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Cinema

Antonio Albanese

Il più felice d’Italia

“Le persone con un certo senso dell’ironia mi piacciono. Mi rapiscono. Mi commuovono”. I giornalisti come Michele Serra (tra gli autori di “Giù al Nord”, protagonista di una fortunata collaborazione che Albanese si augura possa proseguire) “possono dare un grande contributo allo spettacolo, al teatro, al cinema e alla letteratura come autori, perché sono abituati meglio di chiunque altro a fotografare, a descrivere i cambiamenti, a tratteggiare il nostro tempo. Se si organizzano, possono dare un grande contributo alla scena teatrale”. E la globalizzazione? “Mi spaventa che due persone possano pilotare le menti di due milioni di persone”. Antonio Albanese si sente l’”Albanese” più felice d’Italia. E ci spiega il perché.

Gianfranco Terzoli (GT): Una domanda sullo spettacolo. Come nasce Giù al Nord?

Antonio Albanese (AA): Il desiderio di fare questo spettacolo è nato due anni e mezzo fa. Quello che cerco di fare è raccontare il nostro tempo. In questa fase almeno, poi — magari tra un anno — mi adatterò a qualche storia di altri, a qualche elaborazione. Spero di no.

GT: I tuoi esordi?

AA: Io ho fatto come molti altri l’Accademia di arte drammatica. Sono stati dei momenti molto felici: a me, un ragazzo di provincia, hanno dato l’opportunità di entrare in teatro dalla porta principale, perché l’Accademia ti mette in contatto con gli addetti ai lavori, con delle persone molto in gamba. L’idea era di entrare immediatamente in teatro. Quello che ho fatto è quello che viene definito il teatro di prosa — ma non so cosa vuol dire — in poche parole il teatro dei classici. Ho fatto tutti spettacoli scritti da altri tipo “Caligola” di Camus, “Tre sorelle” di Cechov, due testi spagnoli, insomma delle cosettine così… Quando, a un certo punto, mi sono ritrovato il grande desiderio, l’entusiasmo di raccontare questo nostro tempo, che sento che ci sta un po’ scappando, questo linguaggio che sta cambiando, questi colori, questi ritmi che stanno cambiando. Le intenzioni del mondo del teatro sono sempre state queste, credo. Questi ultimi dieci-vent’anni li trovo un po’ malati, un po’ contorti. Ecco allora il desiderio di raccontarli con la comicità — che io reputo una delle forme d’arte più evolute, più alte. Mi sembra molto interessante raccontare questa fase, questi anni così volgari. Mi sembra molto onesto raccontarli, perché dobbiamo accettare — che vuol dire conoscere e anche rappresentare — questi nostri tempi. E allora rappresento queste nevrosi, questi otto ritratti. La scelta di questi otto ritmi non è casuale: potevamo farlo anche con un solo personaggio, con una sola rappresentazione di una situazione, però volevamo riflettere anche sul palco i ritmi che in un modo o nell’altro viviamo fuori. Ritmi un po’ accelerati, un po’ sconnessi. E quindi sezionarli in otto personaggi.

