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Omnia

Spazio del moderno e metafora del labirinto

Lo spazio del moderno è il labirinto metropolitano. Una dimensione nuova, che mette in discussione metafore e distinzioni consolidate nel passato. Tradizionalmente, l’immagine del labirinto viene utilizzata per descrivere la selva, la foresta: intrico naturale, forma senza forma, in cui il viaggiatore — disorientato — rischia di smarrirsi, restando senza vie d’uscita. Le mura della città sono la metafora del mondo razionalmente costruito, che il loro interno custodisce. Un sistema di semplici coordinate esprime questa concezione del mondo: l’opposizione tra città e campagna ricalca la distinzione tra mente e corpo, tra res cogitans e res extensa, proposta da Cartesio. Colonizzare il mondo a partire dalla cittadella fortificata della ragione, osservare il corpo e le sue passioni, con la lente d’ingrandimento dello scienziato: è questo il sogno della ragione cartesiana.
Ma, a partire dal secolo scorso, nasce la grande metropoli, si allungano le periferie, i confini tra città e campagna si distendono, si sfrangiano, si fanno sempre più sfumati. Il disordine della foresta penetra nell’intrico delle strade cittadine, nella folla in movimento, nel traffico delle ore di punta. Anche le metafore della ragione cartesiana entrano in crisi. Diventa sempre più evidente l’inadeguatezza delle mappe mentali usate per descrivere i territori che ogni giorno attraversiamo. La città non è più la terra ferma, che — con le sue certezze — offre rifugio ai piedi incerti del viandante, del navigatore. L’onda della folla che avanza fa pensare alla piena ingobbita di un fiume che straripa dagli argini. La pubblicità, le insegne al neon, i richiami acustici e luminosi, rendono “liquide” le nostre percezioni. Come ha scritto Bateson, “la mappa non è (o non è più, aggiungiamo noi) il territorio” (Bateson 1976). La realtà e le sue rappresentazioni s’intersecano e si confondono: “Non è facile determinare con certezza le vie del mare, scrive Predrag Matvejevic, forse perché s’intrecciano con le storie raccontate su di esse” (Matvejevic 1987, p.149).

Tre tipi di mappe

Fredric Jameson distingue tre tipi di mappe, corrispondenti a tre diversi modi d’intendere il rapporto tra il singolo e la totalità di cui fa parte.
Un primo modello di mappa, utilizzato già nell’antichità, è rappresentato dalla carta nautica, o dal portolano.
Si tratta di un’operazione pre-cartografica, i cui risultati sono descritti tradizionalmente come itinerari, piuttosto che come mappe: un insieme di diagrammi, ancora organizzati in funzione del soggetto autocentrato o del viaggio esisitenziale. Diagrammi che sono imparentati con i diari di viaggio: proiezioni del soggetto, rappresentazioni cartografiche del desiderio, sentieri di sogno. Le carte nautiche e i portolani sono ancora in uso presso navigatori che si avventurano raramente in mare aperto: consentono piccole diversioni dalla vita quotidiana, navigazioni “sotto costa”, brevi avventure, tanto per saggiare la fluidità del mare, pronti a poggiare nuovamente i piedi in terra ferma alle prime avvisaglie di tempesta.

Un secondo modello applica alla cartografia una razionalità di tipo cartesiano. È la carta geografica vera e propria, realizzata con l’ausilio di strumenti (bussola, sestante e teodolite) e con l’introduzione di coordinate (longitudine, latitudine) che — fatto del tutto nuovo — introducono un riferimento alla totalità. In questo modo, è sempre possibile determinare con precisione la posizione del soggetto sulla carta. Ma si introduce un paradosso, perché il dato esistenziale, la posizione empirica del singolo, viene messo in rapporto con la nozione astratta, cioè non-vissuta di totalità geografica.
Un passo ulteriore e siamo di fronte al mappamondo e alla proiezione di Mercatore, che introducono la terza dimensione nella cartografia, ponendo la questione dei linguaggi rappresentazionali e, più in particolare, il dilemma del trasferimento di uno spazio curvo su carte piane. A questo punto diventa chiaro che non ci sono mappe vere in assoluto: lo stesso territorio potrà essere rappresentato in mille modi differenti. La mappa acquista un valore, per così dire, simbolico: l’America dai contorni stranamente ingigantiti “dice” qualcosa di più del semplice dato cartografico. Parla del potere economico e politico di un continente (Jameson 1984, pp.98-99).

