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Palcoscenico

Polimorfismi

vita e teatro di Paolo Poli

Gli ultimi minuti di uno spettacolo teatrale sono i più tesi e i più affascinanti; ci si congeda dal mondo artistico di un attore, dai suoi equilibrismi in bilico sul filo trasparente, fa capolino la malinconia di chi è già con un piede fuori dalla sala.
Quando a congedarsi dal pubblico è Paolo Poli, la malinconia forse è leggermente più pungente.

Ha un primato incontestabile, l’enfant terrible del teatro italiano: fu il primo ad osare il travestimento femminile in scena, quando simili “libertà” si pagavano con una visitina nelle locali gattebuie. Era già evidente, però, che dietro le piume e i lustrini, dietro i camuffamenti pazzi e le sfrenate, goliardiche gags verbali e vocali, si celava un talento prepotente e incasellabile,insieme ad una profonda e sensibile conoscenza dei fatti della vita.

Il “sottofinale” del suo ultimo, straordinario spettacolo “Caterina de’ Medici” è fatto apposta per scatenare una ridda di applausi a scena aperta: una rivisitazione, sardonica e commovente, del “Lago dei cigni”, con tanto di pioggia finale di petali biancoazzurri.
Lui gigioneggia, gioca a compiangersi, dice di essere invecchiato, di temere i cedimenti delle corde vocali (“quelle” corde vocali, artefici del suo inimitabile falsetto), ma in realtà a settant’anni suonati continua a solcare le scene incantando diverse generazioni di spettatori, con audaci e spassose ricostruzioni storiche che pescano a piene mani sia dalla letteratura cosiddetta “alta”, che da quella più popolare , con risultati da non dirsi ma da vedersi.

“Caterina de’ Medici” mi è freschissimo nella memoria, ne sto parlando a tutti ovunque vada: ha inserito una scintilla di entusiasmo per il “vero” teatro nel mio cuore, dopo una battuta d’arresto dovuta ad un perpetrato abuso visivo di spettacoli tutti uguali.
Poli, straordinario cocktail vivente dalle mille facce, rispolvera il vernacolo toscano per i suoi lazzi poetici , cita Palazzeschi e Marcello Marchesi, adatta al nostro confusionario oggi volti e vicende del Cinquecento.

Al mensile specializzato “Carnet” confessa: “Negli anni Cinquanta facevo il burattinaio, ero ancora ragazzo e mi annoiavo mortalmente quando i miei fratelli mi costringevano a interpretare il Principe Azzurro nella favola di Biancaneve; a me, pensate un po’, era simpatico uno dei sette nani: assomigliava a Jimmy Durante, quello con il nasone!”.
Questa prepotente voglia di evadere dagli schemi , di costruirsi una propria nicchia subito riconoscibile, lo porta nei primi Anni Sessanta a trasportare in Italia le suggestioni teatrali assimilate in Francia da spettatore.
Nasce così, già nel 1959, la Borsa d’Arlecchino, un minuscolo teatro d’avanguardia gestito a Genova da Aldo Trionfo, che subito riconosce in Paolo Poli un teatrante di razza.

Quando nel 1961 va in scena alla Cometa di Roma “Il Novellino”, primo spettacolo di Poli, per il pubblico la sorpresa è grande.
Spumeggiante, ilare, travestito da donna o da giullare di corte, Poli unisce al camaleontico gusto per il trasformismo un irresistibile lavoro di montaggio e smontaggio di testi letterari commisti ad altre fonti di varia cultura o di cronaca popolare: un vero e proprio teatro da camera, da sempre cifra distintiva del suo modo di fare spettacolo.
Non tutto scorre subito liscio, in questa che per le scene nostrane è una vera e propria rivoluzione.
Dichiaratamente omosessuale, in un’epoca in cui fare “outing” era improponibile, Poli rinuncia alla facile omologazione, al termine infiorettato, alle prudenze e alle cautele: il suo teatro si rivolge ad un pubblico smaliziato, che accetta la provocazione sessuale insita in certi ammiccamenti agli spettatori stessi, di cui Poli misura le capacità autoironiche.