Con gli autori, Michele Serra — che ho sempre stimato molto come giornalista e ho convinto a scrivere un testo — ed Enzo Santin l’idea era proprio quella di rappresentare anche sul palco il ritmo che ritroviamo fuori. E dare voce a otto perdenti. Perdenti secondo noi (poi magari per molti Perego è un dio, un grande) che sul palcoscenico raccontano semplicemente la loro storia. Non abbiamo inventato niente: abbiamo semplicemente dato un’occhiata al mondo circostante e abbiamo riportato sul palco quello che abbiamo visto. Lo spettacolo è nato da una frase che io e Michele abbiamo letto sul giornale. Di un industriale che difendeva un altro industriale per aver commesso una cosa secondo me allucinante: non aveva inserito un depuratore. Io poi ai problemi dell’ambiente sono molto legato. Sono cresciuto sul lago, ho imparato a nuotare sul lago e mia figlia non lo può fare perché è vietata la balneazione. Questa cosa la sento molto. Ero anche un pescatore, non ci sono più pesci perché si sono depositate talmente tante scorie che bruciano le uova e non nasce più niente. L’industriale difendeva l’altro industriale che aveva ricattato il Comune “io licenzio se voi procedete”. Le solite cose volgari. E diceva: “lui è una brava persona perché lavora 18 ore al giorno”. Siamo partiti dall’idea che una persona che lavora 18 ore al giorno per 20 anni sia una brava persona. Da qui abbiamo sviluppato il tema del lavoro e delle alterazioni, nel bene e nel male. No, anzi nel male, perché nel bene non ce ne sono, e le abbiamo raccontate. è un inizio, una prova. Per noi è stato anche un esperimento, come quello di inserire queste macchinette, questo suono. Abbiamo ricreato questo tempio industriale, questo corpo centrale con l’Etternit da cui parlano ed escono i personaggi. Lo spettacolo è partito in maniera molto timida, con molte paure. Sai, quando si scrive uno spettacolo dall’A alla Z è molto difficile. Poi la nostra è una produzione non sovvenzionata, perché la comicità come sapete è trattata come un prodotto di serie B. Quindi siamo partiti da una perdita mostruosa e invece, pian piano, zitti zitti, il pubblico ha cominciato ad amare lo spettacolo, a identificarsi, a venirlo vedere. E questo immediatamente. Abbiamo fatto 100 repliche due anni fa, poi ho avuto altri impegni e quindi la richiesta di altre 100 quest’anno.

E anche quest’anno abbiamo avuto una grande risposta, vuoi anche perché lo spettacolo si sviluppa col tempo, cresce. E non perché aggiungi delle frasi ma perché lavori sulle pause, sui gesti, trovi altre cose perché è giusto non fermarsi. E anche “Giù al Nord” non si è fermato a due anni fa, ma si è adattato: in questi due anni anche noi siamo andati avanti con il testo e con la nostra storia. E siamo molto contenti, perché lo spettacolo ha avuto dei riconoscimenti che per noi sono quelli veri: è stato replicato in Spagna da una compagnia iberica, e tante altre cose. Si sta concludendo la tournée, dopo Trieste ci saranno Udine e poi Brescia. E terminerà, per il momento, dopo 200 repliche e circa 200 mila spettatori. E io penso di essere forse l’Albanese più felice d’Italia. Devo dire che questi otto personaggi sono tutti personaggi che ci si sono ritrovati, in questo sistema. Non è colpa loro: è colpa di questa sorta di sistema. Io sono molto spaventato da questo. Io poi ho un DNA strano, sono nato a Lecco con origini siciliane e porto con me questi due sapori, questi due ritmi che mi appartengono completamente. Infatti è stato molto interessante, molto particolare l’effetto di questo spettacolo in Sicilia, dove manca il lavoro.

Lo spaccato di “Giù al Nord” tratta problemi concreti: la disoccupazione, la xenofobia, la perdita di identità e di valori.