La crisi dei linguaggi rappresentazionali esprime — nel freddo linguaggio della scienza — una caratteristica fondamentale del moderno: la rottura del “patto mimetico” tra cose e parole. Come dice George Steiner, citando Mallarmé, la parola fiore non hanéstelo né foglia né spina. Non è né rossa né gialla. Non emana nessun profumo. È un segno vuoto. Una marca fonetica totalmente arbitraria (Steiner 1992, p. 97). A partire da questa rottura, compiutasi in Europa tra il 1870 e il 1930, la scrittura diventa la danza infinita dei significanti attorno all’arca vuota del significato. La vita stessa rischia di diventare gioco di gesti e di parole, dietro cui ci nascondiamo, per non esporre la nostra verità. O il nostro mistero.
La crisi della ragione “cartografica” procura all’uomo una sensazione di disorientamento radicale, come se le pareti di un vecchio labirinto fossero cadute e ci si aprisse davanti la prospettiva di un infinito deserto di sabbia: il labirinto assoluto. Senza porta d’entrata. E senza porta d’uscita (1952; trad.it.1991, p.135).Vorremmo provare a transitare attraverso queste immagini, per vedere se “irrapresentabile” significhi necessariamente “inconoscibile”, invivibile, inabitabile.


Verso una scienza del gioco?

Proviamo ad applicare la tripartizione proposta da Jameson alle “mappe” costruite dagli scienziati: appare chiara la necessità di decostruire le immagini necessitanti e monolitiche proposte dalla ragione cartesiana, convinta di poter identificare un nucleo finito di leggi, presupposti, metodologie, cui ricondurre le molteplici dimensioni del cosmo. Come dice Mauro Ceruti, il venir meno degli attributi di permanenza e di necessità delle regole, il reinserimento del soggetto e dell’osservatore nel tessuto delle conoscenze, una nuova interpretazione — probabilistica — delle leggi di natura “convergono nel prospettare un mutamento epistemologico nel pensiero scientifico, che possiamo definire, a grandi linee, come passaggio da una scienza della necessità ad una scienza del gioco” (Ceruti 1986, p. 17). Qual è la differenza? La scienza classica, la scienza della necessità, pone a proprio oggetto ciò che è regolare ed invariante. Una nuova scienza del gioco presuppone invece un rapporto tripolare tra vincoli, caso e strategie dei giocatori. Spiega Ceruti: il decorso del gioco comporta l’interazione “fra le regole poste come vincoli e come costitutive del gioco, il caso e la contingenza di particolari eventi e particolari scelte, e le strategie dei giocatori volte ad utilizzare le regole ed il caso per costruire nuovi scenari e nuove possibilità… Con l’avvertenza che le regole del gioco ed i vincoli talvolta possono cambiare“(ibidem).

I giochi: una classificazione

Ma quale tipo di “gioco” può consentirci di abitare il labirinto metropolitano e le mappe, sempre più incerte e variabili, che “intrecciano” la sua infinita mobilità?
Caillois propone una suggestiva classificazione dei giochi in quattro categorie fondamentali.

Agon: appartengono a questa categoria i giochi che presentano le caratteristiche della competizione. Gli antagonisti si affrontano con uguali probabilità di successo, in modo da attribuire un valore incontestabile al trionfo del vincitore.

Alea, il termine che individua la seconda categoria,è la parola latina che indica il gioco dei dadi. Qui è adottata per designare i giochi che si fondano su una decisione che non dipende dal giocatore e sulla quale egli non può minimamente fare presa. In queste situazioni si tratta di vincere non tanto su un avversario quanto sul destino.

Mimicry, parola inglese che indica il mimetismo: con questo termine Caillois designa la terza delle sue categorie. In questo caso il gioco consiste nel diventare un personaggio illusorio, comportandosi di conseguenza. Il piacere del gioco deriva dal fatto di essere un altro o di farsi passare per un altro, come nei travestimenti carnevalizi.