C’è chi non sta allo scherzo, specie tra le autorità: “Il diavolo o Santa Rita da Cascia”del 1964, viene bruscamente sospeso a Milano per oltraggio alla religione, e altre difficoltà similari verranno incontrate da Poli nel corso della sua lunghissima carriera.
Urta sopratutto, ad alcuni, la disinvoltura e il consumato mestiere con cui Paolo Poli si muove saltabeccando di genere in genere senza pretese didattiche, divertendo e divertendosi.
Vere e proprie delizie virtuosistiche sono spettacoli quali “Carolina Invernizio” (1969), “La rappresentazione di Giovanni e Paolo” (1970), “La vispa Teresa” (1970), “L’uomo nero” (1971), “Giallo” (1972).
Anche quando l’approccio testuale è apparentemente più fedele all’originale(“Il mondo d’acqua” di A. Nicolajs; “Il suggeritore nudo”di F.T. Marinetti), Poli trova il modo di inserire specifici personalismi che ne caratterizzano il lavoro.

“Tra moglie e marito non mettere il travestito”: con questa fulminante battuta (di Marcello Marchesi) Paolo Poli presenta uno dei “siparietti” finali del suo “Caterina de’ Medici”: è il trionfo dell’escamotage linguistico, che è una carta preziosa per Poli dai tempi di Radio Firenze,delle prime esperienze nelle compagnie vernacolari, quando anche un teatro parrocchiale può servire alla bisogna; ma è chiaro che il suo talento non risiede tutto qui.
Figlio di un’ Italia decisamente povera e rurale (quella del primo dopoguerra), altri quattro fratelli in famiglia, Poli viene istradato alla buona letteratura dalla madre, una maestra “stile Montessori”, come tra affetto ed arguzia rammenta lui. In casa non mancano libri, di tutti i tipi: da Carolina Invernizio a “I miserabili”, dalle fiabe di Perrault a ogni sorta di narrativa popolaresca.

Straordinariamente portato per il latino, Paoli Poli è un bambino educato ma non lezioso, “di quelli che portano sempre i fiori alla maestra e le recitano la bella poesia” come chiosa lui.
Parimenti importante, intenso, il suo rapporto con il padre, un carabiniere morto appena cinquantenne di tubercolosi.
Senza annotazioni didascaliche Poli ricorda: “Passai un anno bellissimo con mio padre, sul Lago di Como dove sperava di guarire dal suo male: lui mi ha sempre accettato per quello che ero e non per quello che avrei dovuto essere, in quell’ Italia rimbambita dal mito della “maschia gioventù”.
La grande serenità avuta in famiglia ha non poco peso nell’economia comportamentale di Poli, un outsider fortissimamente convinto dei propri mezzi, dell’esclusività della sua proposta teatrale: e se la prima popolarità di rilievo è di matrice televisiva (“Canzonissima”, 1963, a fianco di Mina e Sandra Mondaini), il teatro spinge per entrare.
“Mistica”, del 1980, è una sorta di manifesto programmatico del Poli-pensiero: un collage circense e vorace di momenti teatrali spezzettati, di echi, di richiami, dove le già numerose esperienze accumulate dall’artista si autoannullano e contemporaneamente rifioriscono a nuova vita: il gioco del citazionismo sfrenato, che recupera Ennio Flajano e Marcel Proust con gusto della provocazione unito a rara sagacia d’artista.

“Dovetti a tutti i costi crearmi una mia nicchia, un mio ruolo: se i grandi testi erano esclusivo appannaggio delle grandi compagnie di quei tardi Anni Cinquanta, da Ruggero Ruggeri a Renzo Ricci, da Vittorio Gassman ad Ernesto Calindri, a me non restava che andare in biblioteca a recuperare testi ed autori dimenticati, magari aggiungendoci di mio, perché è anche il talentino mio c’ha il suo peso: che vole, anche l’insalata ha bisogno del sole per campare…”
Raggiunto uno status riconoscibile ed indiscutibile, Paolo Poli si è progressivamente raffinato costituendo non solo la solidissima Compagnia Produzioni Teatrali Paolo Poli, ma anche circondandosi di collaboratori che assecondano il loro mentore con puntuale perspicacia: Ida Omboni, adattatrice delle complesse trame storiche che Poli ama tessere; la musicista Jacqueline Perrotin, l’unica a tenergli testa nell’uso pazzesco del “bric à brac” musical-fonetico; Emanuele Luzzati, scenografo di squisita visionarietà, che ricrea epopee storiche in cartapesta.

A Paolo Poli, più o meno dichiaratamente, si sono ispirati in tanti: da un cantautore sensibile e irriverente come Ivan Cattaneo (che avrebbe tranquillamente potuto fare l’attore) ad Arturo Brachetti che ha esasperato la vocazione ai travestimenti mirabolanti di Poli: tutta gente professionalmente ben attrezzata, sì , ma Paolo Poli è un’altra cosa…
Nel suo teatro senza respiro, oltre ad una inesausta e irresistibile opera di costruzione e distruzione delle icone gay, Poli inserisce ammiccamenti e riferimenti alle Dive cinematografiche del passato, come Greta Garbo e Marlene Dietrich (di cui è un imitatore straordinario, vedere per credere), agganci alla poesia satirica francese, e ogni sorta di gioco artistico contiene una chiave di lettura dal profondo senso morale: ogni diversità (sessuale, artistica, di pensiero) ha diritto ad un approdo, ad una legittimazione, ad un proprio spazio vitale.

