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Fumetto

Ipotesi sull’interpretazione del testo a fumetti

Premessa

Uno degli aspetti più trascurati dagli studi sul linguaggio dei fumetti, nonostante per certi aspetti ne costituisca il fondamento, è l’interpretazione e la ricostruzione del testo da parte del lettore attraverso le peculiarità e le modalità che questa operazione comporta.
Con questo testo, a sua volta riduzione di una trattazione più ampia, si vuole fornire un minimo contributo all’analisi di una problematica che dovrebbe diventare dibattito, sulla scia degli interrogativi sollevati nel corso degli ultimi anni, con particolare riferimento a Scott McCloud. Per poi scoprire che, forse, uno studioso di cinema aveva già posto inconsapevolmente le basi di un discorso che si sarebbe un giorno concretizzato nel concetto di “closure”.

1. La lettura del testo a fumetti

È facilmente intuibile come il fumetto, complice la sua natura ellittica derivata dalla staticità dell’illustrazione, richieda al lettore un grado di partecipazione piuttosto elevato, una particolare attenzione ai meccanismi del testo, in modo da poter esercitare una visione d’insieme a partire dalle singole vignette.
Analizzeremo di seguito i percorsi che conducono il lettore di fumetti alla ricostruzione del testo, al completamento delle parti mancanti eliminate dall’ellissi, all’interpretazione dei suggerimenti disseminati dall’autore.
Tenuti presenti i codici linguistici del fumetto, e le loro attuazioni a livello sintagmatico, retorico, occasionalmente stilistico, dimostreremo ora come la loro principale finalità sia spesso, in ultima analisi, quella di porre dei limiti alla libertà di interpretazione del lettore, o, da un altro punto di vista, quella di fornire gli indizi necessari e sufficienti affinché il lettore stesso eserciti tale facoltà.

A parte McCloud, gli autori propendono ad attribuire alla fantasia e all’immaginazione del lettore il compito di completare la catena sintagmatica sottesa alle ellissi del testo. 
Questo avviene poiché difficilmente l’argomento è stato esaurientemente analizzato a favore di altre problematiche inerenti al linguaggio dei fumetti; ma dal momento in cui si postula il funzionamento di un ipotetico codice, in particolar modo se finalizzato alla narrazione, si dovrebbe anche ritenere che esso preveda le modalità di intervento da parte dell’eventuale fruitore (1). È ovvio che, in mancanza di segnali da parte della narrazione, chiunque tenda ad aggiungere il proprio, personale tassello; ma tutto ciò rientra nei margini di un’autonomia che confluirà inevitabilmente nelle prospettive del testo.

A noi, in questo momento, interessa principalmente un altro livello di lettura: trattiamo ora i criteri con i quali, dal momento in cui il lettore gode di una certa libertà — anche di fantasticare —, il testo la incanali verso i propri scopi, riuscendo a prevederne le potenziali direzioni. Anche perché, constatato che il nostro compito è individuare i principi generali che conducono alla comprensione del testo, dobbiamo necessariamente fare riferimento ad un lettore medio, o meglio ad un lettore ideale, la cui figura riassuma le caratteristiche che l’autore normalmente presuppone. La “partecipazione creativa”, se non inquadrata entro le “misure restrittive” del testo, presuppone la soggettività di un lettore empirico, non la sua generalizzazione attraverso il Lettore Modello, e quindi una prospettiva che non consente alcun tentativo di analisi (2).

È impossibile, tuttavia, tentare di individuare le prerogative di questo processo riducendole ad una serie di meccanismi chiari e perfettamente prevedibili: il messaggio a funzione estetica, quale indubbiamente è quello del fumetto, possiede una serie di ambiguità e di ridondanze sicuramente determinanti per il successo dell’interazione tra l’intenzione comunicativa e l’operazione di lettura (3). Tutti aspetti che, indubbiamente, pongono ulteriori questioni al di là della mera ricostruzione del movimento o della dimensione spazio-temporale.
E, del resto, è proprio nei termini di questa particolare strutturazione che ci riferiamo all’autoreferenzialità del testo a fumetti, che sul piano visivo si traduce nell’intervento dei richiami stilistici sulla pura e semplice riproduzione della realtà (4).
Non si vuole, in questo modo, trascurare l’importanza del testo scritto: spesso, pensando al fumetto, facciamo implicito riferimento alla sola componente grafica (definendolo “linguaggio di immagini” in termini talvolta riduttivi), salvo poi distinguere i diversi livelli su cui esso opera.
I due livelli cui ricondurremo l’analisi che segue sono principalmente quello psicanalitico, vista l’occasione che l’intervento di Scott McCloud ci consente finalmente di cogliere, e successivamente quello legato alla percezione del tempo.

