è una specie di “aura” della quale venivano ammantati gli intenti ugualmente pubblicitari di un tempo.

Abbiamo visto finora, sia pure brevemente, quelli che potremmo definire aspetti massmediologici collaterali al fenomeno cinema; vediamo ora, necessariamente con pochi casi esemplari, come il problema dei Media sia stato affrontato nella storia del cinema.

Un film molto importante e significativo a questo riguardo è It Should Happen to You (“La ragazza del secolo”) realizzato nel 1953 da George Cukor, opera che Carlos Clarens nella sua monografia del ’76 sul regista, definisce la prima e la migliore delle commedie sui Media, quasi fatta per McLuhan e per Barthes. Con sceneggiatura di Garson Kanin si presenta qui una ragazze qualunque, Gladys Glover, interpretata da Judy Hollyday, che applicando ingenuamente a se stessa le leggi della pubblicità, comprando dunque uno spazio pubblicitario per inserirvi il suo nome, per il puro gusto di vederlo scritto a caratteri giganteschi su una piazza, diventa una celebrità. Significante privo di significato infatti, quel nome giunge paradossalmente a ricevere un’enorme popolarità, anche grazie alla televisione, ai rotocalchi, ai manifesti, mezzi tutti che si servono di quel nome già celebre e della semplice ragazza che c’è dietro per potenziare altri nomi ed altri successi, valendosi dell’effetto di ridondanza dei Media. La soluzione però è moralistica: Gladys si ritirerà per scegliere il vero amore, che ha il volto e la mimica del primo Jack Lemmon.

Il moralismo del resto è una componente tematica pressoché costante del cinema sulla comunicazione di massa: basti pensare a molti film sul problema della stampa o a quelli che hanno come personaggi principali dei giornalisti. Cominciando dalle commedie anni Trenta di Capra, ove abbondano le inquadrature di quotidiani che escono dalla rotativa moltiplicando in titoli di prima pagina una versione malevola dei fatti vissuti dai personaggi del film, è molto facile che il giornalista sia visto come l’essere spregiudicato e disonesto interessato soltanto allo “scoop” e al successo personale.

In Capra il giornalista, sia esso Clark Gable o sia invece, per due volte, Jean Arthur, si ravvede grazie all’amore e può diventare dunque alla fine paladino della giusta causa (mi riferisco ovviamente a È arrivata la felicità e a Mister Smith va a Washington); ma è significativo che il giornalista parta sempre come un imbroglione (e Gable tale sarà ancora quando, quasi a fine carriera, tornerà a fare il giornalista in Dieci in amore, commediola di ben diverso valore diretta da George Seaton). Se il problema della stampa è affrontato in se stesso però, e in termini drammatici, non di commedia, il giornalista può trasformarsi persino in un assassino per sfruttare sino in fondo il suo “scoop”, come accade nel famoso Big Carnival (“L’asso nella manica”, 1951) di Billy Wilder: tanto più grande è il successo del giornalista, in questi casi, tanto maggiore è la sua ipocrisia, e la sua colpa.

C’è, a dire il vero, negli stessi anni, anche chi vede la stampa come mezzo di denuncia della corruzione e nel giornalista l’ideale difensore delle cause giuste contro le violenze dei potenti: penso ad esempio a film come Deadline USA (“L’ultima minaccia”, 1952) di Richard Brooks, con un Humphrey Bogart direttore di giornale sostenuto nella sua coraggiosa denuncia di un potente anche dalla vecchia proprietaria del giornale stesso (Ethel Barrymore). L’impostazione pessimistica del problema è comunque più frequente, come se il cinema volesse esorcizzare, con la denuncia di mezzi a lui affini la sua cattiva coscienza di mezzo della comunicazione di massa. Nel caso della televisione poi, percepita da subito come grande rivale, la denuncia si fa più esplicita e violenta: non certamente in Mille lire al mese di Neufeld, film del ’39, (;ve la televisione è ancora qualcosa di troppo sperimentale e lontano, specie in Italia, per rappresentare una reale e pericolosa alternativa. Ma certo in molti film americani degli anni Cinquanta o in commedie italiane degli anni Sessanta (penso, a un famoso episodio de I mostri di Risi, ove la moglie può tranquillamente tradire il marito, tutto preso dai programmi della TV, nella sua stessa casa e lui presente).

