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Musica

Matia Bazar: gli anni della svolta

Questa è la storia di una band che ha avuto il coraggio di cambiare faccia, di gettare alle ortiche il facile successo per addentrarsi in territori nuovi, inesplorati, vergini: una sfida vinta da cinque musicisti liguri: i Matia Bazar.

La storia inizia a Genova nel 1974, quando dalle ceneri di una formazione denominata “Jet” prende il via il progetto Matia Bazar.

Fanno parte del complesso Aldo Stellita (Campobello di Mazara, 1946 — Milano,1998), bassista e paroliere; Carlo Marrale (Genova, 1952), chitarre e voce; Piero Cassano (Genova, 1950), tastiere e voce; Giancarlo Golzi (Sanremo, 1952) batteria e percussioni; Antonella Ruggiero (Genova, 1952) voce.

Dopo essersi fatti le ossa in locali notturni e balere della riviera ligure con un repertorio essenzialmente fatto di cover, i Matia ottengono un soddisfacente contratto discografico con l’etichetta Ariston, che consente loro di pubblicare il primo 45, “Stasera che sera” (1975). Il successo è quasi immediato, e tutte le successive prove artistiche, da “Per un’ora d’amore” (1976) a “Solo tu” (1977), da “Mister Mandarino” (1978) a “Per un minuto e poi” (1978), guadagnano inesorabilmente i primi posti delle classifiche.

Alfieri di un easy-listening fortemente melodico e caratterizzato dalla bellissima voce di Antonella, i Matia vincono Sanremo 1978 con “E dirsi ciao”, mentre il mercato estero inizia ad interessarsi ai loro lavori.

Quest’idilliaca situazione potrebbe teoricamente continuare all’infinito: “Tu semplicità” (1979), “C’è tutto un mondo intorno” (1980), “Il tempo del sole” (1980), sono canzoni facili ed orecchiabili che paiono scritte apposta per essere gettonate dai juke-box allora in piena attività, i concerti sono sempre affollatissimi e le manifestazioni estive si contendono i Bazar costringendoli ad un’ininterrotta presenza sui palcoscenici europei.

Eppure, qualcosa in questo equilibrio raggiunto si spezza: vi è l’esigenza, da parte del leader Aldo Stellita soprattutto, di affrancarsi da un genere musicale divenuto ormai troppo stretto: cresciuti, maturati, i Matia Bazar non sono più gli studenti universitari con l’hobby della musica degli esordi; la musica è diventata la loro professione, e sussiste il desiderio di allargare il proprio mondo artistico, magari attingendo dalle esperienze musicali provenienti da oltreoceano.

L’unico del gruppo a non partecipare al… vernissage è Piero Cassano, che anzi abbandona il gruppo passando dietro le quinte come organizzatore e produttore (tra l’altro di Eros Ramazzotti).

Orfani di un loro compagno così caro, i Matia dopo averlo sostituito con il tastierista Mauro Sabbione, riorganizzano da capo i loro intendimenti artistici.

Tutti loro, è bene sottolinearlo, avevano già diverse esperienze alle spalle: Golzi nei Museo Rosembach, gloriosa formazione di rock progressive dei primi Anni Settanta, Carlo Marrale come chitarrista in Brasile.

L’assetto “nuovo” omaggia la Mitteleuropa con un disco difficile quanto affascinante: “Berlino, Parigi, Londra” (1982).

“Fantasia”, incipit programmatico dell’album, rievoca atmosfere da Seconda Guerra Mondiale: si parla di cospirazioni, soldati in attesa di non si sa che cosa, e nel sottofondo udiamo sirene che spazzano via spensieratezze e superficialità del passato.

Ricorda il chitarrista Carlo Marrale: “Eravamo arrabbiati, decisi, quasi punk negli approcci: la nostra casa discografica si era spaventata dall’audacia del nostro nuovo materiale, e difatti fummo costretti ad autogestirlo…”

La straordinaria ripresa di “Lilì Marleen” (voluta da Stellita, che aveva una madre tedesca) si unisce così al lamento esistenzialista di “Stella polare”, al furioso rock urbano di “Fuori orario”: una nuova vita artistica forte, robusta, del tutto inedita, non inutilmente dolce e senz’altro debitrice negli intenti programmatici a formazioni come i Tangerine Dream o gli Tuxedomoon.