2. La sutura

Gli anni ’60 hanno visto nascere, sul fronte delle teorie cinematografiche, un innovativo metodo di ricerca, talvolta lontano da un approccio pienamente sistematico, ma che avrebbe dato frutti anche nel decennio successivo.
Gli strumenti di cui esso usufruiva erano quelli della psicanalisi, il cui contributo per la svolta verso una nuova sensibilità culturale sarà determinante soprattutto negli anni ’70.
Uno degli indirizzi che seguirà l’indagine cinematografica si propone di individuare gli aspetti di pertinenza della psicanalisi nel testo filmico, dopo che una prima corrente aveva tentato di focalizzare e verificare i meccanismi comuni che reggevano il cinema e la materia onirica.
L’aspetto che interesserà lo studio del fumetto è il primo dei due citati, ovvero il filone di ricerca che osserverà il cinema come “qualcosa di direttamente modellato sul nostro apparato psichico”, un “fenomeno che prolunga e ingloba le strutture e le dinamiche della nostra psicanalisi” (5).
Il primo, rilevante contributo ad una prospettiva psicanalitica dei fenomeni linguistici proviene da Jacques Lacan, che studia le dinamiche dell’inconscio secondo una personale rilettura dei testi di Freud.
Secondo Lacan, anche l’inconscio è costituito strutturalmente come un linguaggio, fatto di opposizioni e di contrasti, così come il segno si definisce nella misura in cui si differenzia dagli altri, e così come esso rappresenti, sostituendola, “qualcosa che di fatto è assente” (6).
Anche nell’ordine del simbolico che fa capo all’inconscio, quindi, è presente, come nel linguaggio, una dimensione di opposizione e di mancanza sotto forma di catena significante, in cui lo stesso soggetto si colloca.

Questa riduzione del pensiero di Lacan non ha, ovviamente, alcuna pretesa di esaustività, né ci si pone come obiettivo, in questa sede, una considerazione critica sul suo approccio alle problematiche dei processi dell’inconscio, anche perché il testo dello studioso francese ci giunge attraverso fonti indirette.
È utile, tuttavia, considerarne le prospettive per tracciare i confini dell’ambito culturale in cui si muoverà Jean-Pierre Oudart, i cui interventi alla fine degli anni ’60 propongono alcune prospettive interessanti anche ai nostri scopi (7).
Oudart riprende le riflessioni di Lacan sulle figure dell’Assenza, e sul concetto di sutura, definita appunto, sulla scia del suo predecessore, come “la clôture dell’enunciato cinematografico in base al rapporto che intrattiene con il suo soggetto” (8).
Non si fatica ad applicare le teorie di Lacan al campo della rappresentazione cinematografica, considerato che anche il discorso cinematografico si manifesta sotto forma di catena significante.
Questa catena, e prima ancora ogni singola immagine che compone la “somma significante”, rimanda a qualcos’altro, ad una Assenza, al luogo dove idealmente si colloca e si proietta lo spettatore (l’Assente appunto, come viene logicamente definito tale destinatario simbolico).

L’immagine sullo schermo, in altre parole, si fa testimone di qualcosa che manca, e “accede all’ordine di significante”, il cui referente immediato è, appunto, l’Assenza. Al campo filmico, quindi, “fanno eco un altro campo, la quarta parete, e un’assenza che ne emana”, una sorta di prolungamento della scena filmata.
Questa quarta parete, questo luogo immaginario, è pervaso da un senso di sottrazione, che porterà infine lo spettatore a sentire l’esigenza di contestualizzare l’immagine attraverso quella ad essa successiva.
L’esempio riportato da Oudart fa esplicito riferimento alla dialettica delle inquadrature che compongono un campo/controcampo. Al momento stesso in cui la prima di esse si pone davanti ai nostri occhi, proviamo la necessità di riempire (e di collocarci in) un vuoto, creato dalla consapevolezza che essa rimandi ad un’altra ripresa, ad uno spazio che, in questo caso, è collocato esattamente di fronte al precedente (9).
L’insoddisfazione dello spettatore è presto appagata: lo spazio filmico immaginario viene subito riempito, infatti, dalla seconda inquadratura.
Il processo appena descritto, la frustrazione dello spettatore così placata, prende, appunto, il nome di “sutura”, nuovamente definita da Oudart come “l’abolizione dell’Assente e la sua resurrezione in qualcosa d’altro” (10).