“Mi è sempre piaciuta la commistione di generi e repertori diversi: sono scelte che si fanno perché sono congeniali:.. La poesia con cui apro il mio ultimo spettacolo “Caterina dè Medici” è di Ada Negri, figurarsi, una poetessa della belle epoque, mentre Caterina era già bella e morta nel 1589; Anche “La merdeide”, un poemetto che le faccio recitare un po’ più tardi, è un falso storico. E anche il cannocchiale di Galileo, che è del 1620…”
Intervistare Paolo Poli, poi, rappresenta una sorta di spettacolo nello spettacolo: affetto da una affascinantissima logorrea quasi paranoide, lo vedrete investire il malcapitato interlocutore con ogni sorta di diavoleria verbale e fonetica, imitando Paola Borboni e sparando a zero sui più disparati soggetti; culturalmente attrezzatissimo, può attingere ad un vasto parco di citazioni , giocando di fioretto con la difficile arte del “repechage”.

Eppure tanto talento riconosciuto e tante consacrazioni (lo vollero persino “le alte sfere” della musica classica e lirica, e si ritrovò a duettare con Carla Fracci e ad interpretare per la radio “Pierino e il lupo” di Prokofiev),non hanno minimamente scalfito la sua semplicità: uomo, lo ribadiamo ancora, di origini umili, tale è rimasto, senza dimenticare i primi scalcinati teatrini con quindici spettatori, le contumelie e le risse degli esordi.
Dall’alto del suo papillon immacolato, l’affabulatore dai capelli bianchi che raccontava le fiabe alla radio (e non è comparso mai più uno così bravo, tra i “fabulatori”), resterà per gli ottusi (ce ne sono in agguato in ogni angolo, oh se ce ne sono…) quello della voce in falsetto: ma dar credito agli stolti, si sa, è dimostrazione di stoltezza…
A noi che pendiamo dalle sue labbra, riconoscendolo parte di una razza di teatranti in estinzione, Paolo Poli continua ad apparire, come da sua stessa definizione, una “farfalla” dal volo incredibilmente vitale…

Paolo Poli è nato a Firenze nel 1929. Laureato in letteratura francese con una tesi su Stendhal, debutta come attore in compagnie vernacolari e collaborando con Radio Firenze, prima di fondare, assieme ad altri teatranti, la struttura autogestita “La Borsa d’Arlecchino”, dove mette a frutto le sue esperienze come mimo e burattinaio. Dotato di un talento non comune per la caricatura, la farsa e l’improvvisazione, si mette in luce nei primi anni Sessanta grazie a spettacoli anticonformisti e iconoclasti, quali “Il diavolo o Santa Rita da Cascia” (1964, chiusura del teatro e denuncia per vilipendio alla religione), “Carolina Invernizio” (1969), “La nemica” (1969), dove oltre al consueto travestimento muliebre sono presenti caricature irriverenti a miti e riti d’ogni epoca, insieme ad un inesausto repertorio musical-cabarettistico che pesca a piene mani da disparati generi teatrali. Per un certo periodo si affianca a Poli la sorella Lucia (“Giallo”, 1974; “Femminilità”, 1975).

Con “Mistica”, del 1980, Poli raggiunge uno dei propri vertici creativi, mentre sono poche e insoddisfacenti le esperienze cinematografiche (“H2s” di Roberto Faenza, 1969; “Fratello Sole Sorella Luna” di Franco Zeffirelli, 1971; “Le braghe del padrone” di Flavio Mogherini, 1976).

Titolare da alcuni anni di una propria Compagnia (Produzioni Teatrali Paolo Poli), l’attore fiorentino si è confermato artista di grandissimo livello grazie alle ultime prove sul palcoscenico: “Farfalle” (1988) da Guido Gozzano; “I legami pericolosi” (1989) da Laclos ;”La leggenda di San Gregorio” (1994); “Il coturno e la ciabatta” (1995) da Alberto Savinio; “L’asino d’oro” (1996) da Apuleio; “I viaggi di Gulliver” (1998) da Jonathan Swift; “Caterina de’ Medici” (1999).

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