Immagine articolo Fucine Mute

Quello che mi spaventa è il bisogno, quasi la necessità di avere. Io lo capisco benissimo: ci sono determinate zone, anche quella dove sono nato io, Lecco, il Triveneto, assolutamente dimenticate fino a 30-40 anni fa. Zone che — porca miseria — lo Stato non ha mai aiutato. Poi all’improvviso — per dei motivi loro, perché sono abitate da popoli fantastici, grandi lavoratori, si sono ritrovate limitrofe a delle nazioni interessanti, hanno iniziato dei grandi scambi — si sono ritrovate ad avere questa ricchezza. Che adesso hanno paura di perdere. Cosa mi spaventa? Mi spaventa l’alienazione, il bisogno assoluto di avere per poi generare il niente. Una volta, fino a cent’anni fa, il ricco costruiva dei palazzi, caspita, qui a Trieste avete degli splendidi esempi. Ora, i soldi se li tiene o li gioca in Borsa, investe e allarga di più il capannone. Il buon gusto, il buon senso si sta perdendo. Sì, c’è qualcuno che adesso si sta legando un po’ all’arte, sta diventano collezionista ma in maniera disordinata. è quel collezionista che dice “se compro adesso questo quadro vale un miliardo, tra un po’ di tempo varrà un miliardo e mezzo. Sì, perché a me non piace, però è un investimento”. E questo ha creato la grande contraddizione, cioè il bisogno della manodopera. E da dove arriva la manodopera? Dagli extracomunitari. E cosa fa scattare questo? È un problema immenso, bisogna avere coraggio di accettarli non solo nel lavoro, ma anche nella società. è importantissimo. Bisogna avere le palle per affrontare il problema. E anche il giovane vive una realtà delicata. Io non sono un grande lettore ma ci sono dei paesi dove non c’è una libreria, dove non ci sono punti d’incontro. Che non devono essere per forza un centro sociale, ma mancano spazi che il Comune dovrebbe dare per gli interscambi. E allora, il giovane cosa diventa? Diventa come il ragazzo che dalle due di notte alle dieci di mattina va dal mare al Galaxy e dal Galaxy al mare e si sente un uomo metropolitano. Perché l’immaginario è quello che sappiamo. Io sono nato a Olginate, che è un paesino in provincia di Lecco. E quando sentivo il desiderio di un qualcosa, andavo a Lecco. A Lecco però… E allora sono andato a Milano, ho abbandonato il certo per l’incerto, il mio meraviglioso lago perché a Milano avevo il bisogno di stare tra la gente. Quello che ci manca è di stare più insieme, avere degli epicentri.

GT: Parliamo della scenografia. Le macchine per scrivere, per esempio…

AA: Quelle macchinette sono di Giovanni Albanese, un caso di omonimia, uno scultore di arte concettuale. Le ha anche presentate a una quadriennale a Monaco. Sono delle vecchie Olivetti che lui ha scoperchiato e ha creato per ognuna un ritmo diverso. Quando le ho viste nel suo laboratorio, è partito il desiderio di realizzare questa scenografia. Con Giovanni Carlucci, che è il mio scenografo, le abbiamo incastonate lì e su quei ritmi abbiamo campionato una base e Massimo Cavallaro, un musicista bravissimo con cui collaboro da 12 anni, ci ha lavorato su. Siamo partiti proprio da un suono reale, da un ritmo reale. Io poi sono perito meccanico e quindi è un sapore, un suono che conosco molto bene. E la cosa mi interessava.

GT: Ma non hai nostalgia della tivù, della Gialappa’s…

AA: Eh, un po’ di nostalgia ce l’ho perché io ho fatto due programmi televisivi, “Su la testa” e “Mai dire Gol”. Cronometrando i vari sketches, io in realtà ho fatto 5 ore e mezza effettive di lavoro. Poi le interviste te le fanno, ma di tivù ho fatto solo cinque ore. “Mai dire Gol” è durato due-tre anni, “Su la testa” un anno ma io lo ricordo sempre perché è stata una cosa molto importante, quelle dieci puntate sono state quelle che poi mi hanno dato molto successo. Io dopo “Su la testa” riempivo le sale, è stato una grande fiera.

GT: Allora tornerai sul piccolo schermo?

AA: Tornare in tivù… Guarda, ti devo dire la verità, quando lavoro devo sentire le cose, devo farle con entusiasmo. E in tv dopo tre anni di quelle cose un po’ mi ero stancato, perché io sono cresciuto in teatro e quando sono in teatro ho quasi le polluzioni, sfioro l’orgasmo. E invece, in tivù… Intendiamoci. La tivù per me è stata bellissima, con i ragazzi ho un bellissimo rapporto e quando me ne sono andato non è che andavo a fare il Chiambretti o un’altra cosa, andavo a fare i film con Carlo Mazzacurati. Poi dopo quell’esperienza non sono più tornato in tivù perché sto facendo altre cose, sento il bisogno di fare altre cose. L’entusiasmo adesso è per altre cose. Quella cosa non mi viene in mente, hai capito?.