Ilinx. È il termine utilizzato da Caillois per descrivere i giochi che si basano sulla ricerca della vertigine: consistono nel tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione, facendo subire alla coscienza una sorta di panico voluttuoso.
Tutti i giochi — aggiunge Caillois — si organizzano a partire da un impulso primordiale, che potremmo chiamare paidia, nel quale si esprime un’esigenza di distensione, di distrazione, di accesso ai territori della fantasia. Ma si incontrano con il gusto della difficoltà gratuita, con la dimensione intellettuale del gioco — che Caillois chiama ludus – fino ad assumere una funzione civilizzatrice (Caillois 1981).
Posto che si possa considerare il labirinto come un gioco, in cui è inscenata la vertigine dello smarrimento, l’ambivalenza di ludus e paidia si rende qui particolarmente evidente.


Il labirinto di Cnosso

Parliamo allora del labirinto di Cnosso. Costruito da Dedalo, architetto Ateniese e personaggio apollineo, manifesta — a prima vista — le caratteristiche del ludus, del gioco artistico, dell’artificio misurato e controllato dalla mente. Dunque, può essere considerato una prefigurazione del logos. Come scrive Dürrenmatt, il labirinto segna lo spartiacque tra logos e follia, tra kosmos e caos. Anche il Minotauro, ad un certo punto, capisce che “il labirinto c’era per causa sua, solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza di uno come lui non era consentita dal confine posto tra animali e uomini e fra uomini e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito” (Dürrenmatt 1981; trad.it. 1997, p. 367).
D’altro canto, la creatura che il labirinto è destinato a custodire, il Minotauro, potrebbe essere intesa come una raffigurazione del dio Dioniso.
E allora, paradossalmente, la situazione si rovescia: il labirinto si presenta come una creazione dell’individuo apollineo, posta tuttavia a servizio di Dioniso: un dio “ha fatto costruire il Labirinto per piegare l’uomo, per ricondurlo all’animalità”. Nel labirinto, metafora della ragione, l’uomo rischia di perdersi e di andare in rovina (Colli 1975).
Non per nulla, il labirinto può essere guardato da una duplice prospettiva.

Osservato dall’esterno, appare come un gioco teatrale: illusorio e complesso, ma dotato di un ordine, di una chiave di lettura coerente. Visto dall’interno, nei suoi vicoli tortuosi, nelle sue strade senza uscita, nel mistero che è destinato a contenere, si configura come l’espressione di un impulso irrazionale, di un desiderio istintivo di perdere se stessi, e-vadendo dal controllo assillante della ragione.
Il labirinto può dunque essere considerato un gioco sospeso tra ludus e paidia, tra architettura e magia, tra mimicry e ilinx. Una situazione d’incertezza, in cui tutto diventa fluido, imprecisato, circolare, come un sogno che sogna se stesso: “Così, mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda” (Brodskij 1991, p.70, vedi anche il racconto “Le rovine circolari” in Borges 1955).


Il significato del labirinto

Il gioco del labirinto, come ricorda Kerenyi, ha un significato rituale: serve a scongiurare — rappresentandola — la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose. È un percorso in due tempi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero costituiscono la prima parte, in cui gli attori del gioco sperimentano la perdita di sé. Il ritorno alla luce rappresenta una nuova nascita, attesta la continuità della vita, che di generazione in generazione rinnova se stessa (Kerenyi 1983). Come nota Tagliaferri, il “cuore” del labirinto assomiglia a un utero materno e il filo di Arianna ad un cordone ombelicale. Il minotauro è un embrione, un germoglio “incistatosi” nel ventre della madre: ombra inquietante di possibilità inespresse, con cui, come vedremo, ciascuno è chiamato a confontarsi (Tagliaferri 1981).

È facile individuare la via d’uscita dal labirinto, quando lo si osserva dall’esterno, quando si dispone di una mappa totalizzante. Ma quando si è posti al suo interno e le mappe che lo descrivono sono parziali, contradditorie? “Quale sia la città che quelli dell’altipiano chiamano Irene non è riuscito a saperlo; d’altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso…” (Calvino 1993, p. 126).
Che cosa fare quando lo sguardo cerca di abbracciare dall’interno la città (o il labirinto) in cui è rinchiuso?
Bisogna innanzi tutto capire di quale tipo di labirinto si tratta.
Secondo Umberto Eco, possiamo distinguere tre situazioni diverse.