Perciò si accennava all’esigenza di “contestualizzare l’immagine”: un singolo frammento del discorso permette, infatti, di situare con maggior precisione ciò che lo ha preceduto, ricollocandolo in una definitiva dimensione interpretativa, e di creare ulteriori aspettative verso il seguente anello della catena.
Alla fine dell’operazione di sutura, otterremo una rappresentazione del mondo che apparirà coerente e compiuta, proprio perché la risoluzione del rapporto fra il campo dell’Assenza ed il significante che lo ha evocato avverrà secondo logica, la “logica del cinematografo, attraverso questo secondo livello di lettura che rivela il funzionamento delle sue immagini” (11).
Non va dimenticato, tuttavia, il primo livello di lettura, poiché, ci avverte Oudart, l’abitudine all’analisi linguistica tende a farci dimenticare che le immagini possono operare come cellule autonome, e che la loro articolazione ha luogo solo in un momento successivo, attraverso un elemento ad esse esterno (un enunciato linguistico) o interno (la presenza di significanti comuni).
E, forse, possiamo aggiungere che il vero funzionamento del testo, il vero effetto di realtà, si produce quando l’articolazione viene occultata, o quando si sveli solo all’occhio più distante e consapevole dello studioso. Il fruitore, dal canto suo, deve percepire l’immagine come logica conseguenza di quella che l’ha preceduta, e l’intera “rappresentazione suturata” nel suo complesso; in altri termini, lo spettatore improvvisamente conscio dell’articolazione rivela che, probabilmente, qualcosa non sta funzionando.
Per utilizzare la parole di Alan Moore (12),

È importante che il lettore non si svegli finché non siate voi a volerlo, e le transizioni fra le scene sono i punti deboli dell’incantesimo in cui cercate di irretirlo,

a testimonianza che la consapevolezza sia prerogativa di chi ha modo di “smontare” il testo, e in primo luogo di chi ne assembla i singoli elementi, in modo da fornire, tanto ad essi quanto al lettore che ne percepirà l’aggregazione, una dimensione di coerenza e continuità.
Come il processo di sutura operi anche, e forse a maggior ragione, nel fumetto, è dimostrato dalla natura dell’azione retrospettiva di un’immagine nei confronti della vignetta precedente.

Se un’inquadratura cinematografica, abbiamo osservato, permette “al frammento già visto di risituarsi” (13), il quadro del fumetto esercita un’azione più imponente, sicuramente di più ampio respiro: mentre l’immagine cinematografica è, se non altro, temporalmente determinata, quella del fumetto è “uno spazio che acquista una dimensione di temporalità” (14), rendendo l’apporto del lettore ancor più determinante rispetto all’intervento dello spettatore di un film. E quali siano i mezzi attraverso i quali questa acquisizione abbia luogo sarà argomento del prossimo paragrafo.
Per il momento, limitiamoci a considerare come il singolo quadro, di per sé unità significante, possieda un significato spesso vago, equivoco, pienamente definito solo dal rapporto con le vignette attigue.
Osserviamo l’immagine in figura: una donna, armata di fucile, si trova accanto ad una scia di sangue (come risulterebbe evidente dal colore rosso della tavola originale).
Il fatto di esprimere un’ipotetica durata, però, non fornisce alla vignetta le informazioni indispensabili alla ricostruzione del movimento: la raffigurazione, in questo caso (non è sempre così, la vignetta dal contenuto inequivocabile esiste), condurrebbe ad un’interpretazione dalla dubbia verosimiglianza, sicuramente fuorviante.

Le ipotesi che si possono avanzare sono numerose: la ragazza (Tulip, la donna di Jesse Custer) può essere immobile, probabilmente perché di guardia, il suo sguardo può essere o meno rivolto alla scia (e quindi potremmo presupporre un raccordo verso la vignetta successiva), e nel caso in cui stia effettivamente guardando il sangue sul pavimento, la ragazza potrebbe essere indotta a seguirne le tracce.
È chiaro, quindi, come anche la catena significante del fumetto presenti caratteristiche analoghe a quella del cinema, secondo l’ipotesi di Oudart: indubbiamente l’esigenza di riempire un vuoto si presenta anche per il lettore dei comics, il cui sforzo di ricostruzione è sicuramente maggiore rispetto a quanto richiesto allo spettatore di un film.
L’immagine cinematografica possiede una cadenza regolare, ignota invece alla vignetta. La sutura, nel nostro caso, non pone solo il problema dell’immagine come significante di un’Assenza, ma anche dell’esistenza di una Assenza già evidente (l’ellissi che fa capo all’illustrazione statica) che deve essere soddisfatta, pena l’incomprensibilità dell’immagine stessa.
In altre parole: il contenuto della vignetta, soprattutto se analoga a quella in esame, è un’unità di per sé incompiuta, che necessita di un’altra inquadratura non tanto per risituarsi, quanto per definirsi, e solo successivamente per articolarsi dialetticamente con la raffigurazione successiva. Così isolata, la figura proposta non può essere considerata rappresentativa di alcunché.
Chiariamo la questione osservando la striscia qui di seguito: la prima e la terza vignetta, prima ancora di costituirsi, insieme alla seconda, come unità spaziale e temporale, consentono a quest’ultima di determinarsi come rappresentazione di un movimento, di cui conosciamo la direzione grazie ad un raccordo sullo sguardo e alla presenza di elementi significanti comuni (il sangue e la porta).