Con A Face in the Crowd (“Un volto nella folla”), Elia Kazan realizza nel ’57 il primo e più violento film in cui la condanna alla televisione e ai Media in generale assume dei toni che vanno aldilà della critica pungente, ma sempre contenuta nei termini della commedia, de La ragazza del secolo, o di quella più tragica, ma risolta in fondo in un caso di perversione individuale, de L’asso nella manica. In Un volto nella folla è infatti il sistema dell’industria culturale che costruisce totalmente il personaggio e che lo porta a un punto tale di successo da essere vicino a dargli anche il potere politico salvo poi, in un ennesimo finale moralistico, fermarsi in tempo, per senso di giustizia e anche per desiderio di vendetta della giornalista interpretata da Patricia Neal, e distruggere, facendolo crollare improvvisamente, il falso idolo.

La denuncia della televisione può implicare, col problema della ripresa “in diretta”, anche il complesso discorso del rapporto fra realtà e finzione, come accade in Network (“Quinto potere”, 1976) di “Sidney Lumet o in La mort en direct (“La morte in diretta”, 1980) di Bertrand Tavernier. Ma allora il discorso si fa diverso, diventa piuttosto un’allegoria, o una riflessione del cinema su se stesso, che una vera e propria trattazione del problema dei Media.

E dunque entriamo in un altro campo. un campo vastissimo che a cominciare da un breve interessante film di Porter del 1902, Uncle Josh at the Moving Pictures Show (“Lo zio Josh va al cinema”), ove vediamo un uomo comportarsi come se le immagini che vede muoversi sullo schermo fossero vere, a cominciare dunque addirittura dalle origini del cinema, ha dato luogo ad un vero e proprio genere cinematografico.

Il cinema è nella storia del cinema un medium privilegiato e i titoli di opere notevoli, anche limitandoci solo a quelle più interessanti, sarebbero troppi perché possiamo qui ricordarli. Limitiamoci ad osservare che prescindendo dai discorsi sulla realtà e la finzione, è facile trovare anche nei film sul cinema lo stesso atteggiamento di critica, a volte violenta e gli stessi atteggiamenti moralistici notati a proposito degli altri Media. Per il primo aspetto, per i fenomeni aberranti, fino alla follia e all’autodistruzione, provocati dai meccanismi del cinema, resta esemplare il discorso di Billy Wilder in Sunset Boulevard (“Viale del tramonto”) del ’50; discorso. in parte ripreso da Robert Aldrich in The Legend of Lilah Clare (“Quando muore una stella”) del ’68 e dallo stesso Wilder nel ’78 con Fedora.

Per gli aspetti moralistici invece, quelli che puntano soprattutto alla condanna del cinema come mondo dell’inautentico. in contrasto con i sentimenti autentici della realtà, troviamo esempi soprattutto nel cinema italiano, e in particolare nel cinema italiano d’epoca post-necrealista. Se in Bellissima di Visconti la Magnani fa trionfare l’amore materno sulle fasulle seduzioni del mondo dello spettacolo c’è un film di due anni più tardi in cui il gioco si fa più sottile e inquietante: in Siamo donne, zavattiniano nella concezione come del resto il film precedente, alcune tra le più famose attrici del cinema italiane, rivivono davanti alla cinepresa episodi reali della loro esistenza con l’assunto di rendere evidente al pubblico la superiorità di una vita normale rispetto a una vita di attrice che, specie per gli episodi della Valli e della Miranda, richiede il sacrificio dei sentimenti più profondi. Ma il linguaggio e la pratica del cinema, le ferree, inevitabili leggi dei Media, trasformano l’onesto intento di partenza in un sermoncino lacrimoso un po’ ipocrita: belle, eleganti, famose e premiate, le attrici infatti risplendono sullo schermo in tutto il loro splendore divistico e la cosa più falsa del film risulta invece proprio la lacrimuccia sul loro destino di solitudine che la cinepresa mette inrilievo alla fine, quando le vede rientrare nei loro sontuosi appartamenti.

Il presente articolo è tratto da CIN&MASSMEDIA, Storia, linguaggio e relazioni tra mezzi di comunicazione contemporanei.
Corso di storia del cinema per insegnanti.
Trieste 23 novembre 1981-31 maggio 1982.

A cura di Annamaria Percavassi e Stella Rasman

Edito da La Cappella Underground con il contributo della Provincia di Trieste (marzo 1983)

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