Il caso più semplice è quello del labirinto classico, quello di Cnosso per intenderci, che è unicursale. In questo caso, il percorso è obbligato: come vi si entra, non si può che raggiungere il centro e dal centro non si può che trovare l’uscita. Se il labirinto unicursale venisse srotolato, ci troveremmo fra le mani un unico filo. Dunque il “filo d’Arianna” non è il mezzo per uscire dal labirinto, ma — di fatto — il labirinto stesso.
La cosa si complica con il labirinto manieristico o Irrweg. In questo caso sono possibili scelte alternative: tutti i percorsi portano a un punto morto, tranne uno, che conduce all’uscita. Vagando al suo interno, si possono commettere errori, si è obbligati a tornare sui propri passi, per cui un filo di Arianna potrebbe essere utile. Tuttavia, quando viene srotolato, l’Irrweg assomiglia ad un albero, immagine della ragione cartesiana: sul tronco del metodo e dei postulati fondamentali, s’innestano teoremi e corollari, premesse e conseguenze, organizzando deduttivamente i diversi rami della conoscenza.

Il labirinto del terzo tipo è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Non si può srotolarlo, anche perché — a differenza dei labirinti del primo e del secondo tipo — non ha un interno e un esterno, dato che è estensibile all’infinito.
È questo il labirinto che descrive lo spazio metropolitano, lo spazio del moderno.
La sua forma estrema è quella del nonluogo: mondo promesso al provvisorio e all’effimero, spazio intermittente e senza storia, puro incrocio di mobilità e di traiettorie, nel quale individui senza volto si sfiorano senza parlarsi (Augé 1992).
I non luoghi danno la “misura” di un’epoca, quella che stiamo attraversando: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, grandi catene alberghiere, strutture per il tempo libero, reti cablate. Chi entra in questi spazi rinuncia alle proprie determinazioni abituali: diventa solo quello che fa come passeggero, cliente, guidatore. Partecipa all’identità anonima di una comunità provvisoria: “la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre”. Il non luogo è un’immensa parentesi, l’infinita periferia di una città senza centro e senza figura: “Nelle ultime carte dell’atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma” (Calvino 1993, p. 140)

Qui la situazione si complica terribilmente: non siamo più in grado di dire se esista ancora un dentro e un fuori da questo gioco. Non siamo sicuri che esista un “metodo” sicuro per orientarci al suo interno: i rimedi disponibili rivelano immediatamente la loro insufficienza.


Come uscire dal labirinto?

Uno di questi “trucchi” è quello che Guglielmo suggerisce ad Adso nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco: un complicato sistema di segni, da apporre alle aperture del labirinto, e che consente di ridare leggibilità, decifrabilità, a questa struttura. (Eco 1981) Ma il metodo si avvita su se stesso: Guglielmo e Adso rischiano di diventare vittime essi stessi di questa strategia, prigionieri del sogno di controllare passo passo, per prove ed errori, congetture e confutazioni, la materia informe del labirinto.
Altri metodi sono illustrati in Rosensthiel (1979). Uno di questi è il teorema di Arianna pazza: accelerare il ritmo del proprio cammino, tentare a caso tutti i percorsi possibili, nella convinzione, sostenuta dalla probabilità statistica, che prima o poi la via d’uscita verrà trovata.
Forse, la “soluzione” migliore è quella di affidarsi ad una sorta di miopia, quella che La Cecla chiama mente locale: non disponendo di una mappa che illustri la globalità del territorio, si cercherà di risolvere i problemi passo dopo passo, di sciogliere i nodi uno alla volta, deducendo le mosse ad ogni incrocio e ad ogni intreccio (La Cecla 1993).

Tentativi parziali, comunque. Per ritrovare un filo d’Arianna che forse non c’è più. Interrogativi che si fanno eco: e risposte come specchi, che si trasformano a loro volta in domande. Tracce che inseguono altre tracce. Passi che ridescrivono il perimetro di percorsi non chiariti. “In un certo senso, l’intera faccenda è un parto del cervello di Dedalo, e specialmente il labirinto, che infatti somiglia a un cervello. In un certo senso, ognuno è imparentato con ognuno: il cacciatore con la sua preda, se non altro. Non stupisce, quindi, che i vagabondaggi per le vie di questa città (una Venezia notturna, labirintico intreccio di strade, di piazze e di canali, ndr) abbiano un sapore tautologico” (Brodskij 1991, pp. 71-72). Il labirinto: luogo di mascheramenti e d’intransitabili nostalgie. E la maschera come ennesimo, inesorabile, travestimento dello stesso nulla, dello stesso vuoto. O come insondabile presenza / lontananza del mistero.