L’autore, quindi, ha correttamente valutato ciò che Manfredo Massironi (15) definisce come

“il grado di somiglianza che bisogna conservare, e di differenza che bisogna immettere in immagini successive perché siano tenute insieme dall’attività cognitiva di un lettore-osservatore, in modo da essere colte come momenti diversi si un unico accadimento che si dipana nel tempo”

E l’ellissi? Essa rimane tale, dal momento in cui non è possibile rappresentare tutte le fasi di un movimento, soprattutto se, come presumibilmente avviene in Preacher, il tempo del racconto (e di lettura) vuole essere il più possibile aderente al tempo della storia. Ma, se non altro, essa non è più indefinita, poiché viene delimitata dall’intervallo spaziale, e quindi temporale, desumibile dalle vignette, che forniscono indicazioni sulla probabile distanza percorsa dalla protagonista.
Il “qualcosa d’altro” che sostituisce l’Assenza, quindi, nel fumetto è soprattutto un concetto che deve essere dedotto, una porzione di spazio-tempo che, in ogni caso, non verrà mai interamente visualizzata: in questi termini, e solo in questi termini, si esercita l’immaginazione del lettore, la libertà di ricostruire i particolari di una scena.
Ma, a questo punto, il processo interpretativo si sarà già concluso. La proiezione dello svolgimento della scena nella mente del lettore, nella misura in cui sarà costituita da particolari di fantasia, non sarà che un elemento accessorio alla comprensione più profonda, per quanto appagante ed inevitabile al termine del ragionamento deduttivo.

Piuttosto, può stupirci come la ricostruzione avvenga con successo laddove l’omissione sia particolarmente consistente: in questo caso, avremo una dimostrazione lampante dell’importanza del lettore nella strategia testuale del fumetto.
Riconosciamo, tuttavia, il fondamentale intervento in aiuto del lettore delle strutture discorsive e narrative, e delle conseguenti aspettative che, assecondate o meno dagli sviluppi del testo, contribuiscono a chiarirne, o a farne intuire, lo svolgimento in alcune circostanze (16). Parliamo dei generi, delle relative situazioni ricorrenti, delle figure specifiche, dei modelli di riferimento che indirizzano il lettore ad un’accurata, anche se non necessariamente definitiva, selezione delle conoscenze necessarie dal proprio patrimonio enciclopedico.
Volendo riassumere il concetto con una formula, potremmo affermare che la sutura, nel fumetto, è il processo mediante il quale il lettore, coadiuvato dal testo, è in grado di far emergere i frammenti della catena discorsiva sottesi all’ellissi.

2.1 Il tempo nella narrazione a fumetti

I processi di ricostruzione nel racconto a fumetti ruotano intorno ad un’inequivocabile percezione del tempo, dato che ipotizzare un movimento a partire da una vignetta significa anche stabilirne la durata effettiva.
E, viceversa, la certezza di una durata limita il corpus di ipotesi sul tipo di movimento che in quell’arco di tempo possa essere avvenuto.
Gli esempi precedentemente riportati sono, quindi, ugualmente analizzabili sotto il profilo temporale: dal momento in cui ci domandiamo cosa accada in una vignetta, ci chiediamo implicitamente quanto duri l’evento in essa rappresentato.
La delimitazione dell’ellissi, quindi, ci riporta ad un concetto già richiamato dalla letteratura sia fumettistica, sia cinematografica: affinché l’azione sia correttamente interpretabile, si pone come condizione necessaria la misurabilità dello scarto temporale, nel nostro ambito di analisi tanto più precisa quanto in numero maggiore si presenteranno le vignette intermedie.
Alcune illustrazioni, in particolar modo le rappresentazioni del movimento nelle scene d’azione, possiedono la sufficiente convenzionalità per svolgersi in un unico quadro, la cui durata si può stabilire con ottima approssimazione: il problema è sempre quello della scelta della vignetta, perciò rimandiamo direttamente alle considerazioni già effettuate nel cap.2.