GT: I tuoi personaggi televisivi, come sono nati?

Immagine articolo Fucine MuteAA: Tutti i miei personaggi tranne Frengo, sono l’evoluzione di altri.
Pierpiero è l’evoluzione di Efrem, che chiaramente poi lì ho adattato per giocare. Sai, il nome è venuto perché il figlio di Berlusconi si chiama Piersilvio. Io non ci credevo ma è vero, poi l’ho conosciuto. L’ho chiamato Pierpiero per una questione di suoni. Poi il giardiniere di Berlusconi era veramente di Lecco come me. Poi quando l’ hanno arrestato, un quotidiano ha scritto “hanno arrestato il vero giardiniere di Arcore” e ha messo in copertina la mia foto: mia mamma stava collassando. E io mi sono arrabbiato per questo. Dev’essere per questo, e ragionevolmente, che non ama particolarmente i giornalisti (ndr).

E poi chiaramente doveva essere interista e tutte le altre cose. Invece con Frengo la cosa era più delicata perché il mio rapporto col calcio, devo dirti la verità, non è dei migliori — poi lì ho imparato qualcosa, che si gioca in 11, così però non sapevo bene niente — e allora ho avuto l’idea di immaginare un telecronista che vede il calcio come un gioco, perché nell’intervallo si fa il karaoke. Una cosa che è un’utopia totale e mi divertiva moltissimo. Facevamo dei gemellaggi improbabili, quando il Foggia perdeva lui soffriva come una bestia, però soffriva lui, non trasmetteva la sofferenza agli altri. Vedeva Zeman come il più grande — perché effettivamente Zeman è un mito: è quello che riesce a rispondere alla domanda “come mai avete perso” dicendo “perché loro hanno segnato un gol e noi no”. Mi sembra meraviglioso. Sono stati due anni bellissimi. Ci siamo divertiti molto. Poi però Carlo mi aveva chiamato per “Vesna va veloce”, io lo amo moltissimo e allora ho accettato. Poi dal contatto con Michele Serra è venuta l’idea di tornare in teatro, di fare questo lavoro. Con un gruppo affiatatissimo, che sta insieme da anni, con Massimo addirittura da dodici. Perché stiamo bene.

GT: Come vedi lo sviluppo di Internet rispetto al teatro: già trasmettono i concerti, esiste una tv. Può essere un mezzo per allargare il pubblico?

AA: Internet secondo me è un grandissima agenda, dove puoi trovare notizie stupende: io sono un pescatore e ho trovato cartine di laghi che non conoscevo, un sacco di cose. Internet è importante in questo. Io però credo che il teatro è e sarà sempre sangue e sudore, sudore e sangue. Io sono contrario perfino al teatro in tv, non ho mai permesso di trasmettere i miei spettacoli. Questo forse sì, perché sono stato convinto dal fatto che molti purtroppo non hanno potuto vederlo. Ma verrà inserito in seconda, si vedrà un terzo dello spettacolo, con una sola pubblicità. La bellezza del teatro è il contatto con il pubblico. Del teatro in tivù mi ha veramente entusiasmato “Vajont” di Marco Paolini. Lui ha raccontato una storia che anche se non la conosciamo, capiamo immediatamente quello è stato. La narrazione è stata fatta molto, molto bene. Io l’avevo già visto tanti anni fa in teatro. Quella è una storia meravigliosa, per me è stata veramente entusiasmante, e anche se l’argomento era brutto, una tragedia incredibile, è stato bello. Se vogliamo, con un’ impostazione classica della narrazione.

GT: Grande curiosità ha suscitato la scena finale dello spettacolo, il tête-à-tête tra l’uomo bomba e la donna cannone.

