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Cinema

Film per il cinema e film per la televisione

Fu Tullio Kezich, verso la fine degli anni Sessanta, a chiedermi se volevo fare un film per la Tv. Era, mi pare, un racconto di Rigoni Stern che mi piaceva molto. Io ero però, a quel tempo, agli inizi della mia carriera di regista, e mi accingevo a girare La bambolona, il mio primo film impegnativo dopo una serie di western abbastanza fortunati: il cinema mi assorbiva totalmente. Ne riparlammo, di questa idea di fare un film prodotto dalla televisione quando, poco tempo dopo, Tullio scese a Roma per svolgere, accanto alla sua attività di critico commediografo e studioso di cinema, un lavoro di collaborazione all’interno della RAI. Mi ricordo che già da allora gli parlai d’Un anno di scuola. Intanto il tempo passava. Dopo La bambolona, diressi Cuori solitari, e poi La supertestimone. A questo punto, facendo un po’ di conti, risultò che Un anno di scuola risultava troppo caro. Mi venne proposto di ridurre per lo schermo grande e piccolo La rosa rossa, che aveva un curioso rapporto di simmetria con Un anno di scuola: il primo era una storia di vecchi ambientata alla fine della prima guerra mondiale, il secondo una storia di giovani che si svolgeva invece a Trieste poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale. I soldi che la RAI era disposta ad investire erano davvero pochi: 80 milioni.

Eravamo ormai nel ’72, avevo aggiunto agli altri miei film uno con Monica Vitti che s’intitolava Gli ordini sono ordini. Avevo un gran desiderio di avvicinarmi alle tematiche del mio mondo d’origine e, dopo una serie di quattro film che in un modo o nell’altro rientravano negli schemi della commedia all’italiana, avevo bisogno di fare un film non commerciale, senza l’ossessione degli incassi. Un produttore privato non m’avrebbe mai concesso di realizzare un film come La rosa rossa, la RAI sì. Come si fanno i film per la RAI? A quell’epoca, ed anche oggi, quando un regista “di cinema” lavora per conto della RAI, il film che egli realizza viene prodotto “in appalto”. La RAI cioè consegna una cifra fissa (in questo caso, come ho già ricordato, si trattava di 80 milioni) ad un produttore “esterno” il quale con quel denaro deve portare a termine il film, fino alla copia campione e consegnarlo alla RAI. Questo produttore, nella maggior parte dei casi, non ha diritto a percentuali sulle vendite all’estero di questi lavori o su eventuali utili d’altro genere. Deve ricavare il suo guadagno all’interno della somma dell’appalto. Proposi come produttore un mio amico che fino a quel tempo si occupava di pubblicità: Arturo La Pegna. A lui questa idea di fare un film con pochi soldi e tanto entusiasmo piacque assai e ci buttammo nell’impresa. Ci guardammo subito in faccia: quanto potevo chiedere come regista su quella cifra così bassa? Nulla. E infatti non chiesi nulla. Decidemmo però di dividerci gli eventuali modesti utili al 50%. Il film costò cinque milioni in più del previsto con il risultato che quella regia mi costò due milioni e mezzo. Ma ne valse la pena. A parte il risultato che fu buono, fu un film felice, nel quale tutti lavoravano con entusiasmo, dagli attori, ai tecnici, compresi quelli jugoslavi che la Jadran Film aveva ingaggiato (il film fu girato, come si sa, a Rovigno).

Immagine articolo Fucine MuteAlla RAI furono molto soddisfatti di questa prima collaborazione, e io mi ritrovavo ad aver fatto il primo film in cui non mi sentissi in qualche modo scisso fra quello che ero e quello che facevo. Ci presi anzi gusto. Rinunciai a qualche offerta di cinema e realizzai con la RAI Il lungo viaggio (ispirato a tre racconti di Dostoevskij), poi Un anno di scuola, poi La città di Zeno in collaborazione con Tullio Kezich — un’inchiesta di tipo giornalistico nel cinquantenario della morte di Italo Svevo — poi La giacca verde. La mia vita cambiò. I guadagni in questo tipo di lavori sono molto inferiori a quelli del cinema, ma la cosa non mi preoccupava perché ero in grado di dare un certo ordine al mio lavoro e di fare non qualsiasi cosa volessi, ma comunque film che mi piacevano. Questo rapporto con la RAI dura tuttora: sto per iniziare a girare un film di tre ore tratto da The Rover (“Il corsaro”) di Joseph Conrad. Ho raccontato queste cose perché illustrano i vari aspetti del complesso rapporto che corre tra la RAI, il cinema e gli autori. Ecco che alcune osservazioni generali che farò sull’argomento sono in parte già implicite in quanto ho raccontato.