Daniele Barbieri (17) invoca anche un “tempo medio di lettura”, considerando che il fumetto, a causa della sua matrice letteraria, si presta a modalità di fruizione variabili in base alla velocità e alla duttilità del lettore.
Indubbiamente, questo parametro di valutazione non sarà estraneo ai criteri di sceneggiatura, nel tentativo, da parte dell’autore, di dar luogo ad una narrazione fluida e di immediata comprensibilità.
E’ vero, inoltre, che il lettore di fumetti, non vincolato alle scadenze di un testo temporalmente già determinato, può fermarsi, cercare chiarimenti nelle pagine precedenti, tentare di cogliere richiami, rimandi, riferimenti non finalizzati alla narrazione: a questa possibilità fa eco, dalla parte dell’autore, un’abbondanza di citazioni più o meno nascoste, che offrono il testo ad una eventuale seconda lettura.

Il pericolo di confusione si origina, tuttavia, dal momento in cui consideriamo il tempo di lettura alla stregua dei parametri con cui valutiamo il decorso di un evento: esso va piuttosto calcolato nella misura in cui contribuisce a fornire un ritmo all’evento rappresentato, in rapporto, certamente, alla durata, ma soprattutto alla dimensione delle vignette.
Per il resto, assumiamo la nozione di tempo nel fumetto nell’unica accezione di entità dell’ellissi, le cui proporzioni si deducono attraverso i principi che regolano il rapporto fra le vignette poc’anzi approfonditi. Tutti gli artifici retorici successivi, atti a produrre effetti di rallentamento o accelerazione sull’azione rappresentata, e quindi sulla lettura, non pregiudicheranno la percezione della sua durata originaria, né della sua aderenza ad un’analoga situazione reale.
Per questo motivo, è opportuno adottare la distinzione tra durata reale e durata apparente di un evento; la prima emergerà dalla seconda una volta eliminati i condizionamenti del tempo di lettura.
Ad un livello superficiale, possiamo accettare la comune concezione secondo la quale a maggiori dimensioni della vignetta corrisponderebbe una più estesa durata. Non si può, tuttavia, sottoscrivere tale affermazione senza la dovuta cautela; in caso contrario, le precisazioni appena suggerite non avrebbero senso, dal momento in cui tra durata e tempo di lettura non occorrerebbe alcuna distinzione (18). Le possibilità di scelta di campo e piano di ripresa, ad esempio, oltrepassano questa semplicistica relazione di corrispondenza tra estensione spaziale e temporale del quadro.
L’equivalenza, infatti, non sussiste già nell’eventualità in cui le proporzioni del disegno aumentino con l’aumentare della superficie da esso occupata, o non appena in una vignetta si presenti un dialogo.
Le illustrazioni presentate, ridimensionate per esigenze di spazio ma intatte nei rapporti originari, ci mostrano, infatti, come un dialogo risulti determinante nella percezione della durata di una vignetta.
È vero che la seconda si estende verticalmente in misura maggiore rispetto alla prima, senza tuttavia pregiudicare la validità del concetto che stiamo esprimendo; in ogni caso, la più massiccia presenza di testo scritto in una delle due vignette, accomunate anche dallo stesso piano di ripresa, garantisce la possibilità di ricoprire un arco di tempo maggiore.

Generalmente la didascalia e l’appoggiatura non sortiscono un analogo effetto, poiché intervengono solamente sul tempo di lettura; sono equiparabili al testo del dialogo quando vengono lette da un personaggio, o se si presentano sotto forma di racconto in prima persona, ad esempio in una particolare tipologia di flashback.
L’analisi della striscia tratta da Preacher dovrebbe aver dimostrato, anche in ambito temporale, l’occasionale impossibilità di valutare lo svolgimento di un’azione a partire dalle singole inquadrature; alla luce di ciò, possiamo ragionevolmente muovere un’ulteriore obiezione alla pretesa di verificare, indistintamente, l’estensione di un’unica vignetta sulla base delle dimensioni spaziali. In sintesi, potremmo assumere come valide le nozioni di durata relativa e di durata assoluta, in riferimento alle modalità con cui essa può essere espressa dal testo e recepita dal lettore.
L’evento distribuito nell’arco di più vignette, o, meglio, la vignetta che necessita di altre inquadrature per definirsi, rientra nella prima categoria; della seconda fanno parte le inquadrature univocamente determinabili dal punto di vista temporale.