AA: È una scena che sembra staccata dal resto. In realtà, intende mostrare cosa succede quando la religione diventa lavoro. Lui, l’ uomo bomba, è un integralista che abbandona le sue cose per fare l’amore con la donna cannone. La religione diventa lavoro diventa integralismo, diventa alienazione. Mentre la ballata finale è un omaggio, perché lo spettacolo non è altro che un grande omaggio al Nord, ma veramente una grande prova d’amore, secondo me, una prova d’amore sincera. è facile dire, con l’umorismo che sta imperando da un po’ di anni, “tutto bello, però che cattivo lui”. Un po’ di cinismo non guasta. è una prova d’ amore, dicevo, ma è anche una ballata. E come ogni ballata vuole essere anche felice, anche leggera.

GT: Dietro alla tua comicità, al tuo modo di raggiungere il pubblico, che tipo di lavoro c’è?

AA: Il mio lavoro è molto legato al popolare, io credo che la comicità sia meravigliosa anche perché è popolare, che vuol dire che abbraccia tutti. Sono veramente orgoglioso perché a questo spettacolo una sera da una parte c’era il direttore dell’Accademia di Brera e dall’altra il ragazzo della curva nord dell’Inter. Una sera c’era il capogruppo di Rifondazione e il capogruppo di An. Abbraccia tutti, a tutti dà la possibilità di raccontare attraverso la comicità il proprio pensiero, senza dichiarasi sempre per forza. La comicità riesce a essere vincente proprio perché è a 360°, vive in questa totale libertà, in questo vortice di libertà meravigliosa, senza mai citare qualcuno. Permette in maniera molto semplice di raccontare una realtà, senza focalizzare l’attenzione su una sola cosa. Per esempio, l’opera lirica che è meravigliosa, ma meravigliosa veramente, imponente, grandiosa, ha un determinato tipo di pubblico: io per esempio non sono uno che diventa matto per l’opera lirica, mi emoziono sempre, però non ci penso, non è che al sabato dico devo andarci. è solo un determinato tipo di pubblico che ha il cuore spezzato per l’opera e quindi, di conseguenza, la lirica diventa una cosa quasi per gli addetti ai lavori. Il mio lavoro è quello di cercare di abbracciare tutti e tradurlo a tutti e non metterti a fare le citazioni per farti vedere un po’, capito? È cercare di trattare un linguaggio riconoscibile a tutti, che non offenda nessuno; che non vuol dire adeguarsi, ma vuol dire felicità, vuol dire piacere di abbracciare tutti. Io sono cresciuto col teatro di ricerca, che è una cosa meravigliosa che però poi si ammala e dopo poco tempo diventa una cosa solo per addetti ai lavori. E allora mi sono detto: no, questo mio gusto personale lo voglio raccontare alla gente perché io sono di estrazione popolare, perché mio padre è un muratore, perché voglio abbracciare tutti.

GT: In teatro hai il contatto con la gente, il personaggio cresce grazie alle reazioni del pubblico, senti la sua risposta. In tivù come fai a sapere se un personaggio va bene?