Dalla MittelEuropa al retrò, al repechage di atmosfere Anni Trenta: il successivo progetto discografico, “Tango” (1983), non è solo un omaggio al ballo più sensuale esistente sulla faccia della Terra, ma un lavoro di cesello in cui confluiscono molteplici suggestioni diverse: il Paese dei Campanelli nell’era del computer.

“Vacanze Romane”, che sfiora la vittoria al Festival di Sanremo, rimane a tutt’oggi il più grande successo del complesso ligure: una canzone senza tempo, coraggiosa ed anticonformista, sorretta dai vocalizzi mai prevaricanti di Antonella Ruggiero, che nel frattempo ha preso lezioni di lirica.

Di futuro, di possibilità tecniche del futuro, si narra esplicitamente ne “Il video sono io”, anche se l’ironia fa capolino e si allude alla possibilità di un “ponte” tra il passato e il futuro, ove convivano felicemente il libro e lo schermo, l’elettronica e il tango tutto violini.

Raffinatissimo, al solito, il lavoro letterario di Aldo Stellita: “Intellighenzia” è un affascinante gioco linguistico sopra il quale “soffia” la voce di Antonella deformata piacevolmente dal synth; “I bambini di poi” affronta un tema apocalittico, di minaccia atomica sulle nuove generazioni, collegando coraggiosamente fulminanti nonsense linguistici.

Ma forse la traccia più rappresentativa del disco, quella che esemplifica il nuovo corso del Bazar, e che rivela un imprinting nettamente europeo, è “Scacco un po’ matto”, con una lungo fraseggio centrale che sembra provenire dalle sessions di “Berlino Parigi Londra”. Una minisinfonia che sarebbe interessante riproporre oggi, come molta della produzione fin qui esaminata.

A questo punto, sarebbe logico aspettarsi dai Matia un comodo asservimento alla neomoda retrò, che inizia ad interessare anche un pubblico più vasto.

Invece, con una delle loro tipiche trasformazioni camaleontiche, che rappresentano un tratto distintivo, caratteriale, intendiamo, del gruppo, i Matia Bazar si addentrano in un’operazione discografica ancora più ostica della precedente: “Aristocratica” (1984).

Si tratta, probabilmente, del loro lavoro più audace ed avanguardistico: azzerate le atmosfere retrò (a parte l’orchestrina tzigana che preannuncia “Milady”), i Matia lavorano ad un progetto artistico oltre che musicale, grafico e scenografico oltre che sonoro.

Trasferitisi ormai da tempo stabilmente a Milano, i Matia Bazar erano entrati in contatto con le realtà artistiche più “giovani” del capoluogo lombardo, quali “OcchioMagico” e “Fragola e Panna”, studi grafici dalle idee dinamiche e moderne.

Così, l’avventura di “Aristocratica” parte dalla copertina, geometrica, molto colorata e invasa da simboli di varia natura, e continua con una corrente sonora (il termine… idrico è il più idoneo a illustrare il disco) che dopo la poesia a suo modo “neoromantica” della title track s’inerpica attraverso l’esotismo percussivo di “Carmen”, il decadentismo irridente di “Milady”, e soprattutto attraverso l’impazzita giostra de “Sulla scia”, costruzione ritmica a tutt’oggi attualissima, anzi anticipatrice del lavoro di gruppi di oggi quali Subsonica o Scisma.

Nel disco (ma, a questo punto, sarebbe meglio parlare di progetto multimediale) i materiali sonori si spezzettano, si frammentano, in un gioco musicale e verbale che assembla canti islamici, la voce campionata di Che Guevara, suoni apparentemente inconciliabili fusi in una costruzione geometrica che ha rappresentato un esperimento felice e “apri-pista” per le future band italiche.

Naturalmente tanta audacia avanguardistica non poteva che frastornare il pubblico abituale del Bazar: le vendite si mantengono basse, scarse sono le apparizioni televisive mentre un certo riscontro e un appoggio provengono dalle radio private, da sempre sostenitrici della formazione ligure (e il gruppo contraccambierà festeggiando il ventennale della nascita delle emittenti private e intitolando il loro disco del 1995: “RadioMatia”).