Immagine articolo Fucine MuteLa TV, che è una delle cause della crisi del cinema (soprattutto del cinema medio di un certo impegno) ha curiosamente permesso a molti autori di resistere (non tanto per quel che riguarda l’aspetto finanziario quanto per quello “espressivo”) alla crisi stessa, producendo lei stessa film che la produzione normale mai avrebbe prodotto. Si pensi ai fratelli Taviani: grazie alla RAI e soprattutto all’intelligente e appassionata opera di promozione di Tullio Kezich, hanno realizzato nei primi anni Settanta San Michele aveva un gallo e poi, successivamente, Padre padrone, La notte di San Lorenzo, cioè quelli che sono forse i loro capolavori. Si pensi a Olmi (L’albero degli zoccoli, per citarne uno solo), a De Seta (Diario di un maestro), a Rosi (Cristo si è fermato a Eboli). E gli esempi potrebbero continuare a lungo. In altre parole la RAI si è affiancata e, in certi casi, sostituita all’Italnoleggio, cioè l’ente statale che avrebbe dovuto istituzionalmente sostenere il cinema italiano “di qualità” o “d’autore” che dir si voglia.

Ho citato più di una volta Tullio Kezich. Va detto con chiarezza che l’opera d’incoraggiamento, di aiuto, di consiglio, di mediazione da lui svolta per far nascere progetti importanti è stata, all’interno della RAI, inestimabile. C’è il suo nome dietro la maggior parte dei film citati in questa mia esposizione e in quasi tutte le operazioni culturalmente impegnative della Seconda Rete negli ultimi anni. Questo senza voler dare nessun aspetto miracolistico all’attività di Tullio. Semplicemente, oltre che essere dotato di fiuto finissimo per i progetti per i quali vale la pena d’impegnarsi, Kezich è un interlocutore ideale che gli autori si ritrovano al posto dove di solito c’è o un produttore privato o un funzionario.

Vediamo anche qualche altro aspetto del problema. La RAI, producendo questo tipo di film veniva a trovarsi in una posizione di grande privilegio. Innanzi tutto non aveva concorrenti. Investiva poco, ma beneficiava dell’entusiasmo degli autori, degli attori, dei tecnici, delle maestranze, consapevoli di partecipare a imprese che avevano una finalità non commerciale, ma culturale. Sul piano economico, la voglia di partecipare a questo tipo di film faceva sì che tutte le su citate persone accettassero compensi molto inferiori al normale. Ecco gli obiettivi vantaggi per la RAI di agire in una situazione di crisi dell’industria cinematografica.

C’è però anche un vantaggio per gli autori in questa situazione, ed è che la RAI contatta generalmente prima l’autore e poi, d’accordo con l’autore, il produttore-appaltatore: questo fatto determina una situazione di autonomia e di maggiore libertà del regista. Fatta eccezione per i “kolossal” (Marco Polo, Giuseppe Verdi, Gesù, Mosè, ecc.) la RAI investe in questi film cifre che vanno dai 150 ai 200 milioni a ora (ma fino a qualche tempo fa anche molto meno). Se si calcola che negli ultimi anni i costi dei film sono cresciuti enormemente (oggi un film medio costa non meno di un miliardo) si vedrà quali acrobazie un autore debba compiere per stare nei limiti del “budget”. Perché lo fa? Unicamente per soldi (anche se fare un film di qualità, un film ritenuto  non commerciale, poi, con l’effetto promozionale dei festival, si rivela ancora — vedi Padre padrone — un autentico affare commerciale). L’autore di cinema, quando lavora per la RAI continua a fare del cinema, solamente destinato ad un altro tipo di fruizione (TV) o a una fruizione mista (sale e TV). E questo è un fatto che da molti è rimproverato agli autori italiani; si dice in sostanza che essi, anziché adeguarsi alle necessità peculiari del “linguaggio” televisivo, più semplice e “popolare”, coltivano le loro ambizioni cinematografiche.