È evidente come la presenza di un dialogo collochi l’illustrazione nella seconda tipologia, in cui si riscontra, fra l’altro, la coincidenza tra durata e tempo di lettura.
Si prestano ad una analoga considerazione le vignette fortemente tipizzate, prevalentemente realizzate sui presupposti dell’analogia grafica; in questo caso l’estensione temporale del quadro si deduce dal rapporto che il movimento rappresentato intrattiene con l’esperienza in merito condivisa da autore e lettore, ovvero sui criteri basilari sui quali lo stesso concetto di analogia si costituisce.
La tavola qui riprodotta, tratta da Sophia di Daniel Zezelj, dimostra, in ogni caso, come l’immagine non possieda necessariamente una precisa determinazione, e come in particolari circostanze l’attribuzione di una durata possa essere incerta; quest’ultima eventualità è avvalorata in particolar modo dai manga, che usufruiscono di forme analoghe al montaggio analitico rilevato nelle tavole di Crepax (l’esempio riportato è un estratto di sue tavole di Emanuelle).
La vignetta può apparire più estesa, o persino perdere la propria connotazione temporale, mediante l’utilizzo di pochi stratagemmi, tanto semplici quanto fondamentali nell’economia delle tecniche narrative: l’omissione di indizi sulla durata, l’eliminazione del bordo, e la coincidenza di uno o più margini con i limiti stessi della pagina.
È singolare come la percezione di un evento illustrato possa cambiare radicalmente in relazione ai confini del quadro; a parità di contenuto, l’assenza del tradizionale rettangolo a china offre allo sguardo l’idea di una dilatazione, di un indistinto proseguimento oltre le tracce fornite dal disegno. Da questo particolare fenomeno percettivo possiamo desumere che la natura del fuoricampo, per quanto riguarda il fumetto, non è univocamente definibile; la concezione del rapporto tra spazio rappresentato e spazio off è intimamente connessa alla precisione con cui essi sono suddivisi.

Alcune vignette si collocano all’estremo opposto sul piano della durata, ma, analogamente alle categorie appena considerate, appaiono prive di qualsiasi riferimento che manifesti una chiara definizione temporale: ci riferiamo alle immagini assimilabili al fermo-immagine cinematografico.
Questo genere di illustrazioni, come la precedente tipologia, non presenta, infatti, alcuna particolare attinenza con le vignette attigue, né segnali specificatamente indicativi al proprio interno, in modo da rinviare ad un’ellissi definibile.
Paradossalmente, il problema che si presenta al disegnatore è quello di dover imprimere un’apparenza di staticità ad un’immagine fissa, in un contesto generale in cui l’immobilità, entrata in paradigma con gli elementi della propria catena sintagmatica, si fa carico di uno spazio-tempo soggiacente.
Quali sono, in ultima analisi, gli espedienti grafici utili alla realizzazione dello stop-frame? Uno su tutti: la verticalità della vignetta, in grado di ridurre notevolmente l’arco temporale su cui si estende un’inquadratura, in caso di percorso di lettura orizzontale.

In secondo luogo, la scelta del piano di ripresa deve limitarsi alle opzioni comprese tra il primo piano e il dettaglio, dal momento in cui una visuale più ampia, consentendo allo sguardo di spaziare attraverso un’area più particolareggiata e presumibilmente più estesa, consentirebbe al lettore di avanzare congetture riguardo ad una ipotetica durata. Di conseguenza, viene privilegiata la vignetta di dimensioni ridotte.
Talvolta, senza un contesto che lo renda individuabile, può risultare difficoltoso riconoscere un fermo-immagine composto da un unico quadro; costituisce, perciò, una pratica diffusa la giustapposizione di più vignette realizzate secondo i parametri descritti, che emergeranno dal contesto come un’unità sintattica autonoma.
La monotonia di una serie di quadri identici fornirà un’impressione di staticità, e, occasionalmente, di contemporaneità o di successione ravvicinata degli eventi raffigurati; quest’ultimo espediente è particolarmente indicato nel caso si voglia produrre un effetto di ralenti.
La costanza di una struttura grafica, inoltre, semplifica notevolmente il lavoro di decodifica, al punto da essere adottata anche in circostanze narrative normali. Nel nostro caso, la ripetizione di un formato (tanto le dimensioni del quadro quanto il piano di ripresa rimangono immutati) consente di valutare l’entità dell’ellissi in modo definitivo di primo acchito, senza il bisogno che il lettore eserciti nuovamente lo sforzo deduttivo.
La temporalità può anche essere suggerita; di seguito assistiamo ad un esempio di questa prassi che il fumetto adotta con una certa frequenza, in particolar modo quando si manifesta l’esigenza narrativa di enfatizzare il passaggio del tempo.
L’artificio retorico, atto a rallentare la velocità di lettura, colloca così l’evento in un’atmosfera in cui il senso di attesa viene esasperato, dal momento in cui la situazione rappresentata, in sé, non sarebbe né sufficientemente rilevante, né particolarmente duratura.