Del resto, il chitarrista Carlo Marrale ebbe a dichiarare: “Sapevamo benissimo a cosa andavamo incontro, addentrandoci in un operazione così pionieristica…”
La conclusione della trilogia iniziata con “Berlino, Parigi, Londra” è anche la conclusione del periodo artistico più avanguardistico dei Matia Bazar: un triennio in cui la formazione ha lavorato essenzialmente per se stessa, per il proprio piacere personale, ignorando le pressioni del music business, costruendo un repertorio sonoro a cui, come accennavamo, si sono riagganciati in molti, e si prova una strana sensazione a sentire certe atmosfere degli Ustmamò di Mara Redeghieri, che sembrano mutuate dai Bazar Anni Ottanta…

Nel 1985, partecipando a Sanremo con “Souvenir”, i Matia Bazar si lasciano alle spalle gli sperimentalismi del passato per rivolgersi ad una poetica in cui riaffiorano le basi melodiche che caratterizzavano le armonie di Marrale-Cassano, come l’indimenticata “Cavallo bianco”, unite ad un certo gusto dandy, decadente nel senso non deteriore del termine.

“Souvenir”, che ottiene il Premio della Critica al Festival, anticipa di qualche mese la pubblicazione del nuovo album del gruppo, “Melancholìa” (1985), il titolo che lo scrittore e filosofo Jean Paul Sartre voleva originariamente dare al suo capolavoro “La nausea”.

Si tratta di un lavoro straordinariamente felice e compatto, elegante e raffinato, che s’inserisce come uno dei pochi prodotti italiani, in quella seconda metà Anni Ottanta invasa dal predominio musicale straniero, tra Sting e il new cool raffinato di Sade, in grado di non sfigurare nelle trasferte artistiche… fuori penisola.

Addolcendo i toni, inserendosi in una corrente musicale che rimanda a formazioni quali i Tuxedomoon o i Working Week, mentre poco tempo prima il termine di paragone poteva forse essere rappresentato dai Tangerine Dream, i Matia approdano finalmente ad un sound compiutamente europeo.

Le chitarre di Carlo Marrale ritornano a pulsare forti e potenti, la voce di Antonella s’addentra in territori vocalmente arditi, il non comune talento ritmico di Giancarlo Golzi si sdogana dalle batterie elettroniche del passato per… riguadagnare l’ovile, e il talento organizzativo… inglese di Sergio Cossu supervisiona l’intero lavoro.

L’incipit del disco, “Ti sento”, si colloca immediatamente ai primissimi posti delle classifiche europee, ma le preziosità del disco stanno forse da un’altra parte: nel tormentato lamento d’amore di “Angelina” (ove si fa del sarcasmo sul passato dei Matia, annunciando che Mister Mandarino non vola più), nell’ipnotismo evocatore di “Amami”, nella minisuite che collega “Cose” a “Da qui a…” in un unico blocco new-wave di straordinario impatto.

L’appetibilità di una proposta musicale così vincente convince i Bazar ad una lunghissima tournée europea. Spronati dal loro produttore di sempre, Roberto Colombo, i Matia ottengono lusinghieri riconoscimenti proprio nei paesi ove li si criticava perché eccessivamente “sinfonici”.

Con il definitivo ingresso in formazione di Sergio Cossu, tastierista numero tre dopo Piero Cassano e il fulmineo Mauro Sabbione, il gruppo guadagna in stabilità.

Dopo lunghi mesi di concerti che “assorbono” l’intero 1986, i Matia si rimettono al lavoro per il nuovo album: si tratta di “Melò” (1987), un disco notevole, unico parziale insuccesso nel carniere della formazione genovese. Qui la ricerca di un suono mediterraneo, caldo, “colorato” appare evidente.