Occorre qui brevemente spiegare che cosa intendano gli addetti ai lavori per “linguaggio televisivo”: grosso modo un linguaggio basato su pochi campi lunghi che, nella ristrettezza del piccolo schermo, risultano poco efficaci, e soprattutto poco definiti; su molti campi medi e su moltissimi primi piani. Da un lato il primo piano, in TV, serve a tenere sveglia l’attenzione di un pubblico presumibilmente distratto, ma dall’altro permette di basare gran parte della vicenda sul dialogo, il che rappresenta un grosso risparmio produttivo. Per rompere la monotonia che inevitabilmente suscita il dialogo troppo lungo fra personaggi fermi, gli americani usano “condire” gli spettacoli televisivi con scene d’azione spettacolari, per lo più “di repertorio”, cioè buone per differenti film. Mi dicono che le serie tipo Dallas sono girate da quattro registi differenti: uno per le scene d’interno, intimiste, un altro per le scene d’azione, ecc. La catena di montaggio anonima ed efficace.

Il sogno ad occhi aperti di molti produttori e di molti dirigenti RAI. Perché, si chiedono costoro, non facciamo anche in Italia cose tipo Dallas, delle “serie” interminabili con gli stessi ambienti, gli stessi personaggi? Si dà la colpa al regista, narcisista e ambizioso, incapace di accettare un lavoro standardizzato e d’équipe, e allo scrittore di cinema, che non inventa “serie” di tipo internazionale (altro sogno ad occhi aperti: qualcosa su un Grand Hotel, ambiente cosmopolita e di lusso, gradevole, pieno di personaggi facilmente caratterizzabili, ecc. ecc.). In realtà, ogni regista che ami il proprio lavoro non teme tanto la serie in quanto tale, ma teme il processo di appiattimento e di banalizzazione che avanza a grandi passi in tutte le televisioni. Teme che si vada verso un consumo sempre più nevrotico e indifferenziato di immagini, un consumo puramente quantitativo. Ecco che per l’autore, regista o scrittore che sia, il modo di porsi di fronte a questi problemi assomiglia molto a una difesa di una propria identità, di una propria integrità, un fatto di sopravvivenza. Da quanto abbiamo detto risulta credo abbastanza chiara una cosa. Che la RAI, prima quella bernabeiana, poi quella lottizzata della Riforma, ha malgrado tutto svolto un ruolo spesso positivo, nella conservazione e nel rafforzamento di un cinema d’autore o comunque di qualità. La produzione di questi film, come del resto di certe inchieste non conformiste, rappresentava per la RAI un titolo di merito, un fiore all’occhiello per controbilanciare ambiguità, lottizzazioni, conformismi.

Ora però c’è una situazione nuova, data dalla presenza delle reti, o stazioni private. Il calo di spettatori che ne è risultato per la RAI sembra davvero vistoso. I dirigenti RAI, abituati alla fin troppo rassicurante situazione di monopolio, sono presi dal panico, e pensano ossessivamente a una sola cosa: riguadagnare spettatori. Una volta c’era l’ansia per il cosiddetto “indice di gradimento”, oggi conta solo la quantità. Ecco il pericolo. Stanno venendo meno quei motivi, spesso contraddittori, che rendevano possibile la nascita non sporadica di opere di qualità. C’è il rischio che vedendo minacciata in prospettiva la sua stessa ragione di esistere la RAI inizi a rincorrere “verso il basso” le TV private, cercando di emularle su un terreno che spesso sfiora la sottocultura.

Il presente articolo di è tratto da CIN&MASSMEDIA, Storia, linguaggio e relazioni tra mezzi di comunicazione contemporanei.
Corso di storia del cinema per insegnanti.
Trieste 23 novembre 1981-31 maggio 1982.

A cura di Annamaria Percavassi e Stella Rasman

Edito da La Cappella Underground con il contributo della Provincia di Trieste (marzo 1983)

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Fofi Goffredo: Il cinema italiano: servi e padroni, Feltrinelli 1971.

Miccichè Lino: Il cinema italiano degli anni Sessanta, Marsilio Ed. 1975.

Miccichè Lino: Il cinema italiano degli anni Settanta, Marsilio Ed. 1980.

Rondolino Gianni (a cura di): Catalogo Bolaffi del cinema italiano, 1966-1975, Bolaffi, Torino 1975.

Spinazzola Vittorio: Cinema e Pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani 1974.

Tinazzi Giorgio: Il cinema italiano degli anni ’50, Marsilio 1980.

Torri Bruno: Cinema italiano: dalla realtà alle meta fare, Palumbo 1973.

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