Imparare a smarrisi

E allora, dal filo d’Arianna l’accento si sposta sulla vertigine dello smarrimento, sul mistero che abita il cuore del labirinto. Come nota Calabrese, il “gioco” del labirinto consiste nel perdersi, per poi ri-trovarsi, ma va sottolineato che la vertigine dello smarrimento supera enormemente il piacere della soluzione (Calabrese 1987).
Non sappiamo se esiste un fuori, un “altrove” rispetto al labirinto in cui ci muoviamo. E allora il nostro compito diventa un altro. Non più, necessariamente, uscire, ma smarrirsi nel labirinto della città, senza perdere se stessi, senza farsi risucchiare dall’anonimato della folla impersonale. È un’arte ancora da inventare, tutta da costruire. Come dice Benjamin (1973): “Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare ”.
Forse il labirinto è metafora del mistero che abita la nostra vita quotidiana. E pretendere a tutti i costi di risolverlo, di scioglierlo, può essere un modo per occultarne la portata. È quanto riconosce Borges (1949): “La soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero stesso. Il mistero ha a che fare addirittura col divino; la soluzione con un trucco da prestigiatore”.


Il labirinto e l’ombra

Bisogna dunque disporsi a questo incontro col mistero. Solo due brevi annotazioni, che prendono lo spunto da un racconto dello stesso Borges, La casa di Asterione.
La prima osservazione è che il minotauro non è prigioniero del labirinto. Come Asterione (alias il Minotauro) fa notare: “Un’altra menzogna ridicola è che io … sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c’é una porta chiusa, e aggiungere che non c’é una sola serratura?” (Borges 1991, p. 65).
Dunque, la razionalità, le labirintiche costruzioni, con cui la nostra mente cerca di occultare il dionisiaco, potrebbero essere intese come semplici “maschere” dell’inconscio e del desiderio. E, tuttavia, “se la maschera nasconde il mistero, al tempo stesso, pur senza penetrarlo o spiegarlo, ne denuncia l’esistenza” (Rella 1996, p. 84).

La seconda considerazione riguarda gli sviluppi successivi di questa storia.
Teseo è appena uscito dal labirinto. La sua spada brilla alla luce del primo mattino. Ma egli appare inquieto, sorpreso. Avanza titubante: “Lo crederesti Arianna? Il Minotauro non s’é quasi difeso” (Borges 1991, p. 66).

Dunque, invece di essere quel mostro orribile che la tradizione ci ha descritto, il Minotauro, immagine del dio Dioniso, il dio-bambino che gioca a dadi, potrebbe rappresentare una parte di noi stessi troppo spesso forzatamente nascosta, trascurata, e che — come l’ombra di Jung (cfr. Jung 1916, Trevi 1982, Rovatti 1989) — aspetta soltanto di essere ri-conosciuta, accettata per quello che è.
Ma questo ri-conoscimento è sempre problematico, sembra aprire la prospettiva di una contraddizione inconciliabile.

Dürrenmatt legge la stessa situazione dalla parte del minotauro. Un minotauro dal “volto” umano. Lo scrittore svizzero immagina il labirinto come un’immane foresta di specchi, in cui la creatura misteriosa vede moltiplicata all’infinito la propria immagine riflessa. Una folla d’immagini, di doppi speculari, circonda il minotauro: ma egli è solo. E il suo problema è quello di uscire fuori da questa presa del doppio, per incontrare l’altro, “non soltanto un Io, ma anche un Tu”. La soluzione è sempre paradossale: il minotauro è incapace di pensare in modo sequenziale, categoriale, distinguendo l’osservatore e l’osservato. Egli afferra le cose in modo immediato, intuisce corrispondenze, analogie: “figure e non concetti gli passavano per la mente, la sua percezione era forma di scrittura figurata” (Dürrenmatt 1981; trad.it. 1997, p. 363).
Entra una fanciulla nel labirinto: e il minotauro felice ne stringe la carne, soffocandola con i suoi movimenti maldestri. Avanza Teseo: e il minotauro esultante lo accoglie danzando, colmo di gioia, convinto di aver trovato amicizia, sicurezza, fratellanza.
Teseo invece estrae il pugnale. E glielo pianta tra le spalle.
Che cosa muore con il minotauro? Forse la possibilità di un mondo intermedio: un mondo d’immagini, che sia luogo d’incontro tra sensibilità ed intelletto, tra pensiero e figure. Ma, in realtà, secondo Dürrenmatt, questo incontro non può avvenire: costretti a scegliere tra la con-fusione generata dalla danza dionisiaca del Minotauro e la scissione prodotta dalla violenza apollinea di Teseo, possiamo al massimo riconoscere la fragilità e la paradossalità della nostra situazione.