“Melò” rivela nei credits l’assenza di Carlo Marrale in fase compositiva, ma questa mancanza viene mitigata dal lavoro intensissimo degli altri Matia, a cui si aggiunge come collaboratore esterno (già fin dal 1981, ndr) Marco Guzzetti; il disco si affaccia sulle sponde del jazz attraverso il recupero di atmosfere care a Thelonius Monk (“Oggi è già domani… intorno a mezzanotte”), recupera istintualità blues e funky (“Grande piccolo mondo”), si concede un tappeto ritmico totalmente scritto da Antonella Ruggiero (“Aria”), unisce la dance a reminiscenze funky (“Mi manchi ancora”), chiude alla grande con uno stupendo esempio di lirismo d’atmosfera (“Vaghe stelle dell’orsa”), probabilmente uno dei momenti più felici dell’intera produzione del Bazar.

La letteratura e il cinema si rincorrono nei testi bellissimi di Aldo Stellita, mentre è straordinaria la resa sonora dell’album, registrato alla Maison Blanche di Modena assieme a musicisti e tecnici dell’area bolognese. Certo sembra di guardare in faccia un altro gruppo, rispetto a quello che nel 1984 si concedeva un “dedalo sonoro” quale “Mosca Helzapoppin”, brano mutuato assemblando suoni originari ad altri tratti dall’opera rock “The snowman”: ma della poliedricità, dell’imprevedibilità dei Bazar tutti sapevano, esegeti e detrattori.

Proprio in questo periodo, così fecondo dal punto di vista ispirativo, iniziano i primi attriti all’interno del gruppo, legati a motivazioni non solo artistiche ma interpersonali.

Quando partecipano a Sanremo 88 con “La prima stella della sera”, che ripercorre le strade melodiche del passato, i Matia hanno già deciso che non rinnoveranno il contratto discografico in questa formazione. Eppure la critica musicale presente nel bailamme sanremese non esita ad indicare Antonella e soci come gli unici “indiscutibili” di talento ospiti in Riviera. Nel testamento del complesso è anche un esplicito omaggio al Bazar che fu: un disco senza sperimentalismi e aggressività sonore, ma prezioso nella sua semplicità, a tratti malinconico, con il recupero della coppia vocale Ruggiero-Marrale e un mucchio di “belle canzoni d’amore“old styled.

“Red Corner”, angolo rosso del cuore e della memoria, si fregia di una copertina elaborata fotograficamente da Carlo Marrale e si muove tra echi nostalgici simil-tango (“Besame”, in cui si parla di AIDS), formidabili rock sanguigni (“Caccia alle streghe”, sarcastico ritratto di un’Italia fine Anni Ottanta) irresistibili odi al legame di coppia (“Stringimi”; “Sentimentale”) e una chiusura di sipario degna di tutto quanto realizzato dai Matia in quindici anni di carriera, vale a dire “Nell’era delle automobili”; due minuti di jazz da brivido sulla schiena.

Nelle note interne di copertina i Matia Bazar ringraziano Edoardo Bennato per l’intervento in “Winnie”, ma soprattutto il loro pubblico, per una presenza affettuosa e costante attraverso così tanti cambiamenti di stile e di… fede sonora.

Immagine articolo Fucine MuteAntonella Ruggiero, che per un bel po’ d’anni a venire vorrà scordarsi della sua appartenenza ai Matia, fornisce una testimonianza toccante degli ultimi fuochi con il gruppo: “Ricordo l’ultimo concerto insieme, una sera di fine settembre 1989; si trattava di un’esibizione all’aperto, al Parco Lambro a Milano. Mentre cantavo iniziò a piovere… Io mentalmente salutavo il pubblico, pensando alle valigie pronte a casa. Non era soltanto la fine di una lunga tournée, perché il giorno seguente saremmo andati tutti in vacanza, ma anche la fine di un periodo della mia vita, perché di fatto il complesso non esisteva più: ma questo i nostri fan non lo sapevano ancora…”.

Uniti da un irresistibile amore per la musica in tutte le sue forme, incapaci di tirarsi indietro di fronte ad una nuova sfida musicale, i Matia Bazar hanno pagato sempre in prima persona le loro ardite scelte, e non a caso in molti sorrisero con sciocca superiorità quando dalle melodie traboccanti di miele quali “Italian sinfonia” o “Il tempo del sole” (entrambe pubblicate nel 1980)

Il gruppo passò al punk mitteleuropeo di “Berlino Parigi Londra”.