Per concludere, la staticità dell’illustrazione ci riconduce ad un concetto emerso grazie a Gubern, analizzando le prerogative della vignetta, ovvero la nozione di vignetta asincrona, definita dalla presenza di eventi non simultanei nel medesimo quadro. L’eventualità è tanto più probabile quanto più esso si estende in senso orizzontale, poiché la mobilitazione dello sguardo da sinistra verso destra costituisce, di per sé, un indice del trascorrere del tempo.
In linea generale, possiamo attribuire una maggiore estensione temporale alla vignetta disposta secondo il percorso di lettura, e l’espressione dell’istantaneità agli elementi distribuiti sull’asse ortogonale al precedente; non dimentichiamo, tuttavia, che la direzione del montaggio può cambiare anche all’interno della stessa tavola, come risulta evidente dall’esempio di Crepax.
Una componente asincrona, era stato rilevato, è presente anche nelle vignette in cui un unico evento è caratterizzato dalla presenza di un dialogo assieme all’immagine.
In effetti, questa è la principale problematica originata dalla compresenza di un disegno e del testo scritto: alla certezza e alla linearità della durata si accompagna la congelata istantaneità dell’espressione iconica, il cui movimento viene comunque ricostruito, alla luce di un arco di tempo già assolutamente determinato.
E, ovviamente, il fenomeno sarà tanto più evidente, quanto maggiore sarà la quantità di testo scritto presente nella vignetta, compatibilmente con la superficie da essa occupata nell’ambito della tavola.

2.3 Il concetto di closure in Scott McCloud

La traduzione italiana del testo di McCloud mantiene invariato il termine inglese “closure ”, per l’impossibilità di riscontrare, nella nostra lingua, un vocabolo altrettanto rappresentativo della complessa accezione con cui esso viene inteso dallo studioso statunitense.
Analogamente alla nozione di “clôture ” nel testo di Oudart, quindi, il concetto necessita di alcuni chiarimenti, e di alcune distinzioni per il criterio estensivo con cui McCloud definisce il processo psicanalitico del lettore.
Il traduttore italiano ne precisa il significato con un’espressione che ben caratterizza il procedimento logico-deduttivo della ricostruzione, considerato, infatti, un “completamento per inferenza in base all’esperienza” (19).
Prosegue, il curatore, assimilando il concetto, sul piano del discorso linguistico, alla figura retorica della sineddoche, la pars pro toto che incontriamo con una certa frequenza anche nell’analisi dell’immagine cinematografica.
Iniziamo ad accorgerci, quindi, di come la definizione della closure abbracci un dominio sicuramente più esteso rispetto alla concezione di “sutura”: la nozione di “sineddoche” si presta a ricoprire un ambito di fenomeni che oltrepassano, in quantità, la cerchia ristretta dei casi che possono rientrare nella più raffinata analisi di Oudart.
Innanzitutto, è facile dedurre come McCloud non intenda limitare il proprio approfondimento alle forme del discorso, ai completamenti in atto nel corso dell’enunciazione; la dialettica alla base della catena sintagmatica resta, indubbiamente, il fulcro della discussione, dal momento che il processo interpretativo fonda i propri principi sulla ricostruzione delle strutture ellittiche (20), ma le circostanze di applicazione del concetto non si esauriscono a questo punto.

In sintonia con la più frequente accezione cinematografica di “sineddoche”, McCloud afferma che la closure, in quanto processo deduttivo ad opera del lettore sulle varie “assenze” del testo, interviene anche a livello della singola immagine: a stabilire, quindi, i rapporti dell’inquadratura con il relativo fuoricampo, oggetto di ricostruzione tanto quanto i più rilevanti particolari della catena sottesi all’ellissi.
Analogamente, questo percorso ci permette di risalire dal particolare alla totalità, in tutte le forme in cui tale esigenza possa esprimersi: così, esercitiamo la closure nel momento in cui in un’immagine stilizzata riconosciamo un volto, o quando una visione parziale di un oggetto — anche di un oggetto reale — non ci impedisce di identificarlo (21).
McCloud, quindi, definisce un procedimento psicanalitico dai contorni molto vasti, nel quale ricoprono una notevole rilevanza gli aspetti della convenzionalità e dell’esperienza condivisa.