Il labirinto allo specchio

L’artista John Willenbecher propone il modello plastico di un labirinto unicursale, dalla forma rigorosamente squadrata, al cui centro è posta una sfera dalla superficie speculare (cfr. Kern 1981). Dunque il posto del minotauro è occupato da un oggetto dalle insolite virtù: uno specchio, una superficie riflettente, che sembra animarsi, duplicando e rinviando al mittente l’interrogazione che è partita dal suo sguardo.

Questa figura ci inquieta: ci ri-guarda, cioè interagisce con il nostro sguardo, perché ci osserva nel momento in cui cerchiamo di fissarla. Ci fa sperimentare in presa diretta ciò che aveva intuito anche Cezanne: il fatto che sono le cose per prime, a interrogare la sguardo dell’artista, del poeta (cfr. Merleau-Ponty 1964; trad.it. 1989, pp. 26-27). Ma questo specchio sferico, posto al centro di una struttura in apparenza così asettica ed equilibrata, si carica di un’incalcolabile eccedenza di senso: come non identificare la sfera-specchio con un globo oculare, fonte della visione ed origine della conoscenza, ovvero con un uovo, struttura embrionale della vita, concentrato di possibilità che il guscio esteriore protegge da una piena e definitiva manifestazione?
È solo una suggestione, ma nel racconto erotico Storia dell’occhio di Bataille, la protagonista, Simona, per stimolare l’eccitazione sessuale, fa scivolare un uovo nel suo sesso. Al culmine del parossismo, durante un rito orgiastico e sacrilego, l’uovo viene sostituito dall’occhio della vittima sacrificale (Bataille 1967). Dunque il labirinto è come un corpo femminile e il varco centrale come un sesso ferito, dentro il quale “rotola” un uovo senza vita oppure un occhio senza corpo.
E si può leggere la metafora a rovescio: in questo caso, il centro del labirinto — il minotauro, che è già stato ucciso — è l’illusione di un’assoluta trasparenza della visione, il sogno di una razionalità senza peso e senza corpo, che fatalmente diventa cecità, assenza di responsabilità. Il contorno, l’insieme dei nodi e dei percorsi, è un corpo avvizzito, rinsecchito, che non riceve più calore da un pensiero diventato lucidità senza fratture e senza scorie, maschera indifferente dell’anonimato impersonale.


Lo spazio liquido del labirinto

Ma fermiamoci ancora un attimo sull’equivalenza simbolica dello specchio con un globo oculare e con il guscio di un uovo.
Baltrusaitis nota che la parola “riflessione” ha una duplice valenza: per un verso, indica l’atto di guardarsi allo specchio, per un altro verso, identifica un movimento del pensiero, che consiste nel “rinviare per riconsiderare” (Baltrusaitis 1979; trad.it. 1981, p. 8). Nel primo caso, l’immagine dello specchio si associa a una costellazione di significati, che ruotano tutti attorno al senso della malinconia (Starobinski 1989): lo specchio come figura di una vita piatta, la riflessione come circolarità di uno sguardo che ritorna insistentemente su se stesso, incatentato definitivamente al proprio destino (Franck 1996). Ma nel secondo caso, la riflessione (allo specchio) è sinonimo di sospensione, strategia di diversione, apertura di uno spazio liquido, in cui il pensiero non si è ancora pietrificato in un concetto univocamente determinato.
Il labirinto, metafora del moderno, contiene entrambe le possibilità: è visione che si ripiega narcisisticamente su se stessa, nella progressiva nullificazione di tutte le cose (lo specchio come un occhio senza corpo e senza vita); ma può essere anche gioco del rovescio, sguardo obliquo, laterale, ulteriorità di senso, che lo specchio — come il guscio di un uovo — maschera, denunciandone però la possibile esistenza.
“L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà” (Calvino 1993, p. 27).

Commenti

Un commento a “Spazio del moderno e metafora del labirinto”

  1. eccezionale ..semplicemente descrizione sublime…..

    Di carmela.pitronaci | 7 Maggio 2015, 10:25

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