Suddetti signori dimenticano, purtroppo, che già nel succitato album “Il tempo del sole” Antonella si produceva in un brano quasi progressive come “Non mi fermare”, e che in generale salvo gli inizi la formazione genovese ha sempre cercato di diversificare il proprio linguaggio musicale.

Volendo addentrarsi in una disamina delle singole individualità dei Matia Bazar, non si può fare a meno di notare il carattere… d’indispensabilità di ognuno di loro: dal “maître a penser” Aldo Stellita, straordinaria figura di poeta introverso, sognatore e generoso, che ha lasciato orfani i Matia nel 1998; a Carlo Marrale equilibrista delle sei corde, artefice di quel carattere caldo, esotico, “mediterraneo” come si diceva, che non è mai mancato neppure nelle prove discografiche più ostiche del gruppo; da Giancarlo Golzi, motore ritmico della formazione ed attuale titolare del “marchio” Matia Bazar, a Sergio Cossu, mai mera presenza dietro le tastiere, forse l’uomo- chiave per i Bazar degli Anni Ottanta, per l’autonomia di un suono “nuovo”, “moderno”.

Antonella Ruggiero, la dolcissima Antonella dagli occhi magnetici, ha rappresentato ben di più che una cantante per il complesso nato nelle cantine del Porto di Genova: a tutt’oggi, nonostante a lei sia subentrata prima Laura Valente e Silvia Mezzanotte poi, rimane l’icona femminile con cui si identificano i Matia Bazar.

Certe ferite non si rimarginano facilmente: il successo “retroattivo” di un progetto discografico quale “Registrazioni moderne” (1997) in cui la Ruggiero rivive il suo tempo migliore nei Bazar circondandosi di gruppi del Duemila che all’epoca di “Vacanze romane” andavano ancora a scuola, dimostra come l’affetto (per un gruppo, per un determinata serenità temporale o sociale, per un sistema di note incrociate che ristagnano nella memoria) non sia acqua.

Quel settembre 1989, quindi, i Matia chiusero i battenti: e bisognerà aspettare il 1991 per ritrovarli, a sorpresa, affiancati da una nuova vocalist come Laura Valente, che riporterà il complesso ad un sound “quotidiano”, sentimentale, non privo di qualità.

Altri passaggi temporali, altri abbandoni, soffertissime vicissitudini che portarono peso alla leggenda di un gruppo fortemente instabile (come confermò la Ruggiero: “Siamo degli schizofrenici di base, non riusciamo ad essere una sola storia: siamo tante storie”) e siamo all’oggi, alle redini del gruppo prese da Giancarlo Golzi, che del senso dei Matia Bazar nella sua vita ha lapidariamente riferito: “Sono sempre stati una fede, per me…”.

L’era 2000 è targata Silvia Mezzanotte, voce preziosa (“Brivido caldo”) e in un modo o nell’altro, il nome Matia Bazar ci accompagna ancora.

Ma questa è, decisamente, tutta un’altra storia…

DISCOGRAFIA RAGIONATA

“Berlino, Parigi, Londra” (1982): Lili Marleen; Io ti voglio adesso; Passa la voglia (Look at the rain fall); Che canzone è; Fortuna; Fantasia; Stella Polare; Zeta; Fuori orario; Astra.

“Tango” (1983): Vacanze Romane; Palestina; Elettroshock; Intellighenzia; Il video sono io; Scacco un po’ matto; Tango nel fango; I bambini di poi.

“Aristocratica” (1984): Aristocratica; Carmen; Luci al neon; Logica attenuante; Sulla scia; Mosca Helzapoppin; Ultima Volontà; Milady.

“Melancholia” (1985): Ti sento; Via col vento; Amami; Souvenir; Fiumi di parole; Angelina; Cose; Da qui a…

“Melò” (1987): Noi; Mi manchi ancora; Dieci piccoli indiani; Grande piccolo mondo; Oggi è già domani… intorno a mezzanotte; Aria; Ai confini della realtà; In nome della luna piena; Vaghe stelle dell’orsa.

“Red Corner” (1989): Stringimi; Besame; Il Mare; Sentimentale; Caccia alle streghe; Cuba, Se tu; Cuore irlandese; Winnie; Nell’era delle automobili.

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