AA: Sai, in tivù c’è una sorta di accelerazione già in partenza del ritmo, è incredibile, ma è così. Io questo spettacolo l’ho pensato per il teatro, non per la tivù. Poi forse andrà in tivù, quando si concluderà la tournée, ma in un modo diverso. Come il cinema: è un’altra cosa, ha un altro ritmo. Poi io sto ancora imparando, quindi hai voglia a sentire un mio giudizio… Però secondo me è questione di ritmi. Vedi, ho letto un articolo che mi ha fatto sorridere: la Ferilli batte Renato Zero di 600 mila spettatori. Io non ho visto né l’ uno né l’altro. Io sono affezionato alla tv, tornerò ancora in tv, poi bisogna vedere come… magari… ancora non lo so, però tornerò. Eppure, questo fatto dell’ascolto, ancora non lo capisco. Quando abbiamo fatto “Su la testa” con Paolo Rossi, mi ricordo che ci sono stati attimi di paura. Paolo Rossi stava vivendo un momento di grande popolarità, per me era tutto meraviglioso, è stata un’esperienza eclatante. Eppure, la prima puntata non aveva avuto un grande riscontro. Cazzo, il giorno dopo… non avevamo ancora impostato dieci puntate, però sono affiorati i dubbi. Cosa dobbiamo fare per fare più ascolto? Eh no, alla fine abbiamo convenuto, dobbiamo fare quello che dobbiamo fare, senza forzature: c’è il passaparola. E infatti in questo siamo stati vincenti. Anche in “Mai dire Gol” con i ragazzi della Gialappa’s sono stato chiaro: io so fare questo, se no, si vede. Se ti devi adeguare, si vede. Quindi la mia risposta è non lo so, cioè io mi rendo conto che ci sono delle situazioni dove dicono ha fatto 10 milioni, 8 milioni di ascolto. Ti devo dire la verità, non guardo molto la tv, non sono un grandissimo esperto, e cosa bisogna fare per un maggiore ascolto, non lo so. “Carràmba che fortuna” fa dieci milioni di telespettatori, non so come spiegartelo, come anche nel cinema, nel teatro. Forse ci facciamo influenzare troppo dai giornali, dalle tv.

Immagine articolo Fucine MuteE racconta un aneddoto. “Due mesi fa arriva una signora che io amerò per tutta la vita, una signora americana, che vuole conoscermi. Mi dice: “Sai, ho preso l’aereo per vedere il tuo spettacolo”. “Ma perché? Non poteva stare a casa?”- mi chiedo. Lo spettacolo le è piaciuto, poi ho saputo che era una giornalista e mi ha dedicato mezza pagina sul Wall Street Journal, bellissimo. Da lì lo spettacolo è diventato più bello. Voglio dire: ogni sera è uno spettacolo diverso, il testo è lo stesso però c’è qualche millimetro in più. Hai capito, ta-taratan Albanese sul Wall Street Journal. Da lì è diventato diverso. No, invece è lo stesso. Mi spiego meglio. Se una grande casa di produzione butta su qualcosa, fa una grande promozione, perché anche quella è importante, poi quello che c’è dentro non è mica così importante. In tv continuano a invitarmi, e a dire la verità sono molto contento che continuino a farlo, è un buon segno. Ma così non è una cosa che mi appartenga, non riesco a entrarci. Poi cosa fai, tre minuti pi-pi-pi. E poi?. Per rientrare aspetto di avere gli stimoli giusti”.

GT: In Spagna hai avuto grande fortuna, l’inviata del Wall Street Journal è rimasta rapita dal tuo spettacolo. E poi dicono che la comicità non è un genere da esportazione…

AA: Sai, la comicità quando è universale, non ha confini. Universale cosa vuol dire? VUol dire quando è molto fisica. Penso a Buster Keaton, a Ridolini: il sabato all’ora di pranzo, da bambino guardavo sempre “Oggi le comiche”. Sono cresciuto con Jacques Tati e Buster Keaton. Mi ero appena operato di appendicite e alla tivù davano le comiche. Hanno dovuto riaccompagnarmi in sala operatoria, perché mi erano saltati tutti i punti dal tanto ridere. Il sogno della mia vita è fare uno spettacolo muto, ci sto lavorando. A Parigi per esempio — ma non con questo spettacolo, perché nella sala non c’era lo spazio — ho fatto tutto il pezzo finale di “Uomo” interpretato da Epifanio (il personaggio che ama di più, ndr). Tutti hanno riso pur senza capire una parola perché a far scattare il riso è la fisicità, è il linguaggio immediato. Il grande Robert che ci ha emozionato tutti, ha il corpo più anarchico del mondo. è il linguaggio dei gesti, che io riduco all’essenziale: quando dico quattro giorni a Natale, vi rendete conto che quello è un gioco di prestigio. Tac e si ride. Al tre si ride. Questo meraviglioso, assoluto mistero che è la comicità, il riso è una scienza matematica. Si fa un gesto e si ride. Al tre si ride sempre. Non so perché. Sui gesti poi ci lavori. Poi ti viene. Devi avere però anche una bella faccia da pirla… .