Possiamo muovere obiezioni a questa prospettiva così ampia? Indubbiamente, il terreno della ricerca può apparire eccessivamente eterogeneo, tuttavia l’approccio di McCloud appare, se non pienamente condivisibile, perlomeno giustificato.
Il concetto di closure, infatti, comprende volutamente tutte le fasi del processo interpretativo, dall’utilizzo dei codici specifici del mezzo alla ricostruzione della catena discorsiva, fino ad analizzare (considereremo a breve il contenuto della fig.3.5) le possibilità legate al montaggio e al “potere deduttivo” del lettore.
Il fumetto viene studiato in quanto linguaggio ellittico: di conseguenza, il concetto di ellissi si estende a tutti i settori dove si eserciti qualsiasi sorta di completamento, di riempimento, sebbene la natura del vuoto da colmare non sia di certo univoca.
L’approccio di McCloud consiste nell’attribuire identica rilevanza — o nel non effettuare esplicitamente le dovute distinzioni — a tutti i processi in gioco, a tutte le possibili applicazioni della sineddoche.
Per quanto la definizione del fuoricampo possa, a buon titolo, rientrare nelle operazioni di sutura in qualità di oggetto di deduzione, non è sempre detto che essa sia indispensabile alla ricostruzione del tempo e del movimento. È quindi naturale che la padronanza dell’ellissi costituisca la priorità per il lettore, che certamente sarà meno interessato (e sicuramente meno impegnato) a qualsiasi congettura sullo spazio off, nella misura in cui esso non sia funzionale ai meccanismi della catena sintagmatica.

Allo stesso modo, non si riscontra una distinzione tra i criteri di interpretazione basati sullo sforzo deduttivo e quelli fondati sulla convenzionalità del segno; queste perplessità, che pure non intaccano il valore del lavoro di McCloud, hanno portato all’attuale configurazione del presente capitolo, in modo da poter approfondire, distintamente ma con soluzione di continuità, gli elementi che danno luogo alle problematiche del testo a fumetti.
Ad ogni modo, la nozione di closure costituisce, a tutt’oggi, un potente e fondamentale strumento di analisi, soprattutto se consideriamo la scarsità di approfondimento che gli studiosi hanno riservato a questo argomento, nella maggior parte dei casi relegato a poche righe sul concetto di “partecipazione attiva” del lettore.
Un ultimo aspetto della questione emerge dalla figura riportata qui sotto: la stessa storia viene narrata in tre forme differenti (rispettivamente di dieci, quattro, e due vignette), o, meglio, storie diverse hanno origine dalla rinuncia ad alcune immagini delle catene precedenti.

La conseguenza? Innanzitutto la consapevolezza che, grazie agli indizi che collegano la prima e l’ultima vignetta, il fulcro che regge la trama rimane invariato in tutte le occorrenze.
In secondo luogo, la figura è un chiaro esempio di come i margini di intervento del lettore aumentino con il diminuire dei segnali forniti dal testo: ma, a riprova di quanto affermato poc’anzi, essi non riguardano i rapporti di causa-effetto fra gli eventi, quanto, piuttosto, le circostanze per lo più accessorie in cui essi si sono sviluppati (22).
Ciò che preme sottolineare, tuttavia, è la possibilità di giungere a determinate conclusioni mediante il semplice accostamento di due inquadrature dal contenuto decisamente difforme; se la cosa non ci stupisce nell’esempio riportato, consideriamo che ciò si verifica anche nel caso di immagini prive di un legame analogamente forte sul piano logico.
Potenza del montaggio? Indubbiamente la risposta è affermativa, sebbene la definizione dovrebbe essere un’altra. Le prerogative dell’attività di montaggio, infatti, non sono altro che il corollario, l’esplicita manifestazione di un processo più profondo, più complesso, attraverso il quale chiunque tende a stabilire un nesso logico tra due immagini, anche le più slegate e prive di qualsiasi relazione apparente.

Un nesso che si traduce, nella mente del lettore, nella catena del discorso fino a quel momento sottaciuta, sottratta alla percezione dalle omissioni di un linguaggio ellittico.
Il lettore, in altri termini, tende a stabilire un legame di necessità tra le immagini, anche quando vi sussistono notevoli discrepanze. L’esistenza di una categoria come il non-sequitur (23) dimostra le potenzialità di una tale predisposizione, e sottolinea, da ultimo, come il fenomeno non sia ignoto agli autori di comics.
Anche per questo motivo è auspicabile, da parte degli studiosi, un approfondimento delle problematiche relative all’interpretazione, ed un tempestivo ritorno sugli interrogativi posti da Scott McCloud, perché non cadano nel vuoto come in altre occasioni è analogamente avvenuto.

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