E pensare che lui, a fare teatro comico, non ci pensava proprio. “Io? Il comico? Appena uscito dall’Accademia, non avrei mai potuto accettarlo. Ho fatto “Caligola”, Brecht, Beckett, “Riccardo III”. Mica male eh? Ho recitato anche in italiano antico. Ero bravino. Mi piacerebbe fare qualcosa di drammatico. è un mettersi alla prova, mettersi in gioco. Ti spinge la curiosità di provare. Il problema del “Riccardo III” è portare in scena il cavallo. Alcuni arrivano con un Benelli 50. Io cosa potevo fare, arrivare in triciclo? Ve l’immaginate la battuta “il mio regno per un triciclo?””. E invece.

GT: Come si fa a sapere se fai ridere?

AA: C’è un esercizio propedeutico, per misurare la tua predisposizione comica. Davanti al pubblico, si entra in scena, sempre da destra verso sinistra, non so perché, e si percorre tutto il palco senza dire una parola. Se fai ridere, vuoi dire che sei portato, che hai la stoffa del comico.

GT: E dell’esperienza triestina, cosa ci puoi raccontare?

AA: Questo con altri due o tre sono gli unici teatri con gli abbonati. Devo dire la verità, mi sono trovato molto bene, ma questa cosa dello spettacolo pomeridiano… quando l’ ho saputo il mercoledì alle quattro ho chiesto “come alle quattro?” e invece quando mi hanno spiegato questa cosa delle signore e i signori abbonati… Giustamente il pomeriggio diventa anche molto più semplice andare a teatro, l’ ho trovato anche bello. Però sono sincero, c’è un problema. Questo spettacolo è apparentemente leggero ma in un contesto molto particolare: non è una commedia, ha un linguaggio un po’ colorito… Io non ho inventato niente, non ci ho aggiunto una frase volgare né altro: tutto quello che c’è io l’ ho sentito. Non ho forzato assolutamente su niente, anzi. Ma raccontare, parlare con questi linguaggi così, mi sono reso conto che con un tipo di persone non molto giovani — dentro, senz’altro, però — non era facile… Queste meravigliose signore e questi signori che ho visto, meravigliosi, che hanno molto rispetto per il teatro, molto più di altri… Ma chiaramente c’era un ascolto diverso. Certe reazioni, certe risposte… Lo spettacolo lo recito col pubblico, quindi cambia con il pubblico, sera dopo sera. L’ascolto è stato comunque meraviglioso, per me è stata un’esperienza simpatica, interessante. Poi è stato molto curioso fare lo spettacolo la domenica pomeriggio, specie per me che dopo l’Accademia non ho mai fatto matinée. Io dirittura ho lavorato col cabaret, dove aprono alle 11 di sera, a mezzanotte.

Di Trieste poi ricordo ancora la serata al castello di San Giusto (anche noi, ndr.), un posto di una bellezza incredibile. Me lo ricordo benissimo, poi siamo andati a mangiare in un ristorante vegetariano, dove ci hanno dato un metro e mezzo di salsiccia. E anche la Sala Tripcovich è splendida. Quando mi hanno detto che non era la sede abituale, non ci credevo. Poi così sembra una discoteca di tendenza. Però si lavora molto bene, c’è un ottimo ascolto e hai la sensazione piacevole di avere la complicità del pubblico nell’accettare delle cose. E questo è molto importante. Ma una cosa mi ha colpito molto. La prima sera, alla fine erano tutti felici, però ho visto delle persone già col cappotto e allora ho pensato subito: o hanno già dato delle multe o avete una sola fermata del bus. Invece poi mi hanno spiegato della tradizione del guardaroba: si andava a prendere il cappotto e si tornava dentro per l’ultimo applauso, così poi avendolo, si poteva fuggire evitando la ressa. Una tattica straordinaria. Siete incredibili.

Grazie davvero Antonio. Fossero tutti come te. “Ti